Affrontare il vento forte per un orizzonte di senso: il popolo

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Post in 7 paragrafi: 
1. La politica. I rapporti tra noi.
2. L’identità. Noi chi siamo.
3. La fantomatica scelta del gruppo dirigente. Di chi abbiamo bisogno?
4. Orientamenti, tesi e metodo. Cosa vogliamo fare?
5. Girarsi verso il popolo.
6. Una infrastruttura civile immersa nelle comunità.
7. E quindi….
1.
La politica. I rapporti tra noi

Conflitto. Riconciliazione. Unità. Democrazia.
La riconciliazione è una cosa seria. La democrazia pure.
E il conflitto?
In democrazia il conflitto esiste. E’ logico e naturale.
In un’associazione pure.
Non si può scegliere tra assenza e presenza di conflitto.
Si può definire, assieme, in un corpo associativo, con un patto che ci unisce, quali conflitti sono coerenti a mission e valori e quali no.
Si può aver cura di strumenti, modi, tempi da usare nei conflitti.
La democrazia è uno strumento. Ma da sola non basta. Si sa.
E l’unità?
Ci sono unità sferiche che non ci servono.
Ci sono unità che sono più violente dei conflitti.
Unità costruite nel non riconoscimento dell’altro, nell’annullamento del singolo nel tutto, nella resa a ciò che accade, nella non partecipazione, nel non lasciare la libertà.
Riconciliazione è democrazia ben vissuta.
Che accetta la libertà di ciascuno.
Anche quella di dividersi. Anche quella di stare con.
L’unità che ci serve non è la tregua armata. Pronta per la prossima guerra.
Non è la guerra fredda. Equilibrio tattico.
E’ la pace del poliedro, convivialità delle differenze.
L’unità non è data dall’avere un candidato o più.
E’ data dal come.
Concrete pratiche di nonviolenza. Servono.
Ridisegnare le dimensioni dei rapporti tra noi.
Secondo un criterio di giustizia ricercata e non posseduta.
Ed aspirando ad un criterio di misericordia.
Non è un orpello inutile. Non è personalismo.
E’ politica. E’ democrazia. Praticata a partire da noi.
2.
L’identità. Noi, chi siamo? 

Piccole comunità fraterne. Grandi associazioni popolari. Importanti sistemi di imprese.
Ridisegnare le dimensioni dei rapporti tra noi.
Ridefinire la governance di sistema.
Non sono percorsi scollegati.
Come tenere assieme l’aspirazione, altissima e necessaria, ad essere comunità fraterne con la consapevolezza, concretissima, che siamo (anche o prioritariamente?) organizzazioni con una responsabilità, un compito ed uno scopo?
A chi dobbiamo render conto del nostro agire? A noi, reciprocamente o (anche o prioritariamente?) ai soci, ai cittadini?
E’ sempre etico, nei ruoli di responsabilità, attendere rispettosamente i tempi di maturazione del singolo ed assecondare le (umanamente legittime) aspettative ed attese delle persone?
E’ violenza mettere in secondo il bene del singolo se contrasta con ciò che serve all’associazione in quel momento?
3.
La fantomatica scelta del gruppo dirigente. Di chi abbiamo bisogno? 
Servono profeti e condottieri. Senza la pragmaticità dei condottieri non si cammina. Senza la radicalità dei profeti ci si muove senza arrivare da nessuna parte. Compito dei condottieri è anche sapersi circondare da profeti. Servono maestri da ascoltare. Servono leader.
Questo lo scrivevo 3 anni fa. Ma, francamente, oggi credo che ci serva anche superare questo mito. Al momento mi pare che siamo sprovvisti di eroi solitari, figure mitologiche e salvatori della Patria. Il che è un problema, ovviamente, ma è anche un’opportunità. Per cambiare paradigma. Non eravamo noi quelli che volevano la collegialità?
Servono uomini e donne, anche imperfetti. Ma connettori, promotori e accompagnatori di processi. Persone in grado di innescare la generatività, di prendere sul serio la domanda di senso sulle Acli.
Persone con alcune competenze, qualche idea e molta curiosità. Con un rapporto sufficientemente sereno con le decisioni, il consenso, il tempo, il potere e i soldi. O quanto meno in onesta ricerca in questa direzione.
Gente normale che non sconnetta il potere dalla responsabilità, sappia reggere senza scappare la solitudine del ruolo e l’inquietudine del compito che, specie nella prossima fase, sarà pesante, gravoso e persino doloroso.
Serve, forse più di tutto il resto, gente capace di stare in squadra. Di vedere un campo da gioco, costruire uno schema, di passare una palla. Anche, banalmente, di rapportarsi e comunicare. Chiedere aiuto, dire grazie e scusa, quando serve.
E poi servono lavoratori, e soci, e cittadini… Serve ognuno di noi. Che faccia la propria parte.
