Abbiamo la responsabilità di consegnare ai giovani il mondo di Papa Giovanni. Pacem in terris - Monica Di Sisto


Le Acli non sono la mia associazione, ma spesso ci siamo trovati ad un confronto utile.
La Pacem in terris è una delle encicliche della mia formazione. Vengo dagli scout. Negli anni in cui mi sono formata si ragionava molto su questa enciclica. 

E’ una enciclica che in parte è poco conosciuta, forse anche per il commento di Confindustria di cui si diceva prima, è poco letta  ed è tra le meno commentata. Perché in realtà è una enciclica che indica una vera terza via, non socialista, non capitalista, ma che toglie il lassez fare degli stati. E’ una enciclica che è scritta in cui i Paesi avanzati, nel momento in cui si affacciavano al mondo, erano consapevoli che presta o tardi si sarebbe dovuto fare i conti con la comunità globale, per cui si cerca di capire quali siano le cause positive, gli antefatti, per la pacificazione del mondo. 

La pacem in terris parla di una pace che non è teorica, non è emotiva, è valoriale. E’ fatta di alcune condizioni specifiche. E’ una enciclica che parla di economia di giustizia. 
In tempi di guerra fredda Papa Giovanni:
- Riconosce che l’uomo è libero nella sua volontà
- Afferma che i diritti sono inalienabili, non perché stabiliti dagli uomini in alcune carte, ma perché sono scritti nelle coscienze di tutti, per cui non vanno inventati, basta riconoscerli
- Riconosce il diritto di libera iniziativa in campo economico
- Riconosce il diritto al lavoro
Anche Adam Smith parlava della mano invisibile del mercato, ma poi diceva:  io parlo di interessi, non di egoismi. L’interesse gestito nella sfera pubblica ha il perimetro nella attività svolta.
C’è il diritto alla proprietà (questo lo smarca da comunismo e socialismo) ma anche nel diritto dell’impresa c’è il vincolo dell’utilità sociale. Il diritto personale ad imprendere deve trovare la sua forza dell’utilità sociale, se non c’è, non c’è diritto. Questo fa insorgere la Confindustria. Perché, per dirlo con un linguaggio che forse oggi ha poco senso: E’ a sinistra della Costituzione. 

La Pacem in terris riconosce le Nazioni Unite, che si occupavano già di diritti riproduttivi, non era così semplice riconoscerle per un papa… 

La Pacem in terris dice che è un dover dei paesi avanzati lavorare per la crescita e lo sviluppo integrale dei paesi terzi. Dice che i paesi avanzati non devono sviluppare rapporti predatori. Inquadra il concetto di sussidiarietà nel rispetto delle comunità di organizzarsi. 

Cooperazione è un’altra parola dell’enciclica. Il legame tra le diverse comunità del mondo crescerà se si sarà in grado di strutturare relazioni costanti e improntate allo sviluppo reciproco. 

In quell’epoca si considerò il papa malato, romantico, e si continuò ad affidarsi al mercato. 
Noi oggi siamo agli esiti di quella complessità non presa in carico. 

Quando spiego ai ragazzi le radici economiche dei conflitti io faccio vedere il telefonino, in cui c’è la mappa delle disuguaglianze.  Cosa costa? Facciamo 800 Euro. 
Se spezzettiamo il prezzo finale in base a tutte le società e paesi che le componenti del telefonino attraversano vediamo che: 
- Pochi centesimi vanno a chi fornisce materie prime e lavoro dei pezzi che lo costituiscono (prima si assemblavano solo nel sud est asiatico, quando si parlava di Seattle si pensava che a manifestare ci fossero i black blok, in realtà in piazza c’erano i metalmeccanici della Ford, i lavoratori dell’impresa americana…).
- Il resto va a chi è regista dell’economia globale
- E a chi gestisce la logistica.
(sono 7- 8 imprese mondiali). 

E’ davvero possibile il voto con il portafoglio in uno schema simile?
Nel momento in cui il grosso va a chi è capace di agire su filiere internazionali e pochissimo a chi lavora nel settore produttivo? 
Come è possibile votare con il portafoglio in questo schema? 

I conflitti sono dove sono le materie prime, che non portano valore.
I conflitti sono dove il lavoro è sempre più povero e produce sempre meno valore. 
Il valore va a chi organizza e gestisce la logistica. 

Qualche anno fa Oxfam ha fatto la mappa dei prodotti in un supermercato inglese.
Riconduceva tutte le etichette alle società che le producevano e a chi c’era dietro. 
Una volta raggruppate, di tutti i prodotti presenti in un supermercato, gli attori erano meno di 10. 
In questo schema è possibile per una persona a basso reddito votare con il portafoglio?
E’ possibile per la classe media avere un ruolo nella democrazia?

Giuliano Amato, ministro del tesoro, a Seattle disse “La globalizzazione non si giocherà su chi farà il panino più buono, ma su chi e come deciderà le regole globali. Tutti vorranno decidere le regole nel contesto ampio, ma come si farà deciderà la qualità di ciò che faremo”.

Le grandi istituzioni sono state create al di fuori dall’ONU.
Può sembrare un particolare, ma è una differenza profonda. 
I diritti umani, sono universali e hanno capacità di enforsment. 
Le politiche commerciali e finanziarie e della banca mondiali sono fuori, sono svincolate dalle convenzioni e dai diritti, ecco perché tutti gli anni dobbiamo fare gli impegni per il clima….

Se filiera dei diritti e filiera dell’economia sono slegate, una è obbligatoria, l’altra solo facoltativa, se c’è tempo e se ci sono le condizioni….
Il 25 aprile il segretario generale dell’ONU ha fatto il ceck degli obiettivi di sviluppo del millennio.
Io non sono appassionata agli obiettivi del millennio, non lo ero nemmeno nel 2000. Io sono per poche cose ma vincolanti. Perché senza il vincolo poi ci dicono: si, avevamo detto ma… poi c’è stata la crisi, si avevamo detto ma, poi c’è stata la pandemia… 
Ma quando ci saranno le condizioni per i diritti? Francamente mai! 

