Una amorevole durezza


L’incontro con don Roberto... sono 50 anni adesso. E poi l'ho rivisto altre volte, anche in momenti personali importanti. L'incontro con don Roberto per me è stato un insegnamento profondo di rapporto con l’alterità. Sono un non credente, senza se e senza ma, l’incontro con don Roberto è stata la verifica concreta di che meraviglia possa essere un cristiano vero. Don Roberto è sempre stato prete, è sempre rimasto prete, in tutto ciò che faceva, fino all’ultimo momento. Io, da non credente, gli ho voluto bene e in quanto prete gli ho voluto bene. Lui non ha provato a convertirmi. Ma io mi sono reso conto che essere cristiano per lui era una dimensione essenziale, non accessoria. 


Per don Roberto essere cristiano era stare dalla parte degli ultimi. Ma soprattutto non pensare affatto che gli ultimi fossero destinati a rimanere ultimi. Riconoscere, in questi ultimi, una dignità ed una importanza per cui loro erano talmente importanti da essere degni della sua attenzione, ma anche del suo rispetto. Il suo rispetto consisteva anche in una modalità di rapporto totalmente anti-populista. Don Roberto non cercava di piacere loro, non dava loro sempre ragione. Aveva una amorevole durezza. Questa amorevole durezza, secondo me, è una qualità dei cristiani veri. Una qualità che riconosco e che ammiro. E la ammiro  proprio perché io non appartengo a quel mondo lì. Il rapporto con don Roberto è stata veramente una lezione per me, una lezione di quanto si può imparare da un rapporto basato su una differenza profonda e radicale. Perché alla fine si stava da una stessa parte, ma si stava dalla stessa parte in maniera profondamente diversa. Lui su quella parte ci aveva davvero investito tutta la propria esistenza e tutta la propria vita. 

 

Abbiamo detto che quello che faceva don Roberto non era doposcuola, era scuola. Io facevo effettivamente un dopo scuola, al Borghetto Prenestino. E poi mi occupavo di musica popolare. Questo lavoro di ricerca sulla musica popolare era intrecciato all'essere coinvolti nel movimento della lotta per la casa. Lui mi fece cercare per segnalarmi che c'erano due signore Loretta Rippa e Antonia Grande, di Villa Vallelonga, che cantavano meravigliosamente. Che dentro quelle baracche e dentro quell'inferno ci fosse bellezza, è una cosa che mi continua molto ad emozionare. E poi questa bellezza era una bellezza consapevole. Non era semplicemente una eredità culturale che si portavano dietro dall’Abruzzo, ma era qualcosa che, in qualche modo, veniva rivissuta al contatto con la città. L'impatto con queste due signore è stato quando, senza programmarlo, loro cominciano a prendere una serie di stornelli di amore, tradizionali, e se li cantano a botta e risposta. Mentre ascolto, piano piano, mi accorgo che parlano del rapporto con Roma.   C'avevo un cuore e l'ho donato a voi, ma voi a me non ci pensate mai. E' il "voi" delle serenate, ma è anche il "voi" di chi sta nelle baracche, rivolto a noi che stavamo lì fuori, che non li pensiamo, ad una città che non li pensa mai. Quando prendono il famoso verso di una classica canzone narrativa “Se il Papa Santo mi donasse Roma e mi dicesse lassù anni chi ama, gli risponderei vale più chi m'ama che tutta Roma…”. Di fronte a questa città che ti respinge, c’era una cosa che don Roberto aveva colto perfettamente. Che anche in quell'inferno, le persone che erano costrette a viverci, costruivano rapporti, costruivano legami, costruivano comunità, forse.

 

Lui questo lo capisce quando hanno vinto. Ottengono la casa, vanno a nuova Ostia. E si accorgono che qualcosa è andato perso. Non è nostalgia della baracca. E’ nostalgia della comunità. E il sapere che quei rapporti sono oggi a rischio. 


Questo secondo me è la coscienza umana e politica di don Roberto, che anticipa quella dei movimenti. Siccome lui non sta facendo la lotta per la casa (lui sta cercando di costruire diritti umani e civili di persone maltrattate, offese e ferite) il rapporto non finisce quando ottengono la casa. Ma continua. Lì si rende conto del fatto che la continuazione non è tutto quello che si era sperato. Le cose che don Roberto ha detto poi sulla realtà molto difficile e complicata di Ostia sono molto significative. 

 

La cosa che ho sempre ammirato, che mi ha insegnato molto don Roberto, che non sono sicuro di essere in grado di applicare come lui, è che lui era uno di quelli che era venuto a portare la spada, non la pace, per citare una reminiscenza evangelica. Spada non nel senso della violenza, ma nel senso di strumento critico. La spada non di punta, ma di taglio. La spada che non ti uccide ma che divide, distingue, che ti domanda da che parte stai, con chi stai e soprattutto chi sei. 


In questo senso la testimonianza, nel senso più profondamente cristiano e più profondamente religioso di don Roberto è una cosa… forse non unica (uno pensa a Don Milani, a Don Franzoni per altri versanti…) non unica, ma in qualche modo simbolica. Una testimonianza di un modo di essere. Una capacità di tenere insieme intelligenza, passione, politica, teologia e di non avere paura di nessuno. Per lui valeva un'altra delle cose di Don Milani: che l’obbedienza non è necessariamente una virtù. Credo che lui obbedisse ad ordini più alti. Non aveva paura di mettersi contro i suoi superiori nella parrocchia, nella diocesi, nella città. Questa è una cosa rara. Erano in pochi come lui. 


Appunti dall'intervento di Alessandro Portelli 

su don Roberto Sardelli nell'incontro organizzato da Pop 


https://www.facebook.com/pop.movimento/videos/1860887697393545

 

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