Dopo di che, si, serve pure un Presidente. Perché anche la collegialità ha bisogno di ruoli chiari. E il Presidente non deve essere per forza il più forte, il più bravo, il più potente, il più carismatico, il più guerriero. Ma deve essere in coerente sintonia con tutto il resto. E farsene carico per primo e più degli altri. E avere cura del senso, dell’ associazione, del gruppo e del processo. E nella scelta del gruppo e del presidente, non servono né veti nè pre-definizioni di poteri di posizione.
4.
Orientamenti, tesi e metodo. Cosa vogliamo fare? 
Cercare, assieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, risposte alle domande.
Dialogare, che non è negoziare, per il bene comune.
Tra noi, dirci, che un nuovo sistema di relazioni fa parte dell’idea di associazione che vogliamo costruire, del paese che vogliamo abitare, della chiesa che vogliamo essere, della politica come la vogliamo intendere. E di fronte a tutti, riconoscere che non abbiamo la maturità umana, civile, spirituale, personale e associativa per arrivarci, oggi. Ma che per questo ci mettiamo in cammino.
Riconoscere che tutto questo non ha senso, di per sé. Perché raggiunge solo l’obiettivo minimo di far star meglio noi e non scandalizzare gli altri. Per cui:
Serve togliere dal centro della nostra attenzione noi stessi. E persino il nostro legittimo tentativo di costruire una nuova dimensione di rapporti tra noi. Serve tornare a vibrare, profondamente, nelle viscere non per le ingiustizie e i torti tra noi, ma per il popolo e la sua lotta di liberazione (comunque la si voglia chiamare).
5.
Girarsi verso il popolo
Il popolo non esiste in natura. E’ un divenire. Farsi popolo.
Popolo è la cittadinanza impegnata, riflessiva, consapevole ed unita in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nell’ambito di un popolo in cammino. Verso uno sviluppo che includa tutte le persone in tutte le loro dimensioni. Che privilegi la lotta contro la disuguglianza e la povertà. Che si fondi sull’idea della persona come essere sociale che passa da abitante a cittadino da cittadino ad appartenente ad un popolo. Dove essere cittadini e parte di un popolo significa essere convocati per una scelta, chiamati ad una lotta. Lotta per partecipare. Per smettere di essere mucchio, per essere integralmente persone, per essere società.
E chi convoca? Il primo passo è semplice. Non siamo noi che convochiamo. E‘ la realtà.
E non è nemmeno l’idea. E nemmeno la parola (con la minuscola). Perché la realtà è. L’idea si elabora, si induce. Non c’è autonomia tra idea (parola) e realtà. Non c’è subalternità della realtà all’idea. I nominalismi non convocano mai. Tutt’al più classificano. Ciò che convoca è la realtà illuminata dal ragionamento, dall’idea e dalla loro percezione intuitiva.
L’unità è superiore al conflitto, ma il conflitto esiste e non si può ignorare.
Non serve assumere la lotta di classe come principio di comprensione della società e della storia (se ci fermiamo alla conflittualità della congiuntura perdiamo il senso dell’unità). Ma assegnare al conflitto un posto rilevante nel processo di sviluppo. Farsi carico del conflitto, viverlo. I conflitti non possono essere ignorati, ma non si deve nemmeno restarne intrappolati o pensare si trasformino, da soli, in progresso. Si tratta di immergersi nel conflitto, compatire il conflitto, risolverlo e trasformarlo nell’anello di una catena, in uno sviluppo. E’ la nonviolenza.
Il tutto è superiore alla parte. Il modello è il poliedro. Il poliedro è l’unione di tutte le parzialità, che nell’unità mantiene l’originalità delle singole parzialità. Il tutto del poliedro non è il tutto sferico. Lo sferico non è superiore alla parte, la annulla. Si assiste alla riduzione del bene comune al bene particolare, si cerca una bontà che non essendo affiancata dalla verità e dalla bellezza, finisce per diventare bene privato, riservato solo a sé o al proprio gruppo. Una sfida per il cittadino, quindi, è salvaguardare questa unione di bontà, verità e bellezza, senza lacerazioni, in vista di un’esperienza di popolo, di un noi come popolo.
Di fronte a questo, la diagnosi della non efficacia nostra e della politica non può che essere legata alla lontananza tra governanti e popolo, tra noi e popolo. La politica spesso non si è messa al servizio del bene comune. Non ha saputo, non ha voluto o non ha potuto mettere limiti, contrappesi, equilibri al capitale per sradicare le diseguaglianza e la povertà. Noi, corpi intermedi, siamo rimasti nel mezzo. Ma abbiamo guardato troppo in faccia alla politica girando le spalle al popolo. Per rappresentare i problemi del popolo alla politica, magari. Per intermediare. Ma dove è rivolto lo sguardo lì è rivolto il cuore (e la testa e tutto il resto). Ed il popolo, è restato dietro alle spalle.
Il primo passo per tornare a partecipare al farsi popolo del popolo (che esiste comunque, a prescindere da noi) sta proprio lì: semplicemente, girarsi.
