Casa, terra, lavoro, perifericità: le categorie per leggere i territori in cui viviamo...


Ascoltando il lavoro dei gruppi e pensando anche alle caratteristiche dei tempi presenti, mi pare che, parlando di territori, l’esperienza che stiamo vivendo sia spesso quella di ritrovarsi, più o meno improvvisamente, come dire… senza la terra sotto i piedi. 

Vivere la precarietà 
Come se noi fossimo abituati a muoverci, per andare nei vari posti, normalmente, camminando. Su un piano solido. Passo dopo passo. E ci ritrovassimo oggi ad arrampicare su una parete verticale. Senza corde di sicurezza. Senza essere allenati a farlo. E non propriamente in forma fisica. Il semplice movimento dell’andare è faticoso. E non è più automatico. Quando è automatico mentre vai ascolti la musica, pensi ad altro, parli con le persone, mandi i messaggi, guardi la strada... Quando non è più automatico il semplice movimento dell’andare diventa un’impresa. Dobbiamo trovare la forza di cercare un appiglio, di vederlo, di afferrarlo, di restare in equilibrio. Dobbiamo fare un passo alla volta, senza riuscire a vedere l’intero tragitto, ma confidando che questo esista e che la fatica non sia vana. Dobbiamo ridefinire continuamente la rotta, perché per andare dietro agli appigli, non possiamo seguire linee rette. Dobbiamo gestire la paura e l’ansia di… e se cado? 
Fare tutto questo è faticoso. E difficile. E quindi non possiamo stupirci poi del perché la gente è stressata e nervosa. 

Vivere la corresponsabilità.
La complessità della realtà, oggi, fa si che non esistano quasi più forme di governo lineari e verticali. Ogni azione, anche la più semplice, per compiersi ha bisogno di un convenire di più forme di responsabilità e partecipazione. Ciò che facciamo noi ha bisogno, anche più di quanto non fosse in precedenza, di quanto fanno (o non fanno gli altri). Se incrociamo questo dato  con il senso del rischio e di precarietà di cui sopra. E se aggiungiamo che non siamo per nulla allenati ad un governo policentrico e ad una cooperazione tra più soggetti… Capiamo perché finiamo tutti per giocare a sfilarci. A fare un passo di lato. Per il timore di restare noi, da soli, a fallire, ci sfiliamo prima che si sfilino gli altri. E invochiamo il sovranismo, la semplificazione della realtà, l’idea di un mondo per cui io posso, finalmente, fare da solo, senza bisogno di nessuno! Ognuno può costruire il sogno che vuole, per carità, ma questa resta una semplificazione. La realtà, in realtà, resta complessa. E continua ad avere bisogno di un convenire di più autorità. E di modelli di collaborazione un po’ più raffinati.  Non avendoli, per oggi finiamo per farci bastare il salvare la nostra immagine dal senso di colpa. Esercitandoci nello spiegare (in primo luogo a noi stessi) che la nostra incapacità (che noi stessi percepiamo) dipende necessariamente ed esclusivamente dalla mancata responsabilità dell’altro.  E così via reciprocamente.

Vivendo nell’ingiustizia della disuguaglianza
Tutto questo mentre, come ci dicono tutti i dati, aumenta la forbice della disuguaglianza. E chi è escluso dalle opportunità si arrabbia e si arrabatta. E anche chi si trova a temere di essere escluso si arrabbia e si arrabatta. E, come di fronte ad ogni persona in stato di ansia, dire: non è niente, stai tranquillo, non produce nessun effetto. Anzi, in qualche modo, lo “stai tranquillo” senza un reale stare al fianco, fa sfogare l’ansia e l’aggressività nei confronti di chi te lo dice. Perché la crisi è reale. Lo star male delle persone è reale. Le difficoltà sono reali. E se noi abbiamo ancora dei dubbi in questo, vuol dire che che forse il problema è che non siamo abbastanza vicini alla realtà. Siamo ancora, per età, per ceto, per classe, per istruzione… ancora un po’ troppo in qualche nicchia protetta.  