C’è bisogno di franchezza di questi tempi. Perché siamo presi dalla sindrome di Pompei.
I pochi cronacisti che ci hanno passato qualcosa dicono che i poveri sono scappati. Come i poveri oggi, le grandi migrazioni globali. Erano leggeri, non avevano da perdere e non avevano grandi cose da trasportare, sono scappati. 
Quelli così così sono rimasti impietriti alla riva del fiume.
La maggior parte, ha fatto finta di niente. E’ rimasta dove era a fare ciò che faceva. Adesso li ammiriamo. Ma non so se loro sono contenti della nostra ammirazione, quando erano rimasti impietriti e travolti. 
Oggi 26 persone del pianeta hanno gli stessi mezzi della metà del pianeta, se non è Pompei questo, cosa è?  Se non porta conflitti questo, cosa lo porta? E’ chiaro che stiamo mettendo le cause per la più grossa catastrofe che possiamo vivere…

Guardiamo a ciò che è successo in Emilia Romagna. Sono anni che sappiamo che se ci deve essere il fiume e attorno al fiume il campo, così se il fiume esce il campo assorbe l’uscita. Sono anni che lo sappiamo. Ma se questo succede, anche nella parte avanzata del paese, dove c’erano i mezzi per intervenire, significa che non abbiamo capito… 

I ragazzi quando c’è da spalare ci sono. I ragazzi quando c’è da portare i pacchi ci sono. Ma noi, a nostri tempi, perché siamo entrati ad impegnarci? Perché c’era un uomo che diceva “Vieni e seguimi” e faceva sentire che è bello dare la vita per i propri amici.  Se non ci fosse stato questo, sarei restata nella mia cameretta. Noi, ai nostri tempi, quando siamo usciti? Perché? Perché qualcuno ci ha fatto sentire un senso generale per la nostra vita. Quale può essere il senso oggi? In tanti parlano di cura. Sostituire al senso di realizzazione della vita come competizione, arrivismo, il senso della vita come cura, relazione, comunità, quella cosa lì, uno spazio in cui mi identifico. Non una comunità chiusa. Una comunità in dialogo con altre comunità. Non è il nazionalismo, non è il regionalismo, non è la chiusura. Siamo tutti insieme nello stesso pianeta. 

Se restiamo tutti solo qui, se non rendiamo migliore questo mondo, non ci saranno camerette abbastanza per chiuderci dentro. Allora cellulari in cui chiuderci, muri, sicurezza, armi... Le armi servono per questo. Noi stiamo difendendoci da quello che non stiamo facendo nelle nostre comunità. E poi ci ritroviamo stretti stretti, io e te in un mare di disorientamento.

Faccio un invito ai corpi intermedi, dal punto di vista di chi ha un’associazione piccola come la mia, e vede cose preziose come queste. Io ve lo dico: uscite! Le case della comunità sono belle, ma non c’è la spesa corrente, non c’è la vita lì dentro. Intorno ci va costruita la comunità, quella è l’urgenza. Abbiamo la responsabilità di restituire ai giovani il mondo di Papa Giovanni…

Nel 2024 saremo i presidenti di turno del G7, con il G8 non ci è andata benissimo, il G7 rischia di essere ancora meno interessante, dal punto di vista politico. Proviamo, anche a livello politico, a sensibilizzarci, per capire che c’è bisogno di un’altra economia.

Quanti imprenditori sono pronti a vincolare la loro azione ad un senso di comunità? 
Perché dobbiamo essere solo quelli della fiera delle armi? 
Perché non fare le fiere delle pratiche virtuose… Siamo stati i primi a fare bioedilizia, bioplastiche…

Il rischio oggi è l’astrazione. Perdere il legame con la realtà e con l’altro.
La solidarietà è una attitudine. La concretezza della relazione è l’unica cosa che può mobilitare realmente i giovani. Pur con tutte le sue contraddizioni. 


Era l'11 aprile 1963. La pacem in terris. - Daniele Rocchetti


Era l’11 aprile 1963, giovedi santo. Almeno dal punto di vista della pace, non era molto diverso da oggi. Meno di 2 anni prima si era avviata la costruzione del muro che segnava la divisione del mondo in blocchi e c’era stata la crisi di Cuba, che aveva condotto l’umanità sul filo di un conflitto mondiale. Papa Roncalli aveva già scritto un messaggio alle due super potenze e aveva già mandato un radio messaggio, maturando la decisione di intervenire con un pronunciamento solenne. Era già la guerra mondiale a pezzi di cui parla oggi Papa Francesco. 

E’ la sua ultima enciclica. Papa Giovanni ha un tumore, sa di dover morire, il testo è il suo lascito spirituale. Mette per scritto ciò che gli sta a cuore. Lo fa indirizzandolo non solo ai singoli vescovi, come era uso al tempo, non solo al clero e al popolo dei fedeli, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà, variante mai usata in precedenza. Di fatto consegna l’enciclica al Concilio. Era appena terminata la prima sessione, c’erano questioni aperte, si preparava la seconda sessione (che poi fu rimandata a settembre). 

E’ un’enciclica che delinea le questioni che hanno rilevanza per la vita dei popoli e delle comunità. E’ il primo testo di un magistero in cui viene ricordata la carta dell’ONU. Sono segni dei tempi. Le prime avvisaglie della globalizzazione e di disegno di nuovo ordine mondiale. Come ogni volta che si parla davvero di Vangelo (e non si è solo custodi del buon senso) l’enciclica ha una enorme risonanza. A Bergamo c’erano due giornali a quel tempo. L’Eco di Bergamo, della Curia, che continua anche ora. E il Giornale di Bergamo, di Confindustria. Il giorno dopo l’uscita della Pacem in terris il Giornale di Bergamo esce con un editoriale dal titolo:  La falcem in terris. 

Giovanni XXIII non era solo un bergamasco, era un grandissimo uomo della diplomazia. Era stato in Bulgaria, in Turchia con Ataturk, nel 1944 era stato mandato a Parigi. Ad alcuni vescovi era così tanto piaciuto il moschetto e il balilla del regime, che De Golle li voleva far fuori. Fu mandato lui, come diplomatico a risolvere la questione. E la risolse brillantemente. 

