Come si può affrontare l'emergenza abitativa a Roma?


Per dare risposte, premesso il periodo di scarsità di risorse, bisogna scindere un problema complesso in tanti problemi differenti, che si possano affrontare. Intanto l’emergenza abitativa si può scomporre in due fasi. Immaginatela come se fosse un lago con un emissario e un affluente. L’acqua che arriva sono le nuove famiglie che entrano in emergenza abitativa e che quindi fanno domanda di alloggio. Sono all’incirca 1500.  In uscita ci sono quelli a cui ho risolto il problema assegnando una casa popolare. Sono circa 350. Se io in un anno ho 1500 famiglie che perdono l’alloggio e assegno la casa a 350 famiglie il problema è irrisolvibile. Peggiora, invece di migliorare, di anno in anno. Oggi il sistema è un imbuto. Tante entrano, pochissime escono. E’ un imbuto che si allarga ogni anno. Serve lavorare su due parametri: l’entrata e l’uscita. Se io potessi diminuire il numero di famiglie che entrano, da 1500 a 750 e potessi assegnare 750 case all’anno invece che 350, a quel punto avrei un flusso in pareggio. Una volta ottenuto il flusso in pareggio posso aggredire, con interventi straordinari, chi è rimasto in attesa.
In che altro modo posso intervenire per ridurre l’emergenza abitativa? 

Case popolari: i disastri attuali derivano dalla somma delle concause


I disastri attuali derivano dalla somma delle concause:

1. La forte immigrazione degli ultimi 15 anni non ha trovato sfogo nel mondo delle case popolari. 
Dai dati si vede che a Roma la presenza di immigrati è in media del 13,4 %. Con zone in cui si arriva al 30%. Nelle case popolari è attorno la presenza degli immigrati è attorno al 5%.
Quindi si vede che c’è un problema di massiccia presenza di immigrazione in alcune aree (l’accesso a quelle aree però non è determinato da decisioni di governo). A Roma ci sono zone che sono ex borgate in cui gli affitti costano meno. E gli stranieri sono andati a vivere in quelle aree che potevano permettersi. Sono zone ex abusive. Ma la maggior parte comunque vive in comuni extra fascia, dove ci sono connessioni rapide con la città. Un esempio è Ladispoli. Che è sul mare, che in treno è raggiungibile da Roma in 45 min. E che ha una struttura di casette basse. Dove magari si può affittare una villetta in tanti e ammortizzare i costi di residenza.
C’è quindi una concentrazione di immigrazione in alcune aree. Non c’è una concentrazione di immigrazione nelle aree di edilizia pubblica, proporzionatamente alla presenza generale di immigrazione.  E’ vero che è mancata una risposta politica abitativa a fronte della ondata migratoria. Che è del 2004-2011. E che è stata comunque molto ridotta rispetto all’ondata di migrazione interna dei decenni precedenti.

Le cronache parlano di nuovo bisogno di case. In realtà quello di cui abbiamo veramente bisogno è un nuovo approccio.


Le cronache sembrano parlare di nuovo bisogno di case. I fenomeni non si ripropongono identici. Cambiano volto. La fase è molto interessante perché in realtà quello di cui abbiamo veramente bisogno è proprio un nuovo approccio. 

Nei dibattiti si dice: bisogna costruire 10.000 case popolari. Ha un senso logico. Guardando i numeri. Ma noi i fondi per 10.000 case non li abbiamo più. E’ stata tolta anche la tassa Gescal (la legge che consentiva una tassa che metteva risorse in un fondo per consentire piani di trasformazione. Non abbiamo più questo gettito). E poi ci sono moltissimi edifici vuoti. Servono nuove case? 

1. Roma è una città che non cresce dal 1971. C’è una demografia che non cresce. La variazione demografica in 30 anni è minima. Pensare di costruire 10.000 case ex novo quando la popolazione è la stessa è paradossale. 

2. La politica sulla casa in Italia è stata impostata sulla crescita di edilizia popolare legata all’acquisto. Tutti i piani costruttivi prevedono che si facciano case popolari connesse alla crescita edilizia. Si fa un po’ di edilizia privata e assieme un po’ di pubblica. Se non fai la privata, metti in crisi anche la pubblica. 

3. Noi abbiamo investito sull'edilizia agevolata, cooperative che consentivano di acquistare alloggio a prezzi minori di quelli di mercato. Gruppi e cooperative (di tutti i tipi in Italia) che mettono in condizione anche chi appartiene al ceto medio basso di acquistare. Lì sono andati maggior parte dei nostri finanziamenti. Ma ora si sono ridotte le risorse. 

