Sguardi Multifocali



di Roberto Santoro (presidente Acli Torino)
I contenuti importanti proposti da Papa Francesco in questo scorcio del suo pontificato sono davvero molteplici e coprono i più differenti ambiti della nostra vita. Emerge – meno evidente – una indicazione, diciamo così, ‘metodologica’ che pervade il suo ‘anomalo’ governo di questa complessissima e antica istituzione che è la Chiesa Cattolica: mi riferisco al ‘metodo sinodale’, che ha adottato in prima persona fin dall’inizio con la creazione di un ‘gruppo’ di otto cardinali, provenienti dai cinque Continenti, per “consigliarlo nel governo della Chiesa universale”. Credo che la minore attenzione mediatica e ecclesiale verso questa indicazione metodologica abbia un significato importante: ne sottolinea la radicalità e la profonda incisività che essa ha nella vita della Chiesa, in quanto trasforma la sua più forte e forse più inattuale caratteristica, ovvero quella di costruire gerarchie verticali che culminano a tutti i livelli in un unico ‘punto decisionale’, indiscutibile in quanto portatore di verità assolute.
Papa Francesco coniuga inoltre questa sua ‘visione organizzativa’ con la sua propensione a ribaltare costantemente il rapporto fra centro e periferie, del mondo fisico, ma anche esistenziali, ponendo le ultime al centro di ogni sua azione. Propone così una radicale ‘rivoluzione’, che induce nella migliore delle ipotesi disorientamento e nella peggiore terrore, in chi teme di perdere rendite di posizione acquisite nel tempo al consolidarsi di una nuova visione dei rapporti di forza e potere, dentro e fuori la Chiesa. E’ plausibile ritenere che il processo che Papa Francesco ha avviato fosse inevitabile, determinato dagli enormi cambiamenti che il mondo ha conosciuto negli ultimi trent’anni, trasformazioni che a loro volta hanno determinato una radicale complessificazione dei punti di osservazione sugli eventi della storia dell’umanità e sul loro significato.
Questo processo che impegna la Chiesa Cattolica interpella un’associazione come la nostra? Sono presenti nel percorso che con determinazione porta avanti il Papa stimoli per una riflessione sul senso del nostro essere oggi? Sui nostri modelli organizzativi? Il percorso verso il nostro congresso rappresenta una enorme opportunità in questo senso: di confronto, certamente, ma anche di azione concreta per la revisione della nostra struttura organizzativa al fine di renderla più aderente alle esigenze dell’oggi. Credo vi sia una domanda fondamentale da porre alla base di questo processo, per orientarlo e per non renderlo autoreferente: come associazione a nome di chi parliamo oggi? Con quale mandato operano le diverse autorità organizzative che si muovono ai differenti livelli?
Parto da me, per non chiamarmi fuori e provare a non essere troppo retorico e didattico: a chi risponde la mia azione quotidiana? Quando prendo la parola, in contesti interni o esterni, quale ‘mondo’ ho innanzi? Innanzitutto un mondo in cui è difficile semplificare, dove gli interessi in gioco sono molti e i diritti, quando chiaramente identificabili, spesso sono in contrasto tra loro. Un ‘mondo’ multiforme, variegato culturalmente, ma anche frammentato, dove alcune donne e uomini non riescono neppure a presentare i loro bisogni, non hanno parola. Raccogliere le loro voci con la speranza di comprenderle, significa innanzitutto essere presenti là dove essi possono parlare, nei territori più lontani e periferici dal nostro ‘centro associativo’.
La prospettiva che vorrei proporre è quella di lavorare insieme per consolidare e rinnovare le Acli come esperienza di ‘neoumanesimo organizzativo’. Di seguito alcuni punti fondamentali per costruire una simile prospettiva.
