Domenico Rosati
Cosa posso aggiungere ad una così completa rievocazione, che ha riproposto qui l’itinerario delle ACLI di Lecco, delle vostre Acli, di quelle che voi avete conosciuto e costruito, dentro le quali avete realizzato la vostra esperienza? Al livello e nell’ambito in cui avete rievocato il vostro vissuto io non posso veramente aggiungere niente, se non un commento o un’impressione. Ma non è questo che voi aspettate, penso.
Consentitemi subito una sottolineatura: io non metterei fuori campo l’emotività dei sentimenti, che ho colto qui nelle parole e nelle voci di Bertelè, ma anche di altri. Le persone che hanno fatto una grande organizzazione, che ha immerso i suoi primi 40 anni dentro una storia così complessa come quella del nostro paese, possono avere bene il diritto (e il dovere anche) di commuoversi quando ricordano le vicende, quando rammentano le figure dei protagonisti e dei militanti.
Io sono convinto che il non reprimere la ricchezza dei sentimenti è una qualità caratteristica della nostra organizzazione. E nel sottolinearlo, penso ad uno dei nostri presidenti nazionali che non c’è più, che è scomparso giovanissimo, all’improvviso: Marino Carboni, il quale, entrato nel 1976 nella vicenda politica, entrato insieme all’amico Citterio – mi diceva pochi giorni prima di morire: Ho nostalgia delle Acli, perché nell’ambiente in cui mi trovo vige una durezza di rapporti che da noi è sconosciuta.
Sia chiaro, lo dico soprattutto per gli ospiti, le Acli non sono un’organizzazione di angeli: dentro le Acli si è praticato il gioco maschio (come usa dire Giovanni Bianchi che è di queste parti) si è battagliato aspramente su questioni vere e meno vere, sempre però con grande impegno e grande dinamismo. Non si tratta qui di mettere la cornice ad un quadretto sulla coltivazione dei buoni sentimenti. Ma trascurare il dato sarebbe non comprendere le Acli: parlo di questi elementi di rispetto, di fiducia reciproca, di capacità di superare, sul piano dei rapporti personali, le difficoltà della contrapposizione politica. Sono tanti anni ormai che sono presidente nazionale delle Acli – forse troppi – ma sento di poter dire che personalmente non ho nemici, o per lo meno non mi sento nemico di nessuno dentro le Acli. E’ comunque questa, la prima notazione che volevo fare. Mi pare significativa e distintiva.
Se poi mi si chiede di cogliere la peculiarità delle Acli di Lecco, dico che non saprei comprenderla se non dentro l’esperienza della diocesi ambrosiana; la nascita e lo sviluppo cioè dell’organizzazione dei lavoratori cristiani in una zona bianca, in una zona di chiesa strutturata, per cui si può dire davvero che qui le Acli nascono spontaneamente, o quasi. C’è una direttiva, oggi diremmo un piano pastorale – e le Acli affiorano dalle parrocchie, così, naturalmente.
Altrove è diverso, per esempio la genesi delle Acli nell’Italia meridionale è in qualche modo più laica, forse più politica, talora più clientelare, perché non c’è questa tradizione di chiesa strutturata. Fin dall’inizio insomma, le Acli rappresentano una realtà molto complessa, non solo dal punto di vista sociale, ma anche dal punto di vista geo-politico.
Ma le Acli nascono in tutta Italia, tra il 44 e il 45, in un clima particolare che le unifica e le segna in modo indelebile: è il clima della democrazia. E’ la stagione dell’entusiasmo e della speranza, quando – anch’io sono stato giovanissimo in quegli anni – accadeva di saltare la scuola per andare ad ascoltare De Gasperi, Nenni o Togliatti che parlavano in piazza. A me sembrava incredibile che si potessero esprimere opinioni così diverse quando la regola generale che conoscevo era quella per cui uno solo aveva sempre ragione. E forse chi ha fatto allora in modo così traumatico la scoperta della libertà ha incorporato quel vaccino che rende refrattari anche di fronte alle… controfigure di quelli che avevano (o pretendevano di avere) sempre ragione.