4. Noi siamo uno dei pochi paesi europei che ha un alto tasso di proprietari. Il 79% delle case in Italia sono di proprietà. Mentre in altri paesi c’era anche un mercato storico sugli affitti. In altri paesi ci sono gruppi che costruiscono per mettere gli alloggi in affitto. Noi abbiamo trascurato il mercato degli affitti. Da noi è cosa molto complessa cercare in affitto. Le case popolari sono una risposta, il mercato privato è un’altra, manca tutta la risposta per la fascia intermedia. Giovani coppie, persone monoreddito, precari…mancano politiche pubbliche di abbattimento delle quote di affitto. Se tu hai un reddito disponibile per l’affitto di 400 o 500 euro al mese, sei tagliato fuori dal mercato degli affitti. Con la precarizzazione del mondo del lavoro c’è stato salto forte tra le condizioni lavorative dei vostri genitori e le vostre e se i vostri genitori non vi hanno passato una casa adesso voi spesso avete un problema.

Ma questo è semplicemente il modo in cui è andata...



Il libro, pubblicato nel 2013 e connesso presenta una panoramica sulla figura di Saul Alinsky, considerato l'ideatore del "community organizing" e si propone in maniera esplicita il proposito di "portare questo metodo in Italia".

Rispetto ad altre pubblicazioni è, ovviamente, meno approfondita. Di interesse però in particolare la parte contenente due interviste.

"In questo momento sono congelati, doloranti in apatia, conducendo quelle che Thoreau chiamò “vite di quieta disperazione”. Sono oppressi dalle tasse e dall’inflazione, avvelenati dall’inquinamento, terrorizzati dal crimine urbano, spaventati dalla nuova cultura giovanile, sconcertati dal mondo computerizzato che li circonda. Hanno lavorato tutta la loro vita per comprarsi la loro piccolo casa nelle suburbia, la loro televisioni a colori, le loro due macchine, e adesso la loro buona vita sembra essersi ridotta in cenere davanti ai loro occhi. La loro vita privata è generalmente insoddisfacente, le loro professioni lo stesso. Hanno capitolato a tranquillanti e stimolanti, affogano leloro ansie nell’alcool, si sentono intrappolati in matrimoni a lungo termine o fuggono per divorzi colmi di sensi di colpa. Stanno perdendo i loro ragazzi e stanno perdendo i loro sogni. Sono alienati, spersonalizzati, senza alcun sentimento di partecipazione al processo politico e si sentono rifiutati e senza speranza. La loro utopia di status e sicurezza è diventata squallida suburbia, i loro livelli sfalsati hanno germogliato sbarre di una prigione e la loro delusione sta diventando terminale. Sono i primi a vivere in un mondo totalmente volto ai media, e ogni sera quando accendono la TV e ci sono le news, vedono la quasi incredibili ipocrisia, inganno e anche idiozia pura della nostra classe dirigente e la corruzione e disintegrazione di tutte le nostre istituzione, dalla polizia alle corti alla stessa Casa Bianca. La loro società sembra star cadendo a pezzi e vedono loro stessi come niente più che piccoli fallimenti all’interno d’un più grosso fallimento. Tutti i loro antichi valori sembrano averli abbandonati, lasciandoli alla deriva in un mare di caos sociale....
Dichiara lo stesso Alinsky in un'intervista a Playboy (intervista che non ha nulla a che vedere con ciò che viene in mente pensando alla rivista!) nel 1972, poco prima della morte (inaspettata, per infarto). E concludeva con: "Credimi, questo è ottimo materiale da organizzare". L'impressione, rileggendo 50 anni dopo, è che qualcun altro abbia compreso e messo in pratica il suo messaggio. Ma questo non è una sorpresa:

"Le loro paure e le frustrazioni circa la loro impotenza possono tramutarsi in paranoia politica e demonizzarli, facendoli svoltare a destra, il che li renderebbe maturi per la spiumatura, ad opera di un ragazzo a cavallo, promettendo un ritorno alle verità svanite di ieri. La destra darebbe loro capri espiatori per la loro miseria - i neri, gli hippy, i comunisti - (...)  
Ma non lasceremo loro il campo senza una lunga, dura battaglia – una battaglia che credo vinceremo. Perché mostreremo al ceto medio i loro veri nemici: l’elite del potere delle corporazioni che governa e rovina il paese – i veri beneficiari delle cosiddette riforme economiche di Nixon". 
Della seconda intervista, realizzata da David Tozzo, autore del libro, al figlio di Alinsky,  è per me personalmente interessante il punto di vista che ricuce la storia familiare e quella di impegno:
"Sai, in un certo senso posso essere molto fiero di lui e in un certo senso posso essere molto incazzato con lui, perché non c’era quando volevo ci fosse, ma questo è semplicemente il modo in cui è andata".




