Perchè è importante fare un congresso, oggi?




I miei sono gli spunti di riflessione di un ricercatore.

Crisi della democrazia

Comincio con il crollo del muro di Berlino, quel clima che c’era in quel periodo, la convinzione (come qualcuno scrisse) che era finita la storia. Il disfacimento dei regimi del socialismo reale e la democrazia liberale che poteva espandersi senza limite su tutto il pianeta. Avevo 20 anni all’epoca. Oggi, a 30 anni di distanza, vediamo una situazione che è diversa da quella che ci sembrava allora. E vediamo che molti di quegli assunti vanno rimessi in discussione. 

Quali sono i sintomi del malessere democratico? La crisi ha lasciato i segni. Rabbia e rancore sembrano moneta corrente, specie tra i ceti meno abbienti. Abbiamo visto l’ascesa di forze politiche che vengono definite neo-populiste e sovraniste. Abbiamo sentito il vento, un po’ sinistro, di un nuovo nazionalismo. Assistiamo all’indebolimento di tutti gli strumenti che il mondo si era dato per gestire un mondo multipolare. Tornano le guerre commerciali e torna il multilateralismo. Viviamo nell’epoca dei social. Paura e rabbia sono alimentate in un clima da panico morale. Migranti, banche, tecnocrazia diventano i nemici da cui difendersi. I social hanno aspetti positivi, ma pongono in posizione critica gli assetti che la democrazia si era data dal dopoguerra in poi. Vengono messe in discussione le statistiche, che una volta erano la scienza dello Stato. Oggi tutto può essere sottoposto a dibattito. E tutto è percepito come un’opinione. 

Se andiamo in libreria oggi ci sono scaffali pieni di libri che parlano della crisi di democrazia. Ci sono volumi che escono a iosa su questo tema. Alcuni parlano di cambio di paradigma geopolitico. Il ciclo del neoliberismo sta venendo meno. L’ordine neo-liberale si sta sgretolando e non vediamo all’orizzonte un nuovo paradigma. 

C’è chi riflette sulle fratture. Sulla frattura sociale e su quella generazionale. Nelle nuove generazioni l’adesione alla democrazia non è più garantita. Inglehart è un autore che ha il dato il via ad una indagine planetaria sui valori. Oggi esce con un volume che si chiama: Evoluzione culturale e la cui tesi principale, guardando all’insieme di tutti i paesi, è il riflesso autoritario. Dai valori post-materialistici si è arrivati alla tendenza alla chiusura, per effetto di una insicurezza dilagante. 

Altri autori parlano di ribellione contro la tecnocrazia. 



Ho pensato di portarvi anche l’immagine dell’elefante della globalizzazione. Perchè dobbiamo sempre relativizzare il nostro sguardo. E’ vero che all’Incontro Nazionale di Studi (INS) abbiamo parlato di mobilità bloccata e di crescenti disuguaglianze, ma non dobbiamo dimenticare il dorso dell’elefante. C’è una parte della curva che dice che negli ultimi 20 anni nei paesi emergenti abbiamo avuto l’emersione del ceto medio. Mentre un’altra parte (la coda) dice che abbiamo chi è tagliato fuori dallo sviluppo.  Infine (la cima) c’è il ceto medio dei paesi sviluppati che hanno patito la crisi. E poi coloro che stavano già bene ed hanno continuato a crescere. 

Se guardiamo all’Europa (io sono classe 68, sono europeista convinto) troviamo altre fratture:
  • la frattura tra protezione sociale da estendere e austerity e fiscal compact
  • la frattura tra paesi creditori del nord e paesi debitori del sud
  • la frattura tra vecchia Europa (quella dei fondatori) e nuova Europa (quella dell’allargamento). E sullo sfondo resta la frattura tra integrazione e sovranità. 
Le ultime elezioni hanno mitigato l’impatto di alcune forze verso la sovranità, ma i conflitti restano. 
E resta anche ai massimi storici la sfiducia e lo scetticismo dei cittadini verso l’Europa. Negli anni 90 il livello di fiducia nei confronti della UE aveva un livello elevato, oggi è molto basso. 

Questa è la cornice del ragionamento. Adesso mi avvicino al tema della cura della democrazia associativa. 

Disintermediazione

Ne parlo dal punto di vista dell’avvento delle nuove tecnologie. Ci sono aspetti positivi, ma anche negativi. Cosa è la disintermediazione? E’ la sostituzione degli intermediari in una filiera di rapporti economici, sociali, politici. E’ un fenomeno che è avvenuto negli ultimi 30 anni, ma che adesso è arrivato a maturazione. All’inizio il fenomeno era limitato al settore finanziario. La disintermediazione è iniziata lì. Poi, tra gli anni 90 ed il 2010, c’è stata l’espansione a tutta l’economia, al turismo, ai beni e ai servizi. Nel secondo decennio del 2000 questa dinamica si è allargata anche alla politica. E’ un fenomeno ambivalente. Con ricadute di vario segno. 