Il punto centrale della Pacem in terris. L’Art 67. “Che la guerra serva per risolvere le controversie è irragionevole”. Si sa che le encicliche sono redatte in latino e poi da quello tradotte in tutte le lingue. Il testo in latino dice: è “alienum a rationem”. E’ stato tradotto con irragionevole, ma è persino di più, è alieno alla ragione, è da fuori di testa. Questo è il cuore del messaggio, ed è un messaggio che ha un carattere rivoluzionario. E’ una presa di distanza dalla posizione che, ragionevolmente, il Magistero fino ad allora aveva sostenuto, da Ambrogio in poi. L’idea di guerra giusta, a determinate condizioni e con relative limitazioni. Perché c’era bisogno di cambiare? Perché l’idea precedente era quella secondo cui si poteva mettere un freno alla guerra. Quando lui scrive eravamo a 18 anni da Hiroshima e Nagasaki. Era dopo il Vietnam. L’enciclica è un no alla bomba atomica, ma anche alle armi chimiche e batteriologiche.  Ma, vorrei che almeno noi, da credenti, ne fossimo convinti, non lo fa per un ragionamento politico. Lo fa perché “Pace a voi” è la prima consegna di Gesù Risorto. Lo shalom è l’augurio evangelico. 

La maggior parte delle volte che parliamo di pace lo facciamo in forma tautologica. Come se bastasse affermare le cose per realizzarle. Lui nella Pacem in terris dice di evitare la retorica della pace. La pace si dà attraverso libertà, giustizia, amore, verità. La pace si dà nella sua concreta realizzazione. 

Ma non si accontenta di indicare le ombre. E’ preoccupato delle condizioni attraverso cui la pace si può costruire. Tutto sommato nella Pacem in terris la parola pace è presente poche volte. Con quell’ottimismo che credo ci debba costituire, perché non è altro che realismo cristiano. Lontano da una valutazione superficiale cinica e acritica. Realismo, ma aperto al futuro.  

Uno dei segni dei tempi di cui parla la Pacem in terris è l’ascesa economica e sociale del lavoratori. Siamo nel 63, poi negli anni 70 verrà lo statuto dei lavoratori etc… Quelle battaglie oggi rischiano di scomparire, noi stessi, quando parliamo di lavoro? Possiamo parlare di tutto, ma il lavoro è nella nostra stessa sigla ed il lavoro ha bisogno di essere rimesso al centro.  

In un tempo in cui la maggior parte dei soci è pensionata, come facciamo a far sentire le Acli come una casa per i giovani? Come tradurre oggi questo segno dei tempi? In un tempo in cui sempre più si fanno parti uguali tra diseguali? 

Se leggete la bella ricerca delle Acli nazionali sul lavoro povero, fa impressione. 15% dei giovani è in povertà assoluta. Cosa significa riprendere questo segno dei tempi per una associazione che fa del lavoro la sua mission?

Secondo segno dei tempi, l’ingresso della donna nella vita pubblica. Anche qui, dopo anni 70, basta vedere il basso quoziente di donne… C’è un problema serio, le lavoratrici hanno redditi inferiori e rappresentano la parte povera del paese. E vale anche per la Chiesa. Diciamolo sottovoce ma dobbiamo dirlo, non credo che qualche passo avanti coraggioso di Papa Francesco sia sufficiente, manca ancora un reale riconoscimento della donna nella chiesa…

Terzo segno dei tempi, il sorgere di comunità politiche indipendenti. Allora erano i processi di decolonizzazione. Quello portò ai diritti umani, alle costituzioni di diversi paesi. Io oggi la leggo nella logica della nostra fedeltà alla politica. Cosa è oggi essere fedeli alla democrazia? La maggior parte dei paesi al mondo oggi non è democratica. C’è l’affermarsi di democrature. Noi che abbiamo a cuore la politica, che vediamo questi continui segnali in cui andiamo verso forme sempre più spedite che riducono gli spazi reali di partecipazione, in nome della semplificazione, cosa possiamo fare? 

Alla fine l’enciclica mette azioni concrete. La centralità del disarmo. Qui si apre una autostrada per noi delle Acli. Reagendo alla tendenza dell’aumento alla corsa agli armamenti. Si investono soldi, ma pochissimo in salute, istruzione, diritti di tutti. Dopo la pandemia c’è stato un aumento di spesa militare in tutto il mondo e in tutta Europa, 7% nel nostro paese, con la retorica che bisogna portare la spesa militare al 2% del PIL, che secondo molti è la soglia minima. Che se non lo facciamo saremo i Pierini della Nato, si dice. Peccato che si sta discutendo di un target non vincolante, mentre ci sono altri campi vincolanti in cui l’Italia è ultima in Europa ma questo non interessa a nessuno. Siamo ultimi in istruzione, 4° per incidenza della povertà. Oltre ad essere inadempienti sul target della spesa in cooperazione e sullo stop ai sussidi fonti fossili. 

A 1 km da qui è sepolto Turoldo, è stato un maestro anche da vivo, non solo da morto. Molte Acli mi hanno chiamato a parlare di lui. Ha speso la vita per la pace. 