  1. Superare una visione di organizzazione come un insieme definito di strutture (fisiche e procedurali), piuttosto pensare l’organizzazione come un divenire continuo, una dimensione di costruzione, anzi meglio, di co-costruzione permanente: costruzione di obiettivi negoziati tra i suoi membri, costruzione di procedure spesso più locali che centrali, costruzione di strategie che necessariamente, in qualche forma, devono essere fatte proprie dai singoli, costruzione infine di significati condivisi rispetto a ciò che si procede a realizzare. Questo aspetto è fondamentale nel momento in cui si “pensano” i processi di cambiamento organizzativo, ingestibili senza un’adeguata attenzione al sentire dei soggetti che popolano l’organizzazione. Il contesto socio culturale ed economico della nostra società contemporanea è caratterizzato da un’elevata variabilità, flessibilità, incertezza, e complessità: pensate come esempio al tema dei bisogni che incontriamo come aclisti sui nostri territori o incontrano le donne e gli uomini che operano nel nostro sistema di servizi e di imprese. Si tratta, mi pare, di bisogni sempre meno codificati, sempre più nuovi e mutevoli, sempre più articolati e profondi, non più facilmente affrontabili, non dico risolvibili, con una casistica predefinita e precisa. Questo è il tipico esempio che richiama alla dimensione di una organizzazione che “ascolta” il proprio territorio, ma lo fa necessariamente attraverso l’orecchio e la sensibilità delle donne e degli uomini che la popolano: la dimensione sensoriale, cognitiva, emotiva della nostra organizzazione poggia su chi la vive quotidianamente. Nelle nostre organizzazioni occorre far riemergere le persone, con la loro singolarità, i loro contesti esistenziali, i loro vissuti, le loro aspettative e i loro significati, le loro qualità e risorse e di mettertele al primo posto con il convincimento che sono i soggetti, piuttosto che i sistemi di produzione e le tecnologie, i maggiori responsabili del cambiamento.
  2. Dare rilevanza alle “periferie”, fisiche e simboliche, della nostra società:nel momento in cui sembra venuta meno la prevalenza culturale di un “centro” che elabora una narrazione a favore di un intero gruppo sociale, diventa importante provare a ripensare l’organizzazione, a partire dal significato delle nostre strutture di base, in modo che sia in grado di esaltare il valore della singola persona nel singolo contesto territoriale. La ramificazione e il radicamento territoriale sono elementi fondamentali per il nostro movimento, in grado di raccogliere pressoché in “presa diretta” i mutamenti della nostra società: il problema per la nostra Associazione diventa quello di riuscire a valorizzare le singole esperienze delle donne e degli uomini che appartengono al nostro movimento o che incontriamo sui territori, di costruire con essi “contesti relazionali formativi” che siano in grado di “dare e ricevere” allo stesso tempo significato al nostro vivere in società, nell’oggi.
  3. Ripensare i nostri contesti organizzativi, anche temporanei, creando insieme condizioni che facilitino e provochino ascolto, ripensamento, rielaborazione: un circolo, una presidenza, un consiglio direttivo o di amministrazione, un incontro con i dipendenti del sistema, possono essere progettate e condotte come realtà socio organizzative articolate, in cui i partecipanti, con i rispettivi e differenti ruoli sono parte costituente del sistema organizzativo, “fanno e diventano l’organizzazione”. I ruoli e le responsabilità non vengono scardinati: è però permesso e richiesto alle persone di sperimentare nuove appartenenze, relazioni inusuali e nuovi comportamenti organizzativi. E’ di certo insita in questa posizione una dose di riflessione utopica sulla nostra organizzazione, in un senso però in cui l’utopia organizzativa è pensata, utilizzando le parole di Bruno Rossi, studioso di organizzazioni, come la “forza generatrice e alimentatrice di ogni serio progetto di innovazione organizzativa […], il quale non può non fare capo all’idea di un mondo diverso dall’esistente, […] non può non rompere con il presente, non può non battersi per l’oltrepassamento del qui ed ora, non può non essere sensibile alla sfida del futuro e della differenza, non può non configurare un’esistenza […] diversa in nome di ideali forti degni di essere perseguiti per la riumanizzazione dell’uomo e per il perseguimento del suo più e del suo meglio, in nome di valori e significati in grado di renderla non tanto sopportabile quanto desiderabile e apprezzabile”.