Vediamo le ricadute sulla società: in cima alla piramide abbiamo la dinamica di centralizzazione del potere. Il leaderismo. L’idea che possa esserci l’uomo solo al comando a risolvere tutto. E’ il centro delle retoriche neo-populiste. Io, leader, comando ed ho sintonia diretta con il popolo. Non mi servono intermediari. 

Nel mezzo della piramide vediamo l’indebolimento dei corpi intermedi (partiti, sindacati, associazione di categoria…). Io faccio una generalizzazione, poi si potrebbe vedere il dettaglio. Ma parlo di una dinamica che è anche europea, non solo italiana. Il fenomeno è ambivalente perchè nella società c’è una apertura democratica. C’è una maggiore autonomia ed iniziativa dei cittadini, anche grazie alle potenzialità della rete e dei social. Abbiamo i prosumers (cittadini che grazie a commercio elettronico personalizzano il proprio consumo). Abbiamo molte iniziative. 

In generale si passa alla personalizzazione e si lascia la serialità  e l’omologazione  del passato.  Abbiamo l’ascesa di cittadini che si informano, vanno sui social, dicono la loro. Ma è un fenomeno ambivalente perchè è emerso che nel corso delle presidenziali americane il 60% dei cittadini ha formato la propria opinione attraverso facebook. E abbiamo scoperto che è possibile comprare pacchetti di contatti social di elettori. Ed con un marketing virale personalizzato, investendo dei soldi, è possibile parlare a questi elettori e influenzare la dinamica e spostare l’esito del voto. Questo è un fenomeno che prima non c’era. E dobbiamo tenerlo presente se parliamo di crisi della democrazia oggi. 

Terzo Settore

In questo quadro, cosa è avvenuto al Terzo Settore?  Se guardiamo ai dati dobbiamo prendere quelli dal 2001 al 2011, con aggiornamento al 2016. L’Istat ancora chiama il Terzo Settore “istituzioni non profit”. Il numero di “Istituzioni non profit” in questo periodo è cresciuto. Con una crescita annuale del 2,8 % che è un dato significativo. Ed è cresciuto il numero dei lavoratori dipendenti impegnati in questo settore, con una crescita del 4,1% annuale. Questo vuol dire che, guardando questi dati, il Terzo Settore oggi conta quasi il 7% del totale. Vuol dire che ha aumentato la sua dimensione. Ma questo non vuol dire che anche il Terzo Settore non sia esposto ai problemi della disintermediazione. 

Vengo quindi alla Riforma del Terzo Settore. Qui ho applicato la analisi SWAT. Di fronte a questo scenario di crescita complessiva, la Riforma ci dà occasione per riguardare al Terzo Settore e capire cosa sta accadendo. L’obbligo di rendicontazione sociale darà modo di pensare strategicamente, di essere più riflessivi e quindi di migliorare gli interventi a livello locale. A livello di opportunità ci sono maggiori strumenti di raccolta fondi e comunicazione sociale. Altro aspetto fondamentale (che salta all’occhio a chi si era occupato della Legge 328 a suo tempo) l’invito a formare reti di secondo livello che dovrebbe permettere di allargare le alleanze, superare le frammentazioni ed andare più compatti.  

D’altro canto, in un processo di accreditamento i soggetti più informali potrebbero rischiare di essere tagliati fuori. E una forte enfasi sull’impatto, rischia di incentivare l’istituzionalizzazione e l’aspetto procedurale a discapito della processualità. Questo può trasformare i soggetti, spostando l’attenzione alla capacità di superare il processo di verifica più che all’azione reale sul territorio. E’ una dinamica che si vede maggiormente sviluppata se  si guarda all’America, dove il processo è più avanti. 

Oggi qui parliamo di cura della democrazia associativa e dei congressi. 

Le Acli hanno una tradizione di democrazia associativa. Toqueville diceva che le associazioni sono palestre di democrazia. Nel 2001 le Acli hanno invitato una persona, che è un teorico di democrazia associativa. In quel contesto fece un pezzo che si ritrova ancora negli Atti. E propose  un modello di democrazia associativa che è una sorta di terza via, ma in modo diverso. La terza via era l’idea che l’individuo potesse integrarsi nella società con modalità che oggi vediamo in affanno. La democrazia associativa tende invece a rafforzare i corpi intermedi, tutti i corpi intermedi, non solo il Terzo Settore. Rafforzare i corpi intermedi per risolvere due problemi: la crisi di governabilità del pubblico, il big business (una società sperequata in cui le disuguaglianze aumentano). 