6.
Una infrastruttura civile immersa nelle comunità 
Le nostre imprese sono luogo di conflitto. Oggi spesso questo significa conflitto per definire chi gestisce l’impresa, conflitto tra associazione ed impresa, conflitto tra imprese. Ma anche, e sono snodi più interessanti, luogo in cui passa il conflitto tra mission dichiarata e praticata, tra realtà ed idea. E luogo del conflitto classico tra capitale e lavoro (tra proprietà e lavoratori). In che maniera ci immergiamo e trasformiamo questo conflitto in progresso?
La cooperazione prima, il terzo settore poi… nascono come modello alternativo (sia dal punto di vista politico che dal punto di vista organizzativo) all’economia di mercato, alle sue finalità e alle sue strutture. Oggi, fuori e dentro le Acli, cosa resta di tutto questo? Esiste ancora la tensione verso la costruzione di una novità in questo senso? Non può essere questa una pista concreta di resistenza all’abdicare della politica alla tecnica e all’economia? Non può essere un campo avvincente di sperimentazione, innovazione e trasformazione?
Per usare l’immagine precedente, la vision che può muovere le nostre imprese e farlo in modo inedito e significativo, non è girare la faccia alla politica (da cui oggi dipendono eccessivamente) per elemosinare le briciole dell’economia. Tra l’altro non faremmo proprio nulla di nuovo. Faremmo, in ritardo, ciò che hanno già fatto tutti gli altri. Lo specifico che possiamo mettere in campo è il girarci verso il popolo. Restituire al popolo le chiavi della cucina, e non farlo a fine servizio, ma durante.
Fuori di metafore, dobbiamo ripensare i nostri servizi come espressione di cittadinanza attiva. Superare la logica della struttura delegata dalla pubblica amministrazione ma anche la logica di un rapporto tra offerta e domanda che concepisce i fruitori del servizio solo come clienti.
Concepire i nostri servizi né come apparati burocratici né come mere imprese profit, ma come imprese sociali. Nel senso pieno del termine. E come tali trarre la loro ragion d’essere dal porsi davvero a servizio delle persone e delle comunità locali. A servizio del bene comune.
La direzione è chiara: superare definitivamente la logica dello sportello tecnico realizzando una infrastruttura civile immersa nelle comunità di riferimento. Una realtà competente e aperta che sappia riconoscere, organizzare, promuovere i bisogni presenti nelle comunità. E che sappia tradurli in diritti esigibili, in opportunità realistiche di uscita dal disagio e dalla fragilità.
Ci è data l’enorme opportunità di un crocevia già esistente di diritti e bisogni, luoghi dove vivono e transitano 2 milioni di persone. Possiamo coglierla, non solo per supportare il processo individuale di quelle persone verso la risposta ai bisogni individuali. Ma anche per contribuire al processo che porta quelle persone singole a diventare cittadini e quei cittadini a diventare popolo.
Ci è chiesto, insomma, di dare un impulso nuovo alla nostra capacità di organizzare in modo coordinato e polifunzionale i servizi. Di realizzare un rapporto con i fruitori che superi l’attuale separazione tra domanda e offerta e punti su forme solidali e creative di autorganizzazione e di cittadinanza attiva. E i fruitori, i soci, i volontari, i lavoratori sono tutti persone e tutti cittadini. E tutti ovviamente chiamati ad essere parte essenziale del processo. E tutti le figure che ibridano questi ruoli sono potenziale da valorizzare. E tutte le forme che innestano partecipazione di cittadini e lavoratori nell’impresa sono da esplorare.
Poi viene tutto il resto: il modello organizzativo, le scelte dei prodotti, le competenze da formare, i servizi da integrare, l’innovazione da perseguire…C’è bisogno di tutto ed è aspetto più che essenziale se non vogliamo restare a livello di slogan ed enunciazioni. Ma sono convinta che senza un’idea di fondo, forte e chiara, senza una tensione alta e una passione comune forte, non potremmo nemmeno riuscire, banalmente, a raggiungere la sostenibilità.
7.
Quindi…
Non ci si mette in mare per qualcosa di leggermente migliore dell’oggi.
Ci si mette in mare, affrontando il vento forte, per un sogno di senso. Per noi e per gli altri.
Acli tutte, che scelgono di partecipare e contribuire al divenire di un popolo e alla sua lotta per lo sviluppo, contro povertà e disuguaglianze. Per me è un sogno che ha senso.
Il lavoro da fare è quello della fatica enorme del primo cambiamento, la rivoluzione copernicana: togliere dal nostro centro noi stessi.
Sembra che non c’entri niente, lo so. Eppure è così:
Il centro è il Vangelo.
Il soggetto è il popolo.
Lavoro, Vangelo, Popolo. In fondo pure questo è un modo di declinare le 3 fedeltà.
Solo il Vangelo fa nuove le Acli.
E questa, non è una novità.
(post pubblicato su www.piugiusto.org) 

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