La conquista della democrazia, questa aria nuova che abbiamo respirato, avvenne in quel tempo; ed il clima di fiducia nella democrazia influì positivamente anche sulla Chiesa. Noi cattolici, a dire il vero, non siamo nati democratici. Eravamo un po’ ostili, nel 1800 ed anche prima, alla democrazia. Il primo accostamento esplicito e positivo della democrazia da parte dei cattolici si trova nei discorsi di Pio XII durante il periodo della guerra, nei radiomessaggi natalizi soprattutto.
Di questo stato di cose si deve tenere conto quando si analizza la genesi delle Acli. Una organizzazione nuova e piuttosto singolare. Si può dire che le Acli hanno due padri: uno laico che è Achille Grandi, ed uno ecclesiale che è Giovanni Battista Montini: e questa circostanza influisce sulla loro natura. Ma ciò che mi preme mettere in luce è che, nel 1944-45, quando si configura questo strumento di presenza sociale cristiana nel mondo del lavoro, tutti concordano con l’esigenza di dare ad esso una struttura interamente democratica.
E’ una novità nella tradizione dei cattolici in Italia. Le Acli fin dal loro inizio si sono scelte da sole i loro presidenti. Si pensi che nel 1945 l’Azione Cattolica è posta ancora sotto la direzione dell’episcopato, una misura presa da Pio XI per salvaguardarla dal fascismo. Le Acli vengono insomma legittimate fin dagli inizi con uno statuto interamente democratico. E’ questo un punto sul quale si riflette poco e che, secondo me, è all’origine della difficoltà che le Acli incontrano di essere capite e di farsi capire entro lo stesso luogo in cui erano state generate.
E’ innegabile una differenza di visione tra chi, come Achille Grandi, vedeva le Acli come strumento essenzialmente politico (la corrente cristiana della CGIL unitaria in cui si doveva stare insieme con i comunisti e i socialisti) e chi avvertiva di più un’esperienza pastorale e di apostolato, atteggiamento tipico di Papa Pio XII. E’ un’ambiguità di origine, un elemento di incertezza: la storia delle Acli mi pare contraddistinta da una continua oscillazione tra una polarità più ecclesiale e una polarità più politica, con escursioni che vengono ricondotte a sintesi che sono sempre provvisorie, precarie, e che vengono continuamente superate.
Perciò affermo che le Acli “facili” non sono mai esistite, né mai esisteranno. Per fornire un esempio di come non ci siano mai state le Acli “facili” riferisco un fato che è stato riportato su un libro pubblicato di recente da Mario Casella (M. Casella L’Azione Cattolica alla caduta del fascismo, Studium 1984) ma che non è mai stato sufficientemente divulgato. Il fatto è che il fondatore delle Acli, Achille Grandi, lasciò agli inizi del 1945 la presidenza delle Acli non di sua volontà, ma perché a ciò venne indotto dall’autorità ecclesiastica. E ciò perché, in occasione della verifica di una delegazione di sindacati sovietici in Italia, la CGIL unitaria aveva sottoscritto un documento di elogio e di solidarietà con parole di elevata considerazione per il contributo dell’Armata Rossa alla liberazione dal fascismo e dal nazismo, oltre che di interesse e ammirazione per le conquiste dello stato sovietico. Achille Grandi, come dirigente della CGIL, aveva firmato questo documento. Delle conseguenze di quel gesto non c’è traccia negli archivi delle Acli, ma il libro di Casella rivela che se ne interessarono il Card. Lavitrano, Presidente dell’Alta commissione per la direzione dell’Azione Cattolica ed il direttore dell’Azione Cattolica stessa. P. Gilla Gremigni. Grandi reagì con superiore dignità. In una lettera si dichiarò disponibile a lasciare la responsabilità di presidente della commissione provvisoria delle Acli, “Purchè si salvino queste necessarie istituzioni che già tanta cordiale adesione e consenso incontrano tra il clero ed i lavoratori cattolici italiani”. Si arrivò infine ad una mediazione che salvò le apparenze: vista la imminenza del primo congresso nazionale della CGIL unitaria dove Grandi sarebbe certamente risultato eletto segretario al pari di Di Vittorio e Lizzandri, era inutile che egli desse le proprie dimissioni per ragioni del contrasto intraecclesiale. Così, nelle cronache ufficiali delle Acli, si è letto finora che Achille Grandi lasciò la carica di presidente per dedicarsi al gravoso compito di Segretario Generale della CGIL.