E allora che fare? E, che c’entra tutto questo con l’animazione? 
Io credo che noi siamo un po’ in questa situazione qui. Come persone, ma anche come Acli e come circoli. Sentiamo di aver ricevuto una grandissima eredità. Storica. Sentiamo che il paese è in situazione critica. E ci sentiamo la responsabilità, enorme, di non riuscire a incidere come vorremmo sul presente. E sentiamo il timore di non riuscire a portare avanti avanti l’esperienza. E abbiamo paura. Paura di non vedere dove sarà (e se ci sarà) il prossimo appiglio. Paura di non trovare nessuno che raccolga il testimone. Paura di fare brutta figura. Paura di deludere noi stessi e gli altri.  Paura di assistere all'arrivo di un disastro e di condividere qualche forma di responsabilità per non averlo saputo prevenire o contrastare. 

Eppure oggi quello che ci viene chiesto è questo. E questa è la sensazione in cui vive la gente che ci sta attorno. Ed in qualche modo il provare questo disagio ed esserne consapevoli è già qualcosa che ci può aiutare a comprendere gli altri e stabilire un legame con loro. 

Per cui cosa fare? L’idea è quella di provare a ripartire un po’ dalle basi. 
  • In primo luogo avere (o cercare, creare) delle esperienze di gruppalità. Dei piccoli “noi”con cui fare le cose. Che, da soli, non si va da nessuna parte. 
  • Con questi gruppi, con i compagni di strada che ci si sceglie o trova, fare in primo luogo un’operazione di decostruzione. Decostruire ciò che diamo per scontato. Provare a smontare le azioni in pensieri, atti singoli primari. Non per distruggere. Non per buttare. Ma, per vedere come è possibile riassemblare in modo diverso.  Riuscire ad attivare un’immaginazione diversa, che apre ad una progettualità diversa. 
  • Decentrarsi. Uscire da noi stessi. Non metterci centro del nostro pensiero. Guardare fuori. Siamo talmente immersi nei nostri pensieri e problemi che spesso finiamo per aggrovigliarci dentro. Allora, anche se sappiamo di avere l’esigenza di una rigenerazione associativa, proviamo a non mettere questo al centro del nostro ragionare. Proviamo a partire da problemi di tutti, come cittadini, come persone. 
  • Allora, per decentrarsi, scegliamo di partire dal territorio. Dalla comunità (cioè da quel processo, non già definito, che aiuta le persone di uno stesso territorio a costruirsi in una identità comune). Da quello spazio in cui viviamo assieme ad altri, che non ci siamo scelti.
  • E ci guardiamo attorno. Cosa si muove attorno a noi? Di cosa c’è bisogno, ma, soprattutto, come diceva Franco, cosa già si sta muovendo…
Da questo punto di vista devo dire che sono restata colpita dal livello di competenza e attenzione che ho sentito nei gruppi quando hanno riflettuto sui propri territori. C’è qualcosa, nello sguardo, qualcosa che sta dietro a quel sapere che esprimete, qualcosa che è fatto di attitudine e di postura. Oltre che di attenzione e competenza. E non è scontato. Ed è qualcosa di prezioso. Che dovete custodire e tramandare. 

Gruppalità, decostruzione, decentramento, territorio. Se questo è il processo ideale, cosa stiamo cercando di fare, in pratica, a livello nazionale: 
  • in primo luogo abbiamo creato un percorso di formazione, che è quello che raccontava Giulia. Formazione non nel senso di passaggio di conoscenze, con qualcuno che parla ed altri che imparano. Ma formazione nel senso di luogo del noi, in cui in parte si fanno esperienze assieme, in parte si riflette sulle esperienze fatte altrove, in parte si incontrano docenti esterni che portano un sapere con cui confrontarsi. L’anno scorso è stato il primo anno. E la classe ha avuto persone di diversa provenienza, diversa età, diversa competenza, diversa responsabilità politica in Acli. E, non come dichiarazione di principio, ma come esperienza concreta, si è visto che questa diversità è stata una ricchezza per tutti. 


  • Quest’anno, oltre all’avvio di un secondo percorso di formazione, cui parteciperanno persone nuove, abbiamo pensato che fosse utile avere una cosa che abbiamo chiamato project work. Cioè un oggetto di lavoro concreto, su cui sperimentarsi tutti. Ognuno sul proprio territorio. Ed il project work è una esplorazione delle periferie. Convinti che l’esplorazione sia (assieme al lavorare su se stessi, come persone) il primo passo di un processo animativo. Esplorazione come rieducazione dello sguardo (e degli altri sensi) e come ricostruzione (collettiva) delle mappe e delle relazioni. Non si può che partire da questo, per arrivare ad una progettazione partecipata di azioni. Ci vuole del tempo, ma non è tempo perso. E’ tempo investito. 
  • Questa esplorazione delle periferie è una sorta di call