  4. Dotare di “potere” i soggetti organizzativi, nella direzione del perseguimento di un “doppio progetto”: l’autorealizzazione del singolo e il successo dell’organizzazione, la gratificazione delle aspettative individuali e la soddisfazione dei bisogni collettivi. Un’azione organizzativa e sociale di questa natura produce un cambiamento positivo sia per il singolo che per la realtà organizzativa e sociale specifica. Ciò può avere degli esiti interessanti e utili anche al fine di “fare movimento”: innanzitutto si caratterizza “l’oggetto organizzativo e sociale” come appartenente a tutti coloro che intendono farsene carico, risvegliando il piacere della “proprietà comune del sociale” contro l’appropriazione indebita da parte della dimensione privata di ciascuno di noi; si mobilita inoltre l’intraprendenza del soggetto adulto nel gestire il proprio contesto; si attribuisce infine senso alla fatica del vivere insieme nei territori.
  5. Adottare una reale “prospettiva interculturale” nella nostra azione educativa all’interno delle organizzazioni, che non si rivolga unicamente a chi proviene da paesi lontani, ma valorizzi ogni diversità, provando a renderla ‘uno dei punti di vista possibili’ sulla realtà complessa con cui abbiamo a che fare. Mi pare ragionevole e utile, a partire da quanto detto prima, rappresentare la tensione educativa nei nostri contesti come sensibilità alla costruzione di spazi e tempi di dialogo e di condivisione di esperienze, rispettando le diversità che si incontrano nei territori: diversità di genere, di età, di condizione sociale, di provenienza geografica e storia personale e nel nostro caso anche associativa. Risulta molto importante imparare a considerare il nostro come uno dei punti di osservazione possibile, il quale richiede la condivisione e l’accettazione, non supina, ma valorizzante, del punto di vista altro, unico percorso possibile per costruire una rappresentazione adeguata della realtà esterna. Solo questa prospettiva sommativa e non esclusiva ci permette realmente di orientarci nella società contemporanea, provando a non lasciare indietro una moltitudine di donne e uomini, schiacciati dall’arroganza di un’unica finestra da cui osservare il mondo.
  6. Compito delle autorità organizzative e sociali diventa quello di innalzare il livello di possibilità di azione delle persone che in essa stanno: con ciò intendendo la possibilità per queste di dirigere personalmente il loro itinerario di sviluppo e crescita, la possibilità di riconoscersi come dotate di valore, di poter agire realmente dentro l’organizzazione come soggetti individuali e collettivi allo stesso tempo, capaci di guidare il cambiamento a partire dai segnali percepiti nel rapporto con l’ambiente esterno. Chi ha il compito di dirigere l’organizzazione si assume così il compito di lavorare per il riconoscimento dei tipici poteri di ogni essere umano, operando per accreditarne l’originalità affettiva, cognitiva, etica ed estetica, considerando ogni singolo individuo come un nodo importante di una significativa rete relazionale. Chi ha potere nell’organizzazione riumanizzata si preoccupa di incrementare e non limitare i canali comunicativi, provando a coinvolgere più destinatari possibili, supportando la vitalità, la ricchezza intellettuale, le intuizioni, le capacità di problematizzare prima ancora che quella di risolvere i problemi. Nella vita delle organizzazioni irrompe la singolarità del soggetto, non come rischio per il potere organizzativo, ma come risorsa: naturalmente nel caso in cui questo potere accetti di essere distribuito, multifocale e non centralizzato e predeterminante l’intero funzionamento organizzativo.
Il congresso che ci aspetta è una occasione importante per produrre un cambiamento centrato sulle persone e capace di costruire coesione. Non riduciamolo ad una liturgia scontata, ma proviamo a renderlo generativo!

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