Anche negli anni 50, quando vigeva la compattezza del mondo cattolico, le Acli non venivano considerate tra le entità più “affidabili”. In un rapporto di un centro studi milanesi (la Edison Volta?) inviato nel 1952 alla Segreteria di Stato, si lamenta, ad esempio, che a Sesto S. Giovanni gli aclisti andassero più d’accordo con i comunisti della CGIL che con gli imprenditori cattolici. Del 1953 è anche l’inchiesta delle Acli milanesi su “La classe operaia si difende” che denuncia tra l’altro le discriminazioni compiute dentro le fabbriche nei confronti dei lavoratori dell’area di sinistra. Le Acli non era certo filo-comuniste o filo-socialiste ma contestavano queste discriminazioni e le denunciavano. Da questa iniziativa prende la mossa la grande inchiesta parlamentare che venne proposta dagli onorevoli Buttè e Calvi sulle condizioni dei lavoratori nelle aziende e che può essere considerata l’atto genetico dello Statuto dei Lavoratori, una delle più significative conquiste per la dignità dei lavoratori nel nostro Paese.
A mio avviso le Acli sono sempre state “difficili” perché hanno rappresentato dentro il mondo cattolico italiano un elemento di contraddizione. Un anno prima che il Patriarca di Venezia Luciani fosse eletto Papa, col nome di Giovanni Paolo II, ebbi da lui un’udienza e mi presentai così: Eminenza, io non sono il presidente di una organizzazione, sono il presidente di un problema che esisterebbe anche se le Acli non ci fossero”. Quale è il problema? E’ quello del rapporto tra la Chiesa e il movimento operaio, due realtà che non si escludono per ragioni di principio, perché non c’è contraddizione tra Vangelo della giustizia e l’aspirazione di emancipazione del movimento operaio – ma che storicamente debbono registrare che tale contrapposizione è avvenuta. Sicchè le Acli si trovano su questa frontiera, per cui da un parte hanno potuto essere tacciate e di essere succubi del capitalismo, dall’altra parte di essere propense al cedimento nei confronti di ideologie o tendenze non accettabili.
Su questo crinale le Acli hanno avuto vicende singolari. Negli anni del passaggio dal centrismo al centro-sinistra (1958-1963) i socialisti erano considerati dei cattolici alla stregua dei comunisti dei quali erano alleati. Pur con molta cautela noi sostenevamo la linea che mirava ad un graduale ampliamento delle alleanze politiche, cioè l’apertura a sinistra. L’8 dicembre 1958 uscì su “Il quotidiano” l’organo dell’Azione Cattolica, un articolo di Giovanni Badget Bozzo: le Acli, vi si leggeva, stanno mutuando dai socialisti pericolose teorie che le portano a snaturare la loro fisionomia cristiana. Era bene che si intervenisse subito. Un intervento mediato dall’Assistente ecclesiastico ci fu, e si concluse nella opportunità che le Acli si distaccassero visibilmente dalla politica e venne fuori una curiosa situazione: per realizzare questo distacco (e cioè per depotenziare politicamente le Acli) la Segreteria di Stato (Card. Tardini) assunse il patrocinio della proposta delle incompatibilità tra cariche dirigenti nelle Acli e mandato parlamentare, una proposta che viceversa aveva una ragione interna di movimento volta al rafforzamento dell’autonomia delle Acli verso i partiti (leggi il partito, la DC) e quindi al potenziamento della loro incisività politica.
Non è questo il momento di affrontare la formulazione di un completo giudizio storico sulle vicende richiamate. Esse bastano però a sottolineare il carattere problematico dell’esperienza delle Acli: le Acli, cioè, come “problema” per la loro natura democratica dentro la comunità ecclesiale e come “problema” per la loro coerenza cristiana, in campo sociale dentro la storia del movimento operaio.
Personalmente ho trovato dovunque un grande rispetto da molti avversari per la mia convinzione di voler cambiare la società in nome dell’autonomia laica della mia coscienza cristiana. Ma nel momento in cui si passa dall’enunciazione all’individuazione delle scelte pratiche le resistenze si manifestano.
