Andare a Leopoli: Che senso ha? (1 di 5)




Che senso ha? 

 

Prima di partire lo scambio con i lupetti: "vai a salvarli?" "No! No! Io non salvo nessuno!" "E allora perché vai?". La domanda di senso precede ed accompagna il viaggio. La prima cosa che penso, adesso che siamo tornati, è che: si! Ha avuto senso! Senso personale e senso associativo. 

 

Personalmente è stata un'esperienza intensa di cui sono profondamente grata. Esperienza che ha riportato a galla tantissimi ricordi e tantissime sensazioni. Un flashback continuo in cui Bosnia, Kosovo e Ucraina si alternavano e dialogavano. Con tutta la profonda diversità tra vivere le cose da 20enne, da 30enne e da 50enne. 

 

Il faro, da allora, é sempre lo stesso. "Nessuno può attraversare una catastrofe e sopravvivere ad essa senza avere la sensazione di stare a cuore a qualcuno". L'obiettivo primo del viaggio è stato quello. Far sentire alle persone che stanno vivendo la tragedia della guerra che ci stanno a cuore. E che essere per molti versi impotenti, come siamo, non é essere indifferenti. 

 

La guerra isola, separa, mina alla base l'umanità dei rapporti umani. Opporsi alla guerra è anche rinsaldare i rapporti, far crescere le relazioni, ogni volta che c'è l'occasione di farlo. 

 

Non insieme ma nella stessa direzione

 

Come ci siamo scritti con qualcuno che era in carovana. "Non siamo andati insieme. Ma siamo andati nella stessa direzione". Ci sono alcune differenze di visione o di approccio. Come tra chiunque. Come tra diverse realtà all'interno della carovana stessa. Ma non sono state realmente quelle il motivo della non andata assieme, mi pare, rileggendo a posteriori. Le Acli oggi avevano bisogno di fare una esperienza con una intimità maggiore. Un'esperienza che é un po' anche da figli, nella Chiesa e con la Chiesa. Se non si ritrova se stessi in ciò che si fa' e non si costruisce un proprio modo di fare le cose, non si può stare nemmeno in modo sano e libero e adulto con gli altri. 

 

In silenzio 

 

Perché in pochi? Perchè voi? Perchè non dirlo, prima di partire? 

Non lo so. Perchè quando fai queste cose non sai mai se sono pienamente fattibili, fino a che non sono fatte. 

Perchè a volte le cose accadono, per inerzia e per "caso" (o Provvidenza), senza che ci sia una vera regia. 

Perché c'era il terrore di fare un gesto che potesse essere letto come ansia di protagonismo, come un modo per apparire. 

Perché c'era il desiderio di viverlo senza distrazioni, senza pressioni, senza collegamenti in diretta o interviste nel mentre. 

Perché la dimensione di intimità aveva bisogno di un numero ristretto, di un mondo che potesse stare tutto dentro ad un furgone. Compreso lo spazio per i i pacchi da scaricare e lo spazio liberato che diventa opportunità di condivisione. Con Caritas e Cei prima e con persone di fronte al bivio della vita poi. 

C'è un senso politico in gesti come questi. Ma é un senso politico scavato nell'intimità. É, a modo suo, più il senso politico del pellegrinaggio che quello della manifestazione. 

Sento che c'è anche una sfida in questa scelta, che è condividere adesso, in modo coerente allo stile. C'è anche un limite in questa scelta, che pure era ciò che ci serviva. Il punto di equilibrio ottimale della modalità di condivisione associativa è ancora da trovare. 

 

 

Pragmatici esercizi di umanità, spostamenti e trasformazioni.

La Bosnia. I profughi. L'Europa. La Bosnia é un luogo che non ha più voglia di presentarsi come "quella della guerra". 30 anni...