Il primo follower trasforma un pazzo solitario in un leader


La citazione di Simone Romagnoli probabilmente restata incomprensibile ai più (É forse anche a Simone stesso🤔 🤣). Continuo quindi qui una discussione iniziata in chat.
L'animatore di comunità é colui/colei che si mette a ballare a fianco del pazzo che balla da solo.
Ecco, forse una (del tutto arbitraria) sintesi ad intreccio di ciò che diceva Ivo Lizzola con le Acli capaci di consegnare e ciò che diceva Monica con l'usare bene il nostro essere (anche) una associazione grossa e storica può essere qui...
Il riferimento é un #ted in cui Sivers parla di #leadership e #mobilitazione. Lo spiega bene Riccarda Zezza in un articolo. Usa il video di una situazione come tante: in un campo pieno di gente un ragazzo decide di alzarsi e ballare. Balla con entusiasmo e convinzione, seguendo una musica che sembra dire qualcosa solo a lui. Non esita, continua da solo per un bel po’: gli altri lo guardano, lo ignorano, forse si domandano perché lo faccia, probabilmente in molti lo trovano ridicolo e non hanno nessuna voglia di seguirlo nel fare quella cosa nuova e strana.
A questo punto della storia, il leader è semplicemente un matto solitario. Potrebbe essere un genio, quel che fa potrebbe salvare il mondo, ma non è in grado di dimostrarlo: per quanto si sbatta e ci creda e perseveri, resta un matto che balla da solo.
A un certo punto, però, ecco che lo raggiunge un’altra persona, che comincia a ballare con lui. Questa è la svolta della storia: il “primo follower” (anche se la scelta di usare questo termine non mi piace, perché sembra passivo, mentre é molto di più) ha il ruolo cruciale di dimostrare a tutti gli altri come sia possibile, persino facile, seguire il leader, e infatti il leader lo accoglie come un pari e il ballo diventa subito “il loro” ballo. Il primo follower è più coraggioso del leader: si mette in gioco per un’idea che non è la sua, per seguire la visione di qualcun altro, e siamo ancora nella fase in cui potrebbero continuare a ballare solo in due, rischiando il ridicolo.
“Il primo follower trasforma un pazzo solitario in un leader”, dice Sivers.
Ma il vero tipping point, punto di svolta, si ha quando arriva il secondo follower. Se due persone sono ancora due matti solitari, tre persone sono una folla. E, concetto illuminante, nuovi follower arriveranno per seguire i follower, e non il leader. Nel video, a breve distanza di tempo dall’arrivo del secondo follower, a ballare nel campo c’è una vera e propria folla. A quel punto non ballare diventa la scelta più difficile, più contro tendenza. Il leader è dunque riuscito nel suo intento? A ben vedere, le persone non hanno seguito lui. Hanno seguito gli altri follower, tra cui gli essenziali primi due.
I leader, conclude Sivers, sono sopravvalutati. Altrettanto coraggio e determinazione, forse addirittura di più, richiede essere quelli che li vedono, riconoscono che ciò che fanno ha senso e scelgono di alzarsi in piedi per primi dopo di loro. Sono loro che rendono efficace la leadership, dando una chance al mondo di cambiare direzione, di fare qualcosa di nuovo. E lo fanno inseguendo un’idea che hanno riconosciuto come propria, pur senza il bisogno di assumerne la paternità.

Disgregarsi del legame basato sul rappresentare


"Una terza e più profonda spiegazione (della crisi democratica ndr) risiede nel disgregarsi del legame basato sul rappresentare. Il verbo va inteso nei suoi due significati:
In primo luogo quello di delegare, eleggere qualcuno per svolgere un mandato democratico (rappresentanza).
In secondo luogo offrire una certa visione del mondo (rappresentazione) che dà sostanza alla delega e assicura il legame costitutivo della rappresentanza.
In passato le grandi narrazioni (ad esempio il socialismo, il conservatorismo, il liberalismo...) hanno assicurato il legame tra questi due volti del "rappresentare": la delega e la visione."
Oggi come si può abitare questa distanza?
"Prima di tutto é necessario sviluppare l'esperienza democratica (...) a scuola, in famiglia, nelle imprese, nelle associazioni...la democrazia é prima di tutto un atteggiamento, un comportamento, che si pratica e si coltiva.
Poi, a livello di sistema: immaginare e tradurre in realtà le forme e gli strumenti di una democrazia profonda, continua, generalizzata".
Nel dibattito di direzione di oggi, ragionando di proposte di leggi elettorali e di riforma dei partiti, mi é venuto in mente l'intervista a Luc Carton sull'ultimo numero di Aggiornamenti Sociali. Che, decisamente, merita di essere letta!
(E forse le riflessioni possono esserci utili anche per ragionare sulle riforme elettorali interne di cui abbiamo parlato nel pomeriggio...).



Trasformiamo il futuro


È stata una marcia anche diversa.
"Trasformiamo il futuro" era il titolo di quest'anno. E l'invito era in particolare ai giovani.
Con il tema pace fortemente intrecciato ad immigrazione ed ambiente. Perché l'Emilia Romagna è nei pensieri di molti, perché il futuro è così, perché i giovani per l'ambiente hanno una sensibilità particolare.
E tanti erano i giovani, con le scuole, con le associazioni, con i coordinamenti locali...
Aldo Capitini dice:
"Perché le marce della pace? Non basterebbe un convegno, uno scambio di idee, un comizio, un giornale?
Le marce aggiungono altro: sono un accomunamento dal basso e nel modo più elementare, che perciò unisce tutti, nessuno escludendo; sono un’estrinsecazione fisica, disciplinando il corpo ad un’idea che si serve pensando a tutti, non sono di combattimento ma di apertura, e non sono di contrizione o di evasione, perché intravvedono la terra e il passaggio associarsi ad una salvezza universale immanente”.
Don Tonino Bello dice:
"La pace prima che traguardo, è cammino. E, per giunta, cammino in salita. Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi, i suoi percorsi preferenziali ed i suoi tempi tecnici, i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste. Se è così, occorrono attese pazienti. E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all'arrivo senza essere mai partito, ma chi parte".
Marcia della pace è fare fatica. A volte aver l'impressione che...forse era meglio fare strade e scelte differenti.... Sperimentare, anche fisicamente, cosa vuol dire non arrendersi alla fatica. Riconoscere le proprie debolezze e accettare che per aiutare altri nel cammino, serve essere allenati.
Per questo mi è piaciuto esserci.
Per questo mi é piaciuto che le Acli, da tante parti di Italia (Asti, Como, Milano, Cremona, Brescia, Trento, Arezzo, Pisa, Piacenza, Pescara, Pesaro, Foggia...) insieme a tanti altri uguali e diversi, ci siano state.

Canta come cantano i viandanti...


Tratti di marcia in cui partiva il "Bella ciao".
Qualche "Dove vola l'avvoltoio".
Il rap (o trap?) dei giovani alla partenza.
"Bello mondo, sei casa nostra e noi avremo cura di te...
Il passaggio sotto il tunnel con i tamburi, sempre potente....
Ad un certo punto del cammino si inizia ad essere stanchi e a qualche metro da te parte una canzone "Canta come cantano i viandanti, non solo per riempire il tempo, ma per sostener lo sforzo, canta e cammina...".
C'è solo un fazzolettone, apparentemente, in quel gruppo che canta. Ma poi scopri che il gruppo di ragazze venuto con la scuola è anche un noviziato, che chi è lì con l'associazione ha un passato (o presente) scout...
Come quello che è lì come Acli è lì anche come comitato cittadino. Chi è insegnante, ma anche impegnato socialmente, chi bazzica quella lista civica prima ha fatto il catechista in parrocchia o l'attivista di un movimento per i diritti...
Le commistioni sono molto più frequenti di ciò che si pensa...
E se le riconoscessimo, partendo da ciò che siamo come persone, prima ancora che come ruoli, costruiremmo alleanze più solide e resistenti...
E la musica e le canzoni hanno un potere molto più alto delle semplici parole...
riflessioni post #perugiassisi

Buttar giù un sacco a pelo...