Sono un grande ammiratore del recente convegno di Loreto, ma ho paura che noi cattolici spesso pecchiamo per eccesso metodologico: discutiamo cioè molto sul punto se stare insieme, su come stare insieme, se stare più uniti o essere più articolati in modo pluralistico, ma sfuggiamo così al nodo dei contenuti. Se ci concentrassimo di più su questo – che cosa fare di fronte ai problemi del paese e dell’intera umanità – probabilmente ci potremmo ritrovare più uniti con alcuni e meno con altri, perché le scelte sarebbero discriminanti. Anche negli anni passati, comunque, i problemi erano di questa natura.
Da questa condizione nasce la tensione interna, riflesso della contraddizione continua delle Acli. Il presidente Pennazzato esclamava: fedeltà alla Chiesa, alla classe lavoratrice e alla democrazia, non tre fedeltà distinte, ma una sola fedeltà, realizzata nella sintesi del movimento. In essa non si dava contraddizione tra l’essere fedele alla Chiesa, alla democrazia e alla classe lavoratrice. Qui consisteva l’originalità della proposta ma anche la sfida che le Acli lanciavano a se stesse e al contesto in cui sii trovavano. Certe frizioni di oggi tra Comunione e Liberazione e Azione Cattolica non sono novità: non c’era meno frizione, negli anni 50, tra i Comitati Civici di Luigi Gedda e le Acli di Dino Pennazzato.
Le Acli di cui ho parlato finora sono un po’ astratte: sono le Acli del vertice. Ma gli episodi richiamati valgono a dare un’idea del ruolo svolto e della complessità della vicenda storica di cui il movimento è stato nel suo complesso protagonista.
Ma queste Acli sono soltanto la cresta dell’iceberg, l’epifenomeno rispetto alla sostanza. E la sostanza delle Acli sono le persone vive che vivono, in vario modo, la vita dell’organizzazione.
C’è stato un periodo in cui si poneva la distinzione tra i “militanti” – quelli cioè che avevano la coscienza piena di ciò che facevano – e i “soci comuni”, quelli che stavano nei circoli e bevevano la birra o il vino a seconda dei gusti. Ho sempre creduto che questa distinzione appartenesse ad una concezione della politica inaccettabile per noi. Penso infatti che la vera realtà delle Acli sia quella che si è realizzata nei circoli, nei nuclei, nelle province, nelle realtà di base. Si è realizzata come ha potuto, grazie agli impulsi ma anche alle lacune dei vertici.
Spesso a Roma ci lamentiamo perché i nostri programmi stentano ad essere applicati nelle realtà di base: ma ci siamo domandati quali siano le difficoltà che la gente incontra nell’attuarli?
Ricordo a questo proposito, un altro episodio: Vallombrosa 1970. Le Acli accennano in questa occasione ad una “ipotesi socialista”. Mi trovo a pranzo con la delegazione di una regione: gli amici sono preoccupati delle possibili ripercussioni di una scelta siffatta: temono che la base, di tradizione democristiana, possa essere disorientata. Consiglio di sollevare questa preoccupazione perché se ne discuta. Dopo qualche giorno però cominciano ad arrivare telegrammi di totale adesione tra i quali quelli dei dirigenti che avevano paventato i guasti dell’ipotesi socialista. C’era stata una sovrapposizione di vertici? La base non era stata sufficientemente ascoltata?
E’ buona regola non accusare mai la base perché “non segue”. Dobbiamo piuttosto confrontarci con la nostra capacità di regge il passo verso la gente.
Non ci sono, quindi, due Acli: c’è solo una realtà, quella di un grande movimento, dentro il quale in questi 40anni sono passati milioni di lavoratori iscritti ed altri milioni di cittadini hanno fruito dei nostri servizi, a cominciare dal Patronato, dalla formazione professionale, persone che hanno incontrato, dentro questa esperienza, principi e valori e che si sono quindi formati anche culturalmente e moralmente.
I dirigenti debbono avere piena coscienza del valore della sintesi offerta dalle Acli. Chi ha realizzato l’esperienza di base deve avere la coscienza di aver contribuito a mutamenti importanti e significati dentro la vita del nostro paese.
Le Acli hanno consentito la nascita della prima unità sindacale nel 1944; furono la passerella che portò i lavoratori cattolici all’appuntamento con i socialisti e con i comunisti. Le Acli ruppero poi l’unità sindacale nel 1948, quando ritennero – anche in relazione alle mutate condizioni in campo interno e internazionale – che non fosse più possibile quella convivenza nel sindacato e altrove.