Animazione e comunità: come abbiamo fatto lavorare questi due concetti nelle aree interne


Animazione e comunità, come abbiamo fatto lavorare questi due concetti sulle aree interne

In queste aree abbiamo creato delle equipe chiamando dei progettisti che andavano sui territori e facevano attività di scouting. Cercavano soggetti con cui immaginarsi il futuro di questi territori. Noi guidavamo il processo di stimolo, ma il processo doveva essere costruito da amministratori locali, portatori di interessi e attori rilevanti. La teoria che sta dietro questa SNAI è che per fare sviluppo in questi territori bisogna portare visioni che aprono conflitti. E’ necessario che la gente dibatta (nella maniera che diceva Sen) e che costruisca visioni. Il dibattito è sempre stato acceso, perchè non nascondevamo nulla sotto il tappeto. 

In un’area con il 14% degli immigrati, se non c’era un immigrato presente chiedevamo: come mai non c'è nemmeno un immigrato? E poi proseguivamo: “Adesso parliamo, ma noi vogliamo la rappresentanza di tutti”. E lo dicevamo consapevoli che su questo loro si sarebbero scazzati. Ma chiedevamo. Sollevavamo i problemi: “Come mai oggi abbiamo individuato cose innovative e non ci sono?” “Come facciamo a costruire il futuro se c'è solo il sindaco?”. Cercavamo di introdurre elementi di conflitto e di rottura nella costruzione della visione locale. Con l’idea che le politiche di sviluppo vanno fatte con la logica stakeholder. Spesso chi è al tavolo e rappresenta sono agenti estrattivi. Intermediano le risorse pubbliche per mantenere il consenso del territorio. Non hanno interesse a cambiare. Hanno interesse a governare una sorta di declino. Chiamiamo persone che fanno nascere dibattiti forti. Agiamo in una logica di decostruzione della comunità. Di svelamento. Abbiamo disvelato il fatto che non è che se c'è forte appartenenza di un gruppo, allora tutti gli abitanti condividono quello stesso senso di appartenenza territoriale. Abbiamo notato che chi abita da poco (neo rurali) fa scelte differenti da chi è sul luogo da molto. Abbiamo fatto emergere le visioni e abbiamo iniziato a farle confliggere.  Quante visioni di sviluppo ci sono sul territorio? Sentivamo di dover far confliggere queste visioni, in modo governato. 

Per fortuna in questa politica c'è stata l’idea di uno Stato che si mette a dispozione del territorio, che innesta dinamiche e cerca di ricomporle. In un modo anche molto difficile e molto stancante. L’animazione può essere l’attivazione di risorse che stanno sul territorio. L’attivazione di  risorse palesi ma anche di risorse latenti. L’attivazione che può produrre discontinuità e conflitto. Con l’idea che sia possibile ricomporre il tutto in una strategia. Non necessariamente in modo del tutto consensuale. Ma ricomposto. 

Un tema posto è stato: come fanno tutti (rientranti, giovani emigrati…) se vogliono ritornare, come fanno ad accedere alla terra? Se voi non siete figli di contadini, ma avete una grandissima passione che volete provare a seguire, arrivate in un posto ed iniziate a cercare la terra. Nessuno ve la vuole né vendere né affittare. Perchè c’è un grandissimo feticismo proprietario. Siccome era del bisnonno, io la tengo. Non importa che resti incolto. Ma resta in onore al bisnonno. Meglio incolto ma mio, piuttosto che rigenerato ma dato a qualcun altro.  Con il passare delle generazioni, questo produce una grandissima frammentazione fondiaria. Significa che immaginate questa stanza come una campo, divisa in 25 proprietà. In alcuni casi non trovi più i proprietari. In altri piuttosto che darlo a qualcuno lo tengo come è. Come facciamo a rendere la terra nuovamente accessibile a chi vuole coltivare e quindi vuole ricostruire un’identità di quel territorio, che non sia il passato e il declino e l’abbandono? 

