Come si associano gli altri

Di Luca Piazzi (Ipsia)
Vorrei condividere uno stimolo che viene dal lavoro con le associazioni di immigrati e i partner dall’estero. Diciamo a volte che questi contatti dovrebbero essere una occasione di reciproco arricchimento e una occasione anche per noi di ricevere stimoli sul nostro pensare l’associarsi. Proverei a tradurre un po’ queste sottolineature, spesso retoriche, in pratica.
Un aspetto che ritorna di frequente nell’associarsi di altri contesti geografici, e delle associazioni di immigrati in Italia, è l’intreccio di dimensione sociale e dimensione economica. Caso emblematico è la realtà del Gruppo di Interesse Economico, GIE, che rappresenta in Senegal una sorta di cellula base del passaggio dall’economia informale a quella formale. Possiamo pensare il GIE come una piccola cooperativa, registrata, in cui però permane la componente relazionale e mutualistica di una associazione. Si ha un obiettivo lavorativo, ma spesso il lavoro nel GIE è integrativo a altre occupazioni, non rappresenta il 100% dell’investimento del singolo in termini di tempo e impegno.
Come si traduce questa idea in Italia? Mi sembra interessante che l’associarsi dei migranti trovi nella formula dell’APS la soluzione più congeniale, per quanto non riesca sempre a realizzarla a livello gestionale. Se chiediamo agli interessati la ragione di tale preferenza, ad esempio rispetto a costituirsi come Organizzazione di Volontariato, una schietta risposta sarebbe: perché in una APS i soci possono essere dipendenti/retribuiti. Sottolineo che ho ritrovato la stessa motivazione nel costituire una APS da parte di gruppi di giovani che volevano dare una struttura più riconosciuta a delle attività nate spontaneamente sul territorio, come le scuole di italiano per stranieri.
Questo a ennesima riprova del fatto che il lavoro con una diversità (ad esempio quella culturale portata dai migranti) è un esercizio di elasticità mentale che permette di avvicinarsi maggiormente anche ad altre diversità, ad esempio intergenerazionali.
Il processo trasformativo che vorremmo portare avanti nella direzione di una associazione che sia al proprio interno un laboratorio interculturale, probabilmente gioverebbe in generale con tutte le relazioni alla diversità.
Una visione associativa che riconosca l’intrecciarsi delle componenti sociali e economiche avrebbe a mio avviso meno difficoltà a riconoscere un dato di fatto delle Acli di oggi, e a sfruttare tale realtà come una risorsa.
Penso alla centralità per lo sviluppo associativo di una figura sociale che definirei il “socio-lavoratore”, non a caso un termine da mondo del cooperativismo. Una figura che è allo stesso tempo partecipe su base volontaria della dimensione associativa dei territori, e legato a livello lavorativo, o di servizio civile, o collaboratore, con le Acli o i propri servizi e associazioni specifiche.
Se guardo alla componente più giovane della struttura associativa, questa figura mi sembra rappresentare anche numericamente il perno della linfa vitale delle Acli.
Ma per un pensiero che scinde associazione e servizi, dimensione lavorativa e volontaria, questa figura risulta residuale. Oppure si considera la persona su due piani distinti, non riuscendo a valorizzare nello sviluppo dell’associazione quello che è invece il punto principale: ossia il fatto che è solo non pensando i due piani come distinti che si può cogliere il nocciolo della questione, e della persona nella sua appartenenza associativa.
Il contatto con altre forme associative e altre culture ci aiuta a vedere più chiaramente anche aspetti della nostra realtà, che pure uno sguardo abitudinario rischia di non cogliere.


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