Le Acli hanno tenuto aperta in campo politico una prospettiva di alternativa – non parlo di alternativa di schieramento ma di alternativa nel senso di cambiamento delle cose – sia quando erano collocate rigorosamente dentro la DC, sia nella fase successiva in cui tentarono – non come Acli ma con i loro uomini – uno sbocco politico esterno che non riuscì, ma mise in allarme una serie di agenzie. Successivamente le Acli hanno tenuta aperta questa prospettiva di cambiamento quando hanno scelto di operare più incisivamente dentro la società civile e nelle comunità locali come promotrici del rafforzamento di quello che io considero l’anello più debole della democrazia italiana.
Le Acli hanno contribuito dentro la Chiesa all’affermazione, prima del Concilio, delle tematiche del Concilio. IL Concilio è stato scritto dai padri conciliari sotto la guida dello Spirito Santo, ma nei tempi e tra gli uomini che hanno preparato il Concilio Ecumenico Vaticano II le Acli hanno avuto, per l’Italia, un ruolo non trascurabile.
Non sto dando i voti: sto soltanto dicendo che questa organizzazione non è stata per 40 anni nelle retrovie, ma all’avanguardia, spesso con un ruolo da protagonista.
Storia complessa e piena di incomprensioni e di contraddizioni dunque, ma profondamente radicata dentro la vita del paese e della gente. Solo un’organizzazione che abbia un radicamento profondo può resistere alle prove che abbiamo affrontato e credo di poter dire superato. E’ questo anche un segno di speranza che può valere per altri movimenti ora in crisi: se c’è radicamento vero nella base, se si risponde in qualche modo, con un contatto diretto, alle esigenze della gente, le crisi si possono vincere e si può andare avanti.
E’ la vicenda che noi tutti abbiamo vissuto. E penso che lungo questa vicenda ognuno di noi abbia appreso un alfabeto di sensibilità sociale, di atteggiamento verso gli altri, di capacità – usando le parole del Card. Martini – di “farsi prossimo” anche se questo è terribilmente difficile.
Penso che proprio l’alfabeto che abbiamo imparato lungo la nostra storia di coerenze e di incoerenze, di avanzate e di ripiegamenti, di gioie e di dolori (mai però una storia priva di speranza) valga anche per capire i nuovi linguaggi con cui dobbiamo fare i conti.
Vi sono degli elementi di novità che dobbiamo assolutamente accettare, ma vi sono degli elementi di stabilità che dobbiamo garantire con fermezza dentro l’evoluzione che si sta verificando. Credo, per esempio, che non possiamo accettare passivamente – noi, discepoli di Achille Grandi che ci insegnava ad essere diffidenti nei confronti del mercato e del capitalismo – che tutto sia affidato alle virtù del mercato. Il mercato crea ingiustizie, il mercato è la legge del profitto, è la legge del più forte, è il darwinismo sociale: il pesce più grande mangia il pesce più piccolo. Se invece per mercato intendiamo una misura di efficienza, una capacità di gestire meglio, una lotta agli sprechi, una valorizzazione di quello che è valido in termini di efficacia, il mercato in questo senso va non solo accettato ma anche sviluppato e potenziato.
Così è lo stato sociale. Guai a farne un mito. Ma dobbiamo avere la coscienza, anche noi delle Acli, di averlo costruito in questi 40anni. Funzioni bene o male. Certamente va riordinato, usando però non l’ascia del taglialegna ma le forbici del potatore, perché queste sanno dove si può tagliare perché la pianta fiorisca e dia più frutto. L’ascia del taglialegna invece non fa altro che distruggere e lascia una situazione nella quale non abbiamo equità fiscale come tendenza (cioè tasse pagate in modo diseguale, perché ci sono differenti potenzialità di reddito per garantire la parità di condizione di fronte alla malattia, alla disoccupazione e così via..) ma abbiamo la istituzionalizzazione della condizione di disparità e di diseguaglianza.
Questo è inaccettabile. Noi promuoveremo una battaglia su questo punto. Si realizzi, ad esempio, una soluzione provvisoria che tamponi le situazioni di deficit e si provveda davvero a ripensare lo stato sociale, riconsiderando tutti gli ingredienti che lo compongono e non segando solo dove appaia più conveniente, magari mantenendo rendite, privilegi, clientele ed altro. Le Acli possono fare questo, forse meglio dei sindacati, perché non hanno immediato interesse cui dare riscontro.