La ricomposizione dei terreni agricoli, può sembrare una questione tecnica, ma è una questione sociale. Si tratta di prendere le persone e convincerle,  discutendo di bene comune e di sviluppo. Convincerle che quel pezzo di terra è meglio unirlo ad altri, o affittarlo ad un giovane, piuttosto che lasciarlo così come è. Non è che noi avessimo la soluzione. Noi avevamo capito che questa era una domanda. E allora ci siamo messi a cercare in giro per l’Italia per vedere dove si erano inventati un modo di ricomporre la proprietà fondiaria (siamo andati a cercare l’innovazione sociale). E guardando i diversi modi abbiamo visto che c’erano alcuni fattori comuni: serve cooperazione tra fattori economici (i proprietari) ed istituzioni. Le istituzioni devono creare un clima favorevole. Devono dire che il tema è importante per il futuro delle comunità. Cosa possono fare per attivarsi? Possono fare politiche locali, tipo mettere insieme i catasti o creare banche della terra locali. Abbiamo terre pubbliche? Creiamo un portale dove mettiamo tutte le terre pubbliche che vogliamo dare ai giovani e creiamo un match tra domanda e offerta. Serve una forte intenzionalità per processi di questo tipo. Servono persone che, in maniera perseverante, perseguano un obiettivo, superando i mille fallimenti. Con un orientamento al bene comune. E con attenzione alla cultura territoriale locale. E’ diverso ragionare dove c’è una cultura cooperativistica e dove c’è il clan del pascolo che mette i bastoni tra le ruote. 

C’è un caso, dove non hanno lavorato alla ricomposizione fondiaria in senso famigliare. La proprietà è rimasta frammentata, ma si è puntato al fatto che concedessero le terre ad uno stesso consorzio. C’era un agronomo che voleva mettere in piedi un consorzio forestale per fare una filiera di energia termica. Voleva scaldare le scuole con la biomassa locale. E voleva tornare a lavorare il bosco. Le prime riunioni che ha fatto, i proprietari terrieri non erano disponibili a dialogare tra loro. E' partito con il lavorare su chi aveva le proprietà vicine. Poi ha capito che doveva lavorare con chi aveva intenzionalità di farlo. Ma quelli erano pochi ed avevano le proprietà distanti tra loro. Ha pensato: se io unisco in un consorzio quelli distanti, dal punto di vita economico è un disastro, ma dal punto di sociale intanto devo avere il passaggio, poi lentamente loro vedono il migliorare e si convinceranno che stanno facendo una cosa positiva. E’ partito dai volenterosi. Che erano tutti persone non residenti. E tutti quelli che non avevano concesso erano persone del posto. Poi è scattato il processo di mimetismo ed emulazione, hanno iniziato a vedere il bosco del vicino. Ed ha puntato a ricostruire  una comunità del posto. Hanno inventato la festa del bosco,  per costruire capitale sociale e per ricomporre. Convinti che le politiche servono a creare contesti, ma che sarebbe ora che le istituzioni investissero in figure che curano sul territorio questi processi. Una delle cose che Barca disse è: invece di fare tante politiche costruendo burocrazia, assumi 1000 giovani che vadano sui territori e facciano animazione al conflitto. Così in Europa fai vedere che sui territori succedono elle cose. E’ più importante lavorare sul processo che sulle regole. Le regole una volta stabilite ti creano una gabbia che non ti permette di lavorare davvero. Lavorare sul processo e costruire politiche sul processo è investire davvero. Si è visto che un gruppo di persone con forte intenzionalità e con una idea molto chiara delle cose, le cose le ha portate a casa. 

Il nostro modo di lavorare è stato questo: Lo Stato è ignorante. Non ha competenze per fare politiche publiche, può ingaggiare esperti che sono in grado di leggere se ciò che trovano può portare a diventare politiche pubbliche o no. Dal territorio veniva fuori il tema. Ci siamo mobilitati, abbiamo fatto un seminario nazionale, abbiamo invitato 30 casi che avevamo individuato noi, facendo attività su internet, chiamando il funzionario che dice... conosci qualcuno che... abbiamo trovato 30 casi, abbiamo convocato tutte le aree e abbiamo raccontato tutte le esperienze. Dicendo: non esiste una politica publica univoca. Ma esiste un'idea. Attivare un processo di costruzione di capitale sociale, di relazione, su un territorio, in un certo modo. Imparato questo, abbiamo provato in alcune aree a sperimentare. Quindi l’idea è: ci sono competenze diffuse che il pubblico può conoscere, può fare proprie, traducendo quelle competenze in azione o in politica pubblica.

