La nuova frontiera


di Davide Caviglia 
Acquisiti e celebrati tutti i meriti che le Acli hanno avuto in questi 70 anni di storia, penso che oggi sia più utile porsi alcune domande, che riassumerei in una sola:abbiamo la voglia e la forza di affrontare le sfide del presente?
Su questo vorrei dire la mia, consapevole del fatto che le mie sono considerazioni essenzialmente personali, frutto di questi anni trascorsi cercando di svolgere al meglio i ruoli che mi sono stati affidati.
1.
Siamo una associazione pienamente coinvolta nella crisi dei “corpi intermedi”, che abbiamo contribuito a generare, perchè se è vero che siamo associazione radicata sul territorio e popolare, è anche vero che siamo cresciuti in stretta relazione con un sistema politico e sociale che col progresso ha portato anche qualche guasto non piccolo.
2.
Ci siamo fatti istituzione, perché era necessario, ma anche per darci forza. Abbiamo il dovere della rappresentanza, non solo dei lavoratori ma di tutta la base della nostra piramide sociale, che si è allargata mostruosamente, che si è “liquefatta”: il nostro corpo solido oggi vuole arginare una piena o essere la pila di un ponte?
Poi si sa, le istituzioni sono autorevoli quando funzionano, ma se entrano in crisi fanno fatica a cambiare, soprattutto per iniziativa propria. Oggi quasi tutte le istituzioni sono in crisi.
Penso ci voglia una stagione di vera “de-istituzionalizzazione delle Acli,” per recuperare energie, che oggi sono “statiche”, buone per tenere in piedi una casa (forse), per ritornare alla “rappresentanza” e sfuggire dal rischio della “rappresentazione” dei nostri soci, della nostra gente e del nostro popolo.
Su questa strada vedo come scelta giusta un ripensamento dei nostri organi di governo, a tutti i livelli, che possono acquisire efficienza e forza in una riduzione numerica, in una semplificazione burocratica. So di non essere originale, sto semplicemente riprendendo quello che abbiamo approvato nella recente Assemblea Straordinaria, che non è stata brillante come avremmo voluto, ma c’è stata e non va relegata ad un evento banale.
3.
Una particolare attenzione penso meriti la “questione generazionale”. Non possiamo dire di essere un’associazione giovane, che nella sua generalità sa parlare con i giovani.
E’ vero che nella dimensione territoriale possiamo vantare belle esperienze, che in realtà come IPSIA il contatto con le nuove generazioni è costante e che sotto questo profilo anche il Servizio Civile ci sta dando una grande mano. Ma a noi manca l’apporto determinante del “nativi digitali” (che oggi arrivano ad avere 30 anni!) e scontiamo un rapporto irrisolto con la generazione dei 30-40 anni. Un tema forte è quello dell’offerta associativa che siamo in grado di mettere in campo, sia sul piano dei “temi” sia sul piano della “sostenibilità” e del “coinvolgimento”. Il “quotidiano” degli studenti e dei giovani lavoratori sono sicuramente cambianti almeno negli ultimi trent’anni.
Allora mi permetto di condividere alcune domande: quanto le nostre modalità “aggregazione” si sono adeguate anche a questi cambiamenti? Quale spazio per l’azione volontaria è rimasta disponbile per queste generazioni? Riusciamo a mettere in campo un modo diverso di dare voce e corpo alla partecipazione giovanile (io intendo tra i 16 e 24 anni), che vada al di là dell’adesione ad una “associazione specifica” ad-hoc?
Non sto proponendo la chiusura di GA, ma piuttosto, di fare una riflessione franca e profonda su come le nuove generazioni abitano la nostra associazione.
4.
Abitare il presente oggi vuole anche dire misurarsi con la società dell’informazione, con una realtà post-industriale che ha cambiato sostanzialmente tutti i paradigmi economici e sociali, introducendo termini nuovi nel catalogo dei mezzi di produzione e stravolgendo quelli tradizionali.
Quello attuale è stato definito dal sociologo Manuel Castells mondo del “capitalismo informazionale”, dove lo status economico e sociale è sempre più intrecciato con la capacità di gestire informazioni e comunicazione.
Un grande soggetto collettivo come le Acli, che mette insieme proposte di comunità e gestione di imprese non può prescindere da questa realtà, non solo per la propria sopravvivenza, ma come ruolo specifico di promozione nei confronti della società. Come facciamo promozione sociale in questo contesto? Quali le occasioni che le nostre imprese possono cogliere?
La capacità di utilizzare dati e informazioni che transitando dentro le nostre realtà è un’arma potente che dobbiamo affinare. Dove è stato fatto la nostra azione ne ha tratto grande vantaggio. Ma questo forse non basta ad esaurire il nostro compito nei confronti della società, a partire dai nostri isciritti. Possiamo giocare un ruolo importante per costruire una “intelligenza collettiva”, che offra occasioni di scambio con altre realtà sociali, che metta a disposizione nuovi strumenti per interpretare la realtà e i suoi mutamenti, che proponga spazi di discussione fondati sulla realtà “data” piuttosto che su quella “raccontata”.
C’è grande movimento intorno a questi temi, in tutto il mondo: basti pensare al principio dell’Open Governament sostenuto tra gli altri dallo stesso Obama, che non si ferma alla trasparenza dell’azione di governo, ma evoca esplicitamente partecipazione e collaborazione, fornendo strumenti specifici, tra i quali gli Opendata, appunto: dati liberi, intesi come informazioni, pubbliche o no, rese accessibili e riutilizzabili da chiunque per qualunque fine, nel rispetto di termini di licenza specifici.
Le chiamate che ci arrivano dalla contemporaneità sono molte e complesse. Rappresentano una sfida e una grande occasione di “rigenerazione”, che la nostra storia e in larga misura il nostro presente, ci permettono di affrontare. Dobbiamo recuperare lo spirito dell’associazione di frontiera, che occupa le “praterie” lasciate libere soprattutto dalla politica, ma spesso anche dalla chiesa, per organizzare una risposta collettiva, consapevole e matura.

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