L’assioma per cui se si alza la marea tutte le barche salgono non è vero. La democrazia propone un maggiore coinvolgimento dei cittadini nelle questioni di interesse generale. Le associazioni ed i corpi intermedi conoscono in modo più dettagliato le dinamiche del territorio. In virtù del radicamento. Questo richiede però, e qui vengo al congresso, di curare molto la democrazia interna, per non farla somigliare alle chermess dei partiti politici. Richiede che ci sia una reale capacità di scambio e di argomentazione. Richiede reali momenti di dibattito su problemi di interesse collettivo. Problemi che possono essere risolti solo con la cooperazione e la condivisione tra persone. Persone che si associano, si mettono assieme, proprio per provare ad avere maggiore forza nel risolvere i problemi. Da questo punto di vista i congressi con base associativa non dovrebbero avere al centro la visibilità regalata ai leader che vengono in visita. Ma dovrebbero essere reali spazi di confronto. Ormai sono 20anni che frequento le Acli, mi è capitato di girare abbastanza. Questa spinta argomentativi io nelle Acli l’ho vista, più volte. E non raramente. 

Qui condivido uno schema elaborato con Paola e Simona. Uno schema che è nato all’interno della scuola per animatori e che prova a presentare il lavoro circolare che dovrebbe esserci nelle comunità per alimentare una politica associativa virtuosa.  Partiamo dall’esplorazione e cerchiamo di leggere il territorio con capacità di profondità etnografica. Qui è importante saper cogliere tutto, anche le risorse. Saper sempre pensare che ci sono potenzialità. Nell’era dei big data abbiamo sciami di dati, ma non abbiamo la capacità di riconnetterli e di dare chiavi di lettura. C’è bisognosi recuperare la storia dei luoghi, cogliere i nessi e offrire stimoli per prefigurare possibili futuri. Il mestiere delle Acli in questo senso non è fare ricerca in senso tecnico. Ma è coinvolgere altri e costruire reti e parternariati con soggetti, scuole, parti sociali… nella promozione comune di esplorazioni. Nella lettura comune di ciò che emerge dalle esplorazioni. Nella partecipazione alla negoziazione politica, senza tirarsi indietro.

Un ultimo aspetto è la capacità di agency, di agentività. Se volete usate generatività, ma si tratta della capacità di innescare cambiamenti anche in presenza di vincoli strutturali. I vincoli esistono, non li possiamo negare, così come esistono le precarietà e le incertezze. Ma anche in quadro precario e pieno di vincoli, non possiamo abdicare alla voglia di innescare processi comunitari.

La capacità di continuare a sperimentare e a dare senso alla democrazia associativa e la capacità di animare la comunità sono punti di forza delle ACLI, anche in un periodo in cui c’è la crisi e la disintermediazione. 

In un articolo, qualche tempo fa, Prodi diceva che la crisi dei corpi intermedi non è solo frutto della disintermediazione. In realtà i corpi intermedi sono andati in crisi quando sono diventati autoreferenziali. Quando hanno perso la capacità di rappresentare interessi e bisogni. E' per questo che le persone faticano a vederne l'utilità. Quando i corpi intermedi diventano autoreferenziali e, nella crisi, guardano a sé e a chi ci lavora, diventano essi stessi causa della crisi. 

Dopo di che ci sarebbe da fare una distinzione tra partiti, sindacati, associazioni... Perchè ad incidere maggiormente, ad esempio per i sindacati, c'è anche il cambio del mercato del lavoro. C'è una indagine Iref, condotta da Gianfranco Zucca, che misura la distanza tra millennials e sindacati. Rispetto al Terzo Settore la questione è più articolata. Ci possono essere associazioni grandi che si sono strutturate e professionalizzate ma che così facendo hanno perso un po' di carica di innovatività, di capacità di anticipare i bisogni, di essere vicini ai mondi vitali. Alcune grosse associazioni si sono aziendalizzate. 

Però nel Terzo Settore l'innovazione sociale sembra continuare a crescere, costantemente. Strutturarsi è stata anche una necessità, per il Terzo Settore, per giocare su più tavoli. Da quando il pubblico ha smesso di essere l'interlocutore, il Terzo Settore ha finito per schiacciarsi un po' sul mercato.  In Italia manca una forte cultura della programmazione sociale e questo ha depotenziato i soggetti nei tavoli di concertazione. Forse con una maggiore programmazione sociale molti problemi di rabbia si sarebbero attuati. Il rischio è l'isomorfismo strutturale: la tendenza dell'attore pubblico a creare enti a propria immagine e somiglianza, strutturando troppo e non lasciando spazi di libertà. Il Terzo Settore si sta barcamenando, non senza difficoltà, tra questo è il mercato d'assalto. Riaprire spazi di dibattito e curare la democrazia associativa serve anche a questo, a marcare, in positivo, una differenza, senza farsi schiacciare nell'angolo dagli interlocutori.

Appunti dall'intervento di Cristiano Caltabiano alla formazione per Responsabili Sviluppo Associativo Acli. Appunti presi in diretta e non rivisti dall'autore. 

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