Noi non abbiamo preso le persone e ricomposto. Noi abbiamo offerto al territorio una attività di formazione per capire come fare a ricomporre. E abbiamo creato il tessuto istituzionale e l'autorevolezza nazionale che dice che questo è un tema sentito. Capiamo cosa possono fare i sindaci, cosa i proprietari, cosa i privati. Lavorare a mettere insieme servizi che i comuni gestiscono. In una logica di Co-progettazione. Stato, territorio, istituzioni locali e attori rilevanti del territorio. Siamo andati con il pullman in tutte le aree. Abbiamo fatto 100.000 km. Si è creata anche tra noi una comunità di policy making. La politica è stata fatta sul pullman. Le decisioni sono state prese sul pullman. 

Ci sono mille esperienze. C’è un racconto che è mitologia. Paese in cui ci mettono un’ora e 45 per andare a scuola. Abbiamo incontrato i ragazzi. Abbiamo capito la situazione. Abbiamo sentito che questo era un tema che ci dovevamo prendere a cuore. Ci siamo detti: la Stai non può andare a casa senza aver risolto questo tema. Ci sono questioni che magari non sono prioritarie. Ma che diventano simboliche. Noi abbiamo visto questa questione come simbolica. 

Riguardava 6 ragazzi. Ma noi abbiamo sentito che se risolvevamo questa potevamo dire in tutta Italia che era fattibile. La regione diceva: sono 10 ragazzi, cosa dobbiamo spendere per 10 ragazzi? Qualcuno molla, qualcuno va avanti, ci siamo impiccati per anni sui tavoli in regione e con il  consulente da Roma… Ad un certo punto... qualcuno ha una intuizione. Mi pare che nessuno riesca ad avere una empatia umana. Proviamo a viverla anche noi. 

Abbiamo proposto al tavolo di lavoro di prendere il pullman e fare il percorso dei ragazzi. Andata e ritorno. La reazione è stata: come ti permetti tu che vieni da Roma di dire che non conosciamo il territorio... alla fine ciò che ha fatto sbloccare è stata la forza di una politica tradizionale, dove lo Stato ha il pallino. La mia coordinatrice chiama e dice “lo facciamo”. A volte ci vuole anche lo scontro istituzionale. La mia coordinatrice non aveva nessun titolo per chiamare e imporre. Ma ha chiamato. Abbiamo preso gli studenti, i genitori, i dirigenti (che vivevano tutti in città in centro). I tecnici. E l’azienda dei trasporti e una serie di soggetti che avevamo individuato. Ed un autista in pensione che ricordava tutti i tragitti di tutte le corriere. 70 km di tornanti. Noi tutti con il mal di stomaco a lavorare su un pullman, un po’ di schiena… Ad un certo punto l’autista ha una idea. Facciamo fermare alla piazzola e gli chiediamo: come la vede? E lui sbotta: lo dico da 10 anni: se facessimo la piazzola di smistamento in un comune intermedio. E facessimo partire due pullman, quello piccolo e quello grosso, risparmieremmo in gasolio e in tempo. Perchè invece di fare tutti i comuni ne faremmo solo alcuni. 

Il risparmio complessivo era di 40 minuti. Che non è tutto. Ma è qualcosa. Il nostro tecnico SNAI inizia a lavorarci sopra. Si convince che l’idea è sensata. Organizziamo un tavolo di soli tecnici. Anche la regione si convince. L’azienda di trasporti comincia a dire di no. Ma poi capiamo che per loro la questione era di tariffe. Loro erano pagati a km, non a persona. Alla fine l’idea dell’autista è passata. Ed è stata finanziata. Ed è stata costruita la piazzola. E’ un esempio da manuale di come la conoscenza locale ci sia, magari tacita. 

Perchè non è stata fatta prima? Perchè la conoscenza non è emersa prima? Perchè, senza una politica dietro, i ragazzi non avevano voce. Potevano protestare, ma non avevano efficacia per farlo. Non è una best practice. Non è che ha funzionato qui e quindi si replica altrove. E’ il metodo che conta. E il metodo è anche quello di fare una cosa eterodossa. Se uno diceva: io non vengo perchè non sono assicurato…gli appigli burocratici, gli scoraggiatori militanti, sono infiniti. Se uno non ti vuole fare fare una cosa non te la fa fare. Cosa fa funzionare? In un sistema di regole soffocante come il nostro, le persone fanno la differenza. 











Aree interne vuol dire postura territoriale





Il tema delle aree interne ha a che fare con il tema delle periferie. 