L’alfabeto della nostra storia ci serve anche per interpretare i segni di futuro. Quella odierna infatti non può essere solo una commemorazione.
Noi guardiamo avanti con le linee che ci siamo dati all’ultimo congresso, che sono quelle di rafforzare l’anello debole, la società civile, costruire quella che chiamiamo la “democrazia del villaggio”, la partecipazione. E’ una posizione che trova tanti consensi ma anche tante resistenze. Credo che il futuro debba vederci ancora più vigili nella difesa della libertà, libertà che non è solo la possibilità di votare.
La questione della pace si presenta come particolarmente preoccupante. Dal convegno di Erice dell’agosto scorso sono uscito con una grande inquietudine: rispetto verso gli scienziati e per il loro sapere, ma profonda inquietudine perché, come diceva Einstein, un fisico rinuncerà a tutto ma non a fare un esperimento. Ed io ho paura di qualche esperimento. Ora noi sappiamo che tutte le nuove e più sofisticate tecnologie applicate agli armamenti atomici e spaziali funzionano solo se sono automatiche. Cioè se l’uomo è escluso dalle decisioni. Ecco il tema: come fare in modo che prima che il bottone scatti da solo qualcuno possa dire: “Un momento, prego”.
Quanto al lavoro, noi accettiamo la filosofia del cambiamento del lavoro. La classe operaia propriamente detta si va restringendo, i ceti medi emergono, c’è la frammentazione del lavoro, ci sono le fasce del lavoro a domicilio, c’è il lavoro non più parcellizzato alla catena ma distribuito sul territorio. E’ un evento con cui dobbiamo fare i conti. Il sindacato non è preparato a questo. Ma questo ci garantisce che avremo una società più giusta o permarranno in essa gli strati di piani più alti e quelli dei piani più bassi? E che faremo di fronte a questo?
Infine il problema della democrazia. Andiamo sempre di più a forme di potere concentrato: poche persone prendono le poche “decisioni decisive”. E’ una tendenza generale. Come si recupera il potere della gente, come faremo a rivivere, quarant’anni dopo, lo spirito della democrazia in condizioni tanto cambiate? Dobbiamo restringere a pochi la democrazia, trasformarla in oligarchia, o realizzare una democrazia diffusa dove la gente partecipa e si schiera, prende coscienza anche a livello locale, nelle responsabilità della gestione dei servizi sociali?
Credo che una organizzazione che voglia realizzare tutto questo attraverso la formazione, la progettazione, la presenza sul territorio abbia ancora un ruolo: e tanto più impegnativo quanto più glorioso è stato il suo passato. Credo che il senso della storia che rievochiamo oggi debba avere un prolungamento futuro nell’impegno, che dobbiamo realizzare per essere “scuola” nel senso della formazione, “scudo” nel senso della protezione, “forza” nel senso della capacità di coscienza e di iniziativa dei lavoratori; ma più in generale di chi sta peggio in questa società, dei piccoli, dei poveri.
Occorre affrontare questi problemi, non da soli. Avere la fierezza della nostra identità che ci deriva dai nostri principi e dalla nostra storia e nello stesso tempo avere l’umiltà di ricercare insieme a tutti gli uomini di buona volontà. Io sono tra quelli che credono che la fede che il Signore mi ha dato non è per me un motivo di privilegio, ma un dovere di più. Quello che per gli altri può essere solo facoltativo, per me è obbligo: l’obbligo dell’impegno. E penso che questa condizione di non privilegio che mi deriva dalla grazia della fede mi debba fare non più sicuro di altri, ma più umile per mettermi in cammino, ben sapendo che proprio la mia fede mi dice che non posso essere soddisfatto di soluzioni mediocri, ma debbo vivere questa condizione di non appagamento per spostare il traguardo sempre più avanti.
Se la mia testimonianza può avere un valore, io vedo nelle Acli uno degli elementi di forza per un futuro che non sia il meccanico prolungamento delle tendenze del presente e dunque un futuro voluto e costruito sulla dimensione dell’uomo.
A questa costruzione siamo tutti chiamati. Riusciremo se nessuno sottrarrà il proprio apporto.