Circoli come luoghi in cui si può grigliare una salsiccia, versare un bicchiere di vino, aggiungere un posto a tavola per amici di altre associazioni incontrati all'ultimo per strada, lavare assieme i piatti, lasciar buttar giù un sacco a pelo, permettendo di partecipare ad eventi ed iniziative senza spendere...
Grazie ad Izaura, alle Acli di Perugia e al circolo Acli Penna Ricci, nato come luogo salesiano. Secondo me pure don Bosco ha apprezzato...
(In foto mancano un sacco di persone e momenti ma...nelle parti migliori ci si scorda di fare le foto!)

Con orchidea, chitarra, gonna blu e vista panoramica...


Nucleo Acli Toniolo, iniziativa.
Con orchidea, chitarra, gonna blu e vista panoramica.
Bella atmosfera.

In ascolto delle famiglie

Ascolto reciproco degli aclisti presenti e delle loro esperienze sui territori: chi sei, cosa fai, che famiglie incontri, c'è qualcosa che ti ha scosso o emozionato un questi incontri?
Ascolto di diversi punti di ascolto delle famiglie:
- Padre Marco Vianelli, pastorale famigliare della Cei.
Difficile ascoltare il grido delle famiglie perché le famiglie non gridano. Anche quando hanno bisogno, le famiglie non scendono in piazza, le famiglie prendono in mano e si arrangiano.
Le famiglie oggi chiedono di essere riconosciute come realtà complessa e come soggetti sociali. Lo chiedono alla società e alla Chiesa. Riuscire a stare di fronte alle famiglie nella loro realtà é non fuggire di fronte alla complessità.
Un mondo di figli unici non è occasione di educazione alla fraternità ed ha conseguenze sulla capacità di vivere insieme nella società.
- Roberta Vincini, presidente Agesci e preside di scuola superiore.

Anche le famiglie vivono i processi di digitalizzazione, ibridazione, precarizzazione e diversificazione. Abbiamo gli occhi per riconoscere le famiglie all'interno dei loro cambiamenti? Per non demonizzarle ma per incontrarle?
Una delle più grandi preoccupazioni delle famiglie è come stare, oggi, nel ruolo di genitori. Servono alleanze per costruire comunità educanti che offrano opportunità e non lascino i genitori da soli.
- Giovanni Caudo, urbanista e presidente Commissione PNRR Comune di Roma.
Come vivere insieme? É il tema di oggi. La risposta non è più scontata. Di fronte a questo, un conto é l'istituzione che offre un servizio. Un conto é l'istituzione che si fa carico di facilitare il costituirsi e svilupparsi di una comunità educante. La città é garante del modo con cui il servizio viene costruito, con la partecipazione di altri soggetti e degli stessi abitanti. Perché è la partecipazione che costituisce quella possibilità di vivere insieme che altrimenti non ci sarebbe e resterebbe scaricata sui singoli.
(Molte piste di lavoro interessanti nel primo dei 4 incontri promossi da Lidia Borzì per consolidare e sviluppare il lavoro con le famiglie delle Acli sui territori, a cavallo tra proposta associativa e servizi.
Il terzo, dopo lavoro e welfare, metterà a tema anche lo stile di animazione di comunità, ma già nell'incontro di ieri molti spunti in questo senso sono già emersi).

Come vivere insieme? - Giovanni Caudo


Come vivere insieme? – Giovanni Caudo  

Urbanista, già presidente di Municipio a Roma, responsabile del pnrr romano.

Il punto di domanda di fondo è: come vivere insieme?
La biennale di Venezia quest’anno aveva il titolo: come vivremo insieme?
E’ un tema trasversale. Perchè ci facciamo questa domanda? 40 anni, 80 anni fa ce la saremmo fatta questa domanda?  E’ successa una epopea da 40, 80 anni fa.   Dal 31 al 61 ad oggi siamo passati da 1 milione a 2 milioni a 3 milioni di abitanti. Anche negli altri passaggi c’erano quantità di persone diverse. Eppure il tema non si poneva. C’era una modalità di organizzarsi della società che, anche fisicamente, dava risposte a queste esigenze di stare insieme. A partire dal diritto alla casa. Le lotte anni 70. C’era una costruzione collettiva della possibilità condivisa di abitare uno spazio insieme. Oggi è venuto a mancare questo presupposto.

Questo ha a che fare con la famiglia. Facciamo bene a fare tanta retorica sulla famiglia, ma quando si è soli, si è soli anche in famiglia. “Come vivere insieme?” è la domanda che oggi attraversa tutto, anche il nucleo più piccolo. Ciò che vediamo nella società è lo specchio reso fisico di come viviamo. Le città non esistono in natura, sono manifestazione antropica e sono la cosa più complessa che l’uomo ha messo al mondo. Guardando la città vediamo come viviamo, ci vediamo allo specchio. 

“Come vivere insieme?” è la domanda di questo tempo e riguarda tutte le scale. Dalla famiglia, al vicinato, ai gruppi, alla città nella sua interezza. Abbiamo bisogno di una agency che costruisca le possibilità di abitare insieme lo spazio. Perché non è più qualcosa che è dato per scontato. Prima era dato per scontato che mettendo assieme le persone queste avrebbero trovato una formula per stare assieme, oggi non è così. Prima esistevano grandi visioni che si confrontavano ed in cui l'esperienza si inseriva, oggi non è più così. 

Gli esempi di solitudine, potrei raccontare tante cose di quando ero Presidente di Municipio ed una volta al mese facevo ascolto degli abitanti del mio municipio. Signora della mia età, 56 anni, che scopriamo a seguito di piccolo incidente (perché pioveva acqua in un atrio di case popolari). Scopriamo che aveva stipato nel mobile, in modo ossessivo, uno strato di carta, uno strato di plastica, uno di bottiglie, via via fino a 80 cm dal soffitto. Con una sorta di barbonismo domestico in usciva di notte per lavarsi alla fontana della casa popolare. La domanda è: perché succede? L’Acea stacca la luce senza porsi il tema di se c’è qualcuno dentro. L’amministrazione comunale non ha antenne per sapere se dove stanno staccando ci vive qualcuno. La Asl ha bussato una volta, nessuno ha risposto…. Ci si è fermati lì. I vicini, essendo occupanti abusivi, per non autodenunciarsi non si interfacciano con le istituzioni... Insomma, esistono n istituzioni, in quel palazzo vivono n persone, ma si è comunque soli. 

Il tema di come vivere insieme ha a che fare con una condizione contemporanea in cui le istituzioni fanno fatica a trovare soluzioni. Quando non c’erano telefonini, sui mezzi pubblici si incrociava lo sguardo. Oggi è quasi impossibile incrociare lo sguardo di qualcuno su un mezzo pubblico. La prossimità oggi non è ciò che ti sta vicino. Il prossimo è quello con cui si sta parlando con il telefono. La questione della prossimità si pone in modo del tutto diverso da prima. Se vivere insieme non è scontato. Vivere la condizione urbana è sempre più complicato e difficile. Difficoltà di muoversi, di trovare il tempo libero, di trovare soddisfazione, di trovare i servizi… 

Questa difficoltà di avere una visione e di percepire il futuro, si monta con l’esigenza di dover vivere in una condizione in cui il prossimo non è quello fisico ma è quello collocato chissà dove e quello vicino a te fisicamente può esserti totalmente estraneo e lontano. Di fatto bisogna che l’amministrazione e il modo con cui concepiamo la città assuma il compito di rispondere in concreto a questa domanda e non la lasci tutta solo sulle spalle delle persone. 

La scuola. Possiamo pensare la scuola come un servizio scolastico. Nello stesso tempo possiamo immaginare che il servizio scolastico non siano le aule. Cosa è il concetto di comunità educante? Un conto è offrire il servizio scolastico, un conto è un’amministrazione che si fa carico di facilitare una comunità educante in un contesto scolastico. Questo è un esempio.  Il modo in cui il servizio viene costruito, con o senza la partecipazione degli stessi abitanti e delle associazioni, fa la differenza. Perché la partecipazione costruisce quella possibilità di vivere insieme che altrimenti non ci sarebbe e costruire la possibilità di vivere insieme è il tema. L'amministrazione che offre, anche bene, un singolo servizio, non risponde più alla domanda, non arriva al livello minimo di ciò che serve. 

Una delle questioni più chiare emerse dopo il covid è che c’è una vera epidemia, che è la salute mentale, soprattutto nei ragazzi giovani. Storie concrete di persone in carne ed ossa. Di queste persone non si occupa nessuno. La scuola dà un servizio scolastico ma non riesce a stare su altro. Il servizio di salute mentale comincia appena ora ad accorgersi ora di queste cose ma non ha le forze per farsene carico… Nell’area di Modena una ricerca dice che gli accessi ai servizi di salute mentale sono aumentati del 300%. In che modo questo malessere segnala questa difficoltà di vivere insieme? In che modo segnala la difficoltà di ricongiungere l'esperienza fisica del corpo con le nostre relazioni? 
Io non credo alla città dei 15 minuti a Roma, perché in 15 minuti a Roma al massimo arrivi alla macchina. Ma il punto è tradurre la prossimità fisica in possibilità di relazione. Si deve offrire le occasioni per rompere il ghiaccio e fare in modo che la prossimità fisica possa diventare… 

come si fa? Come si è sempre fatto….Quel santuomo di Papa Francesco, non è un caso che nella Evangeli Gaudium abbia dedicato un intero capitolo alle culture urbane. Vedete da dove viene Papa Francesco, viene da un barrio in Argentina. E’ una ricetta vecchia, ma è la ricetta che possiamo mettere in campo, consapevoli dei cambiamenti anche in nuove modalità. La prossimità o diventa anche prossimità fisica o non riusciamo a vivere insieme.  Che vuol dire: costruiamo luoghi ed opportunità concrete di incontro, oppure la perdiamo.  Così come nella casa non devi prescrivere ma devi trovare l’occasione per rompere il modo “ognuno nella sua stanza”,  così nella città hai bisogno di trovare l’engagment per ridurre la distanza e per far diventare lo spazio di prossimità fisico, opportunità di relazione. 

Le istituzioni? Devono essere soggetti che attivano possibilità di partecipazione. Mettiamo questo criterio al centro delle scelte che facciamo: ciò che facciamo o che vogliamo fare attiva relazioni? Che tipo di relazioni porta in campo? Si riduce la distanza? Chi amministra la città non può più pensare di guardare alla città dal punto di vista della stanza dei bottoni. Non funziona più così. Chi amministra la città deve porsi il tema della presenza comune, fisica, nella città. Ce lo insegnano le esperienze di luoghi in cui i processi sono ancora più estremi che da noi. Sono stato a New York, sono andato a vedere un bando pubblico che ha selezionato 8 progetti che provano a declinare come lo spazio pubblico possa curare il disagio e il malessere mentale.  Lì le condizioni sono più al limite che qui. Ma noi siamo sullo stesso crinale. O ritroviamo il senso del corpo dentro lo spazio oppure anche noi siamo rassegnati a perdere la scommessa di riuscire a vivere insieme. Non è una questione culturale. E’ una questione esperienziale. Abbiamo bisogno di ricomporre, nelle esperienze, la prossimità emotiva, affettiva, sociale, con la prossimità fisica e di facilitare le occasioni per metterci assieme. Più diventa difficile farlo, più è segno che ce n'è bisogno. 

Per farlo abbiamo bisogno di alleanze tra tutti e l’alleanza, come si diceva, è più della rete. 




Come facciamo? Facciamo fatica! - Roberta Vincini - Agesci


Grazie per l’invito e per avere pensato questo momento. Ci si incontra e ci si scopre anche con passati e presenti comuni. Ci stavo pensando un attimo fa, ciascuno ha le sue appartenenze multiple. Anche io: sono genitore, sono stata volontaria all’Avis, sono stata insegnante, sono preside, sono caposcout… a tenere insieme tutti i pezzi, lo impari in casa, in famiglia.  

Io sono preside, è il quarto anno che sono preside, ho avuto la fortuna di essere diventata preside l’anno del covid. Prima ho fatto per 4 anni la maestra, per 9 anni la professoressa alle medie, poi in un istituto professionale, oltre a essere un capo scout da quando avevo 20anni. Ho incrociato tante persone, tanti ragazzi, tanti genitori, alcuni me li sono ritrovata in più momenti e in più ruoli… 
 
E’ Interessante il punto di vista che state ponendo oggi. Il mettersi “in ascolto delle famiglie”. Come sono le famiglie che incontriamo? 

Le famiglie che incontriamo sono le più diverse. Famiglie con due genitori, famiglie allargate, famiglie monogenitoriali, famiglie che si sono separate e ricomposte in nuove forme, famiglie che non vivono con i figli, che stanno in comunità e genitori e figli si incontrano solo in momenti protetti, famiglie di single… Tutte queste sono famiglie. Sono famiglie? Le consideriamo tali? Sono domande che dobbiamo porci. Io sono sposata da 31 anni, mio marito sostiene che il matrimonio con me è per lui una grande via di redenzione (ed io penso altrettanto) ma oggi se vogliamo metterci in ascolto delle famiglie non possiamo non porci questa domanda: gli occhiali che usiamo ci consentono di vedere e di leggere tutte le tipologie di famiglie? Tutte hanno qualcosa in comune, ciascuna ha una sua specificità che va incontrata, siamo in grado di farlo? 

Tutte hanno in comune il fatto di avere figli. Ma questo dipende dal mio osservatorio. Come capo scout, come preside, io incontro le famiglie perché incontro i ragazzi. Non tutte le famiglie hanno figli, ma tutte le famiglie che io incontro hanno figli. Il punto da cui osservo connota ciò che vedo. 

Un aspetto, esploso con la pandemia ma già iniziato a diffondersi prima, è che spesso anche nelle famiglie le relazioni vanno verso un processo di digitalizzazione e ibridazione. Tutti vivono l’onlife (on line e in presenza, assieme). L’esperienza dei social è un pezzo di vita anche familiare. Un genitore deve porsi il tema di come stare anche su quel pezzo, così come deve farlo un educatore, un insegnante, un dirigente scolastico. Io ho una chat con i ragazzi del consiglio di istituto. Se voglio collaborare con loro devo anche mettermi in uscita e devo stare anche nei loro tempi e nei luoghi che loro abitano. Ma non solo il dirigente scolastico. Anche le famiglie. Le famiglie si parlano tanto attraverso le chat. I genitori si scambiano le informazioni, si tengono aggiornati, si confrontano e alleano sulle decisioni da prendere. Genitori e figli si parlano (magari i genitori di più, i figli un po’ a monosillabi…) in chat. E’ quotidianità per tutti. La relazione, anche famigliare, oggi è ibridata tra presenza e digitale, per tutti. Non c’è luogo, anche degli affetti, che non abbia una parte anche digitale. 

In alcune famiglie (non così rare) non si mangia più insieme. O comunque mangiare assieme è diventata l’eccezione, la festa, l’occasione. Nella quotidianità ciascuno mangia nella sua stanza o si mangia a turni. Magari si inizia perché gli orari sono diversi. Poi si continua perché diventa abitudine, diventa normale. Non è una cosa rara. E’ una lettura che ormai mi arriva con una certa frequenza. Prima si diceva che la famiglia è importante perché lì si apprende come stare con gli altri. Non è detto che tutto ciò che si apprende in famiglia sia solo positivo. E non è detto che l’immaginario di famiglia che abbiamo corrisponda a ciò che è realmente oggi più frequente. Ma il nostro compito non è giudicare, non è demonizzare. Il nostro compito è saper leggere e, a partire da quello che c’è, provare a costruire una strada comune verso il bene ultimo, che è, per tutti, la felicità. 

Un altro aspetto, sempre più evidente, è l’incertezza. Per le situazioni economiche, per le situazioni lavorative instabili, per ciò che accade… La preoccupazione è compagna quotidiana. Sono poche le certezze a cui aggrapparsi. Questo continuo essere esposti all’incertezza porta con sé il sentirsi inadeguati. Io faccio la preside in un liceo ed ai ragazzi viene proposto di andare in stage all’estero. I genitori si massacrano per mandare i figli all’estero in stage. Non c’è più una divisione netta tra a chi arriva e non arriva questa proposta. La proposta arriva a tutti e non essere in grado di offrire le opportunità al figlio è il cruccio dei genitori. Anche se magari a casa non c’è nemmeno un tavolo comune per studiare. Se non ci sono stanze per ognuno… La domanda che possiamo porci, di fronte a questo è: come si può essere solidali nel condividere queste preoccupazioni? Come si può costruire risposte comuni? Come sentirsi interpellati dalle situazioni? 

Ciò nonostante, tutte le ricerche sottolineano che il desiderio di famiglia ancora tiene. Gli amici dei miei figli convivono tutti. Uno si fa domande e si interroga: non si sposano per come hanno visto la vita da sposati dei genitori? I miei figli si sposeranno dopo aver visto noi? Ma in realtà, magari lo chiamano con un altro nome, magari danno forme un po’ diverse, ma il desiderio di unirsi a qualcuno in un progetto comune c’è. Anche il desiderio del per sempre (con tutte le paure del caso) c’è.  La sfida come adulti è non andare in crisi noi, per come sono loro e per le scelte che fanno. La sfida è aiutare questo desiderio perché possa trovare il modo di realizzarsi e perché non ci sia un chiudersi in sé, ma ci sia un imparare a condividere le difficoltà che possono nascere e che ci possono essere.

Il problema grosso oggi è la solitudine. Non solo la solitudine di chi è solo. La solitudine nelle famiglie. Negli appartamenti grandi, ognuno vive nella sua stanza, non ci si parla, non si fanno le cose insieme. Ci si scrive e ci si incrocia.  Durante la pandemia questo è diventato esplosivo. Perché c’era lezione, c’erano gli orari, c’era l’obbligo di stare tutti in casa e non potendo uscire i ragazzi si rintanavano. Ma già prima la dinamica si era avviata così. Qualche anno fa quando c’erano colleghe che mi dicevano che i figli per chiedere le cose dal piano di sopra scrivevano non ci credevo. Adesso ci credo, lo vedo, lo vivo… Oggi c’è l’attesa di capirsi, in famiglia. Anche tra genitori e figli. Anche in adolescenza. 

Mi ero scritta tre pagine. Ma il senso di ciò che avevo scritto è che una delle difficoltà più grosse delle famiglie con i figli è come stare nel proprio compito di genitori rispetto ai figli. Come stare nel proprio compito di famiglia affettiva e famiglia normativa. Quali regole porre e come accompagnare. Come tenere assieme queste due polarità. Lo sbilanciamento di un tempo della famiglia era sulla dimensione normativa. Pongo le regole, resto distante, nel mio ruolo. Oggi lo spostamento è sulla dimensione affettiva. La preoccupazione che i propri figli abbiano il meglio, che siano compresi, che tutti li possano ascoltare è fortissima. Offrire i riferimenti necessari perché un bambino capisca via via della sua vita e possa scegliere tra il bene e il male è un compito difficile, oggi più di ieri. E’ un compito che oggi mette veramente in crisi le famiglie. 

La preoccupazione per i figli, perché abbiano il meglio, è accompagnato da un bisogno di controllo fortissimo che si allea con la possibilità che gli strumenti ci danno. Un figlio che è in gita con la scuola, deve poter portare il cellulare, deve poter aggiornare il genitore in diretta. Il che si accompagna con una enorme fatica nel dire cosa è bene e cosa è male e di portare le decisioni fino in fondo. Se le famiglie decidono delle regole, poi fanno una fatica enorme nel tenere quella decisione. Se anche dico no, poi non ho la capacità e la solidità per portare fino in fondo quel no. Di fronte al conflitto, anche se ad un livello molto basso, cedo. Desidero talmente tanto il meglio per mio figlio che finisco per iper proteggerlo e vedo il mondo di oggi talmente cambiato da come era il mondo in cui sono cresciuto io, che dubito delle mie convinzioni, prima ancora che ne dubitino loro. Ho l’ansia che per un mio no, magari sbagliato, mio figlio possa essere diverso dagli altri, possa perdere un’opportunità, possa non venire compreso. Quello che notiamo, come capi e come insegnanti, è che i genitori non sono in grado o comunque fanno una enorme fatica a contenere le normali ansie dei figli, in particolare dei figli adolescenti. Quindi diventano parte delle ansie dei figli, al punto che gli adolescenti non hanno più il coraggio di essere adolescenti veramente ribelli, perché vedono i genitori così fragili, che non possono svolgere il loro percorso abituale di adolescenti ribelli, per timore di mandarli in crisi. Gli adolescenti, così, però, non confliggendo e non ribellandosi per crescere o non trovando contenimento alla loro ribellione, come crescono? 

Così vuol dire che non c’è spazio per sbagliare, non c’è spazio per essere diversi dagli altri, non c’è spazio per ciò che non è previsto e controllabile. Non dico che tutte le famiglie siano così.  Ma dico che queste sono tendenze generali ed anche le famiglie più solide sono prese in mezzo in queste difficoltà. Le famiglie più solide provano a dare un argine ma si interrogano tantissimo sul dove porre questo argine, sulla giustezza delle proprie decisioni, sulla responsabilità che un eventuale loro errore da genitore può portare come conseguenza al figlio. 

In tutto questo, la scuola? La scuola in tanti aspetti va a potenziare queste difficoltà. Perché spesso richiede la prestazione, richiede di essere sempre al top, richiede di non andare fuori dal seminato, non valorizza il pensiero divergente. La scuola spesso crea ulteriore ansia alle famiglie e quindi ai ragazzi.  

Cosa possiamo fare? 
Come Agesci la proposta che facciamo alle famiglie è fare un percorso perché i loro figli crescano come persone autonome, capaci di pensare e di scegliere. Scegliere è difficile, perché se scelgo una cosa, vuol dire che faccio a meno di fare altro, che rinuncio ad altro. Fare scelte oggi è una cosa difficilissima. Noi proviamo ad educare a fare scelte. E mentre tutti sono in ansia e gli sembra di non riuscire a sopravvivere in mezzo a mille cose, noi proviamo ad educare a scegliere di mettersi a disposizione degli altri. Non per altruismo o per follia. Ma (oltre che perché Qualcuno l’ha fatto e detto tanto tempo fa) perché siamo convinti che questo dia felicità. 

Come facciamo?
Facciamo fatica. Niente viene facile. Ma ci sono passaggi che tutti i gruppi di capi che lavorano con i bambini di un territorio passano nel rapporto con i genitori. Da un iniziale rapporto di informazione: ti racconto cosa faccio, ti tengo aggiornato, passano piano piano a cercare di coinvolgerti. Con attività, momenti di festa, momenti di incontro… Entro in relazione.  Il passaggio successivo è coinvolgerti nel progetto educativo. Non è più solo il mio progetto educativo, è il progetto educativo che ti propongo per i tuoi figli e su cui ti propongo di coinvolgerti, per i tuoi figli o per i figli degli altri. Ti offro un’occasione di metterti anche tu a servizio. Ti offro la possibilità di fare un’esperienza, ti offro di stare in relazione. Perché si impara solo attraverso esperienza e relazione. 

Al di là delle singole cose, delle singole proposte, delle singole attività… (può essere una torta, un accompagnamento, un lavoro di costruzione….) innanzitutto ti propongo di incontraci e di entrare in relazione. Ed è lì la vera fatica, anche per noi, non è nel fare le cose. E’ nel saper stare in relazione con gli altri, che non sono mai esattamente come io li vorrei. 

E come scuola? 
La normativa scolastica è molto bella. Dagli organi collegiali (del 1974) all’autonomia… c’è la possibilità di una offerta formativa dove sono coinvolti anche i ragazzi e le famiglie. Molti di noi hanno costruito patti di comunità con i territori, con le amministrazioni e con gli enti del terzo settore. Sempre più la strada sarà andare in questa direzione. Costruire patti in cui stare insieme.

Parliamo sempre di reti, ma a me piace di più parlare di alleanze. Perché la rete è un oggetto freddo e inanimato. Nell’alleanza c’è un tu ed un io che insieme diventano un noi e che insieme vanno in una direzione. 

(appunti presi in diretta e non rivisti dagli autori dell'intervento al seminario "In ascolto delle famiglie" promosso dalla delega Famiglie e stili di vita delle Acli Nazionali). 

I circoli di lavoratori: cellula base del movimento aclista dalle origini

I circoli esistono da quando esistono le Acli. Nella Acli della nascita, il circolo di lavoratori è la “cellula base” del movimento. I nucle...