In Italia non si usa il termine periferie, per indicare le aree interne. Ma a livello europeo si usa un termine che è periferie inner. In italia si parla semmai di territori marginali rurali.  Perchè è interessante usare il criterio di area interna? Perchè esiste il problema dello stigma della definizione. Per molti anni si sono chiamate aree marginali. Ma marginale rimandava a marginalità. Alcuni politici hanno spinto per definirsi marginali o sottosviluppati. Il polesine (delta del po, area interna anche se sotto il livello del mare, tenuto asciutto con le idrovore, dopo l’ultima bonifica del fascismo) ha fatto carte false per rientrare in una legge di finanziamento del mezzogiorno negli anni 70. La marginalità è uno stigma, ma quando c'è una politica pubblica che attiva un finanziamento, la politica locale si attiva e dello stigma se ne fa una ragione. 

Area interna è stato un tentativo di definizione neutra, anche se non immediatamente intellegibile. Periferico non è solo la periferia della grande città,  periferico è tutto ciò che è periferializzato dai processi di innovazione. Quindi anche, forse soprattutto, le aree interne. 

Aree interne e periferie delle grandi città condividono l'essere periferia. Ma ci sono differenze sostanziali tra periferie urbane e aree interne:
  • c’è un tipo di economia diversa. Le aree urbane sono più industriali e sul terziario. Le aree interne sono più rurali. Anche se ora c’è anche un tessuto urbano rurale.
  • il tessuto sociale nelle aree interne è connotato da più relazioni, ci si saluta di più, ci si conosce di più, si va più piano. C’è un mito della comunità come cosa positiva. Non è detto che sia sempre reale. Ma nella area interna c’è una connotazione maggiormente di comunità. Con i pregi e difetti della comunità. 
  • tra periferia urbana e area interna c’è una presenza di classi socio economiche differenti. Nella periferia urbana ci sono prevalentemente stranieri, a basso reddito. Nella zona isolata per abitare devi avere una casa di proprietà ed una macchina. Nell’area urbana ci sono anche abitazioni in affitto, case popolari… 
  • Le forme della povertà sono diverse. E' diverso il peso della povertà relativa. Nella periferia urbana c'è maggiormente povertà, nella periferia interna c'è una situazione più interclassista. Ci sono ceti sociali diversi anche affiancati. 
  • Struttura demografica. Il tasso di persone anziane nelle aree interne è molto molto alto. I demografi dicono che se superi il 30% di popolazione anziana, se non arriva qualcuno da fuori si deperisce fino a diventare residuali. Ci sono parti delle aree interne hanno anche più del 35% di popolazione anziana. 
  • Disagio: il tipo di disagio è differente. Nelle aree interne è difficile individuare le soglie di sostenibilità per i servizi, perchè non c’è massa critica. E’ complesso organizzare la mobilità delle persone per raggiungere i servizi. Ma il rapporto tra uomo ed ambiente è positivo, c’è un rapporto numerico tra superficie e persone molto ragionevole. 
Altra cosa che caratterizza in modo diverso periferia urbana e periferia inner sono le politiche. E’ vero che esiste la SNAI (Strategia nazionale delle aree interne) che si occupa di questi territori, ma è una eccezione nelle politiche territoriali di sviluppo in Europa. Tutte le politiche hanno sempre in mente la città. Quando parliamo di povertà, di esclusione, di diritto alla casa… Di fronte alle risorse scarse un politico e un amministratore se devono investire soldi scegliendo tra periferia urbana degradata e paesini con poche persone, sceglie sempre la periferia urbana. E’ inevitabile che sia così, ma in realtà il tema delle aree interne è una urgenza, rispetto al cosa sarà il nostro paese tra 20 anni. Se è vero che le aree interne potrebbero diventare appetibili per motivi climatici, se è vero che esistono sempre più giovani che si reinventano la vita in queste aree, si potrebbe avere una nuova dinamica di sviluppo in questi territori. 

Infine c’è un elemento che accomuna le periferie urbane e le aree interne. Ed è un elemento che ha più a che fare con la politica che con le politiche. Oggi va molto di moda parlarne, ma fino a qualche anno fa i politologi dicevano che la dimensione territoriale non contava niente nella determinazione dell’orientamento politico. Semplificando le espressioni di voto in centro destra, centro sinistra e 5stelle. E rapportando questi dati con la classe di ampiezza dei comuni, si notano dei fenomeni che sono interessanti perchè non coinvolgono solo l’Italia e perchè superano una concezione diffusa (concezione che considera la contrapposizione tra città con orientamento a sinistra e provincia con orientamento a destra). Leggendo l’immagine che emerge da questa analisi infatti vediamo che il centro delle grandi città va a sinistra, mentre periferia ed aree interne vanno a destra. Il dato politico quindi è che le periferie (sia urbane che interne) sono soggette ad un fenomeno che stiamo chiamando deriva autoritaria. Sono soggette ad un emergere di domanda di comunità chiusa, di rigetto della diversità, di ricerca della omogeneità, di rabbia verso gli esperti e l’elite, di richiesta di autorità in grado di stigmatizzare i comportamenti devianti.  Per questa ragione oggi, il tema delle periferie (interne e urbane) sta entrando nel dibattito pubblico.

L'impressione, a fronte di questo tipo di lavoro, è che la domanda profonda delle aree interne sia di riconoscimento. Che la rabbia nei confronti dello straniero origini da un "riconosci persino loro, perchè non riconosci me" indirizzato alla politica. Che non ha politiche per le aree interne. E che, anche culturalmente, considera arretrato e "da civilizzare" tutto ciò che non è città. 
  
La definizione di area interna è una definizione molto particolare. Voi come provereste a misurare le diseguaglianze? Ci sono molti diversi modi di studiare le diseguaglianze. Uno è quello di guardare alle diseguaglianze sociali, di reddito, di disponibilità… studiare le diseguaglianze territoriali è un’altra cosa. C’è una diseguaglianza territoriale quando le condizioni aggregate delle persone che vivono in quel territorio sono complessivamente diverse rispetto a quelle che vivono in un altro territorio. Storicamente la marginalità territoriali sono sempre state misurate con criteri economici. C’è sempre stato un assunto in tutte le politiche di sviluppo: se bisogna intervenire in area di sottosviluppo, va fatto portando lavoro, facendo impresa e quindi la priorità è produrre ricchezza. I servizi arriveranno dopo. Il problema è che i servizi  poi non arrivano. Quindi, per definire le aree interne, abbiamo fatto una operazione culturale. Abbiamo iniziato a misurare queste aree interne non in base ai valori economici ma in base ai diritti di cittadinanza. Persone che hanno più diritti di cittadinanza o meno diritti di cittadinanza. L’idea è quella di misurare il divario civile. Nel nostro paese esistono persone che hanno più possibilità di accedere ai servizi e persone con meno possibilità di accedere ai servizi, non in base al reddito individuale, ma su base territoriale. In questo modo abbiamo detto che ci sono interi comuni caratterizzati da perifericità spaziale, rispetto ai poli dei servizi. 

Abbiamo detto che non ci convince la sola dimensione nord/sud. Perchè il nostro Paese è articolato e politicentrico. L’Italia è un paese che ha tanti centri, non è un paese come la Francia, che ha Parigi e poco altro. L’Italia è il paese dei tanti campanili, delle tante città medie, dove gravita la vita civile e la vita sociale. La rappresentanzione nord/sud non aiuta ad aggredire le diseguaglianze. Esistono tanti sud nel nord e tanti nord nel sud. I poli sono comuni o sistemi intercomunali presenza di: offerta scolastica, mobilità, sanità.  Più ci si mette per raggiungere i poli, più l’area è interna. Con il metodo dei quintili abbiamo diviso il tempo per raggiungere i poli: 20-40 minuti sono aree intermedie. Superiori ai 40 sono periferiche. Oltre i 75 minuti sono ultraperiferiche. A questo punto abbiamo preso Google, abbiamo preso il Catalogo Acli, abbiamo messo al lavoro due statistici e comune per comune abbiamo prodotto la mappa. 
Il rapporto tra concetto di divario civile e l'indicatore distanza è molto indiretto. É un modo indiretto dire che chi sta in un luogo ultraperiferico ha meno diritti. Ma serve per produrre mappa non accademica, con capacità euristica, che permette di confrontare i territori.  Poi c’è stato il confronto. La Sardegna ci ha detto: da noi dovevate considerare gli hub dei pullman. Benissimo, abbiamo preso il pullman come riferimento e ricalcolato.

Tutto questo serve a trasmettere contenuti sul piano politico. Il criterio della distanza è efficace perchè possiamo tradurlo in tantissime storie di vita. Persone che per andare a scuola prendono il pullman alle 5.15 del mattino, poi tornano e fanno lo stesso al ritorno. Per la scuola superiore. Immaginate che forza resta, dopo 5 ore di pullman su stradine, per imparare. O che voglia viene, di continuare a studiare, in chi già fa fatica. Chi arriva alla fine lì vuol dire che è un fenomeno. Gli altri però restano indietro. Stessa cosa si traduce in donne che nel periodo verso il termine della gravidanza, abitando molto lontano, vanno in ospedale giorni prima, per evitare di partorire in macchina. O il sindaco di un paese, che per venire a Roma alle riunioni si alzava alle 3 per raggiungere l’aeroporto e poi essere a Roma alle 10.30 di mattina. Il dato accademico magari era indiretto. Ma è stato un indicatore in grado di entrare nel sentimento delle persone. Ha toccato la pancia. In questo è stato efficace. Non ha guardato il dato economico, ma la difficoltà di accedere ai servizi.

Con il Governo Monti nasce questo ministero, dove un ministro si dà una missione che riguarda l’art. 3 della costituzione: tutti i cittadini devono poter avere garantiti gli stessi diritti, indipendentemente da…Si è deciso quindi che una persona per avere le stesse possibilità deve avere: istruzione, mobilità pubblica e accesso alla salute. Dopo una serie di riunioni, si è visto che queste tre traduzioni empiriche erano le 3 soluzioni migliori (di compromesso) per fare una mappatura su scala nazionale. Avremmo potuto prendere in esame il casello autostradale, ma saremmo andati sulla  mobilità privata. Quella mobilità non la garantisce lo Stato. Lo Stato dovrebbe garantire, anche a non ha mobilità privata, la possibilità almeno di fare le cose essenziali per vivere. E’ evidentemente un compromesso. E non è facile scegliere. Ma è stata la scelta più convincente. Così è nata la SNAI. La SNAI esiste ancora, io oggi ne faccio parte a titolo gratuito, la strategia è ancora in fase di attuazione. 

Cosa viene fuori dalla mappa? Emerge una Italia molto frastagliata. Esiste un divario nord/sud. Con un sud con aree interne molto rilevanti. Ed un nord policentrico. Ma tutto molto a mappa di leopardo. Molti centri e molte periferie. Ed alcuni errori. C’è un errore che spicca. C'è una area interna che non ha tutti i criteri di internità. Nel nostro modo di identificare i servizi il Trentino Alto Adige risulta periferico, ma non è periferico. A questo punto quindi siamo andati sui territori, per raddrizzare il tiro. Non siamo andati con un approccio: noi abbiamo fatto la mappa, sappiamo tutto. Siamo andati a confronto su molte problematiche. Ed il confronto è stato molto proficuo. Alla fine emerge che le aree interne sono il 70% del territorio con il 22% della popolazione. 

Poi andati su territori per raddrizzare il tiro. Non abbiamo avuto approccio noi abbiamo fatto mappa. Siamo andati e confrontati su molte problematiche. In queste aree interne sono il 22% della popolazione e 70% territorio. E abbiamo suddiviso in Comuni Polo, Comuni cintura e comuni intermedi e Comuni interni. Nel confronto qualcuno ci ha fatto notare che abbiamo mappato anche parte del suolo urbano. Perchè c’è il fenomeno per cui le grandi città si stanno spopolando mentre le grandi cinture urbane vedono una urbanizzazione in crescita, senza servizi. La geografia classica sfugge a tutte le geografie utilizzate per le politiche di sviluppo. 

La scelta di questo indicatore ha aperto un contenzioso enorme con l’Unione Europea. Perchè volevamo usare soldi comunitari e i soldi della coesione sociale e territoriale, tramite le regioni. Ma quei fondi ragionano con criteri di divisione tra: aree competitive, area ad obiettivo convergenza e aree di ritardo. Noi però abbiamo detto all’Europa: guarda che questa classificazione è troppo rozza. Abbiamo bisogno di differenziare maggiormente. Non possiamo trattare Milano e un’area interna della Lombardia allo stesso modo. Da questo lavoro sono nate le 72 aree in cui la Strategia delle Aree Interne lavora. Sono aree che presentano anche differenze tra loro. Ma tutto sommato le aree interne hanno strutture demografiche, tipi di economia e identità materiali delle persone molto simili. Le aree interne rappresentano il vero collante dell’identità nazionale. Nelle metropoli si vedono le differente. Nelle aree interne c’è il punto di unità. L’esperienza ci ha detto che non è vero che con l’Europa non si può trattare. Con un inglese dignitoso e parlando con sicurezza e conoscenza della propria materia, si può. Anzi, questa può essere una occasione anche per l’Europa. Che non è stata felicissima di questo lavoro ma alla fine questo è entrato nell’accordo di parternariato Italia/Europa. Sono passati 5 governi. Ma non è stato possibile, finora, rivedere questa parte. Perchè se un criterio entra nell’accordo di parternariato, la politica da sola non riesce a modificarlo, serve quanto meno anche un grosso lavoro da parte dei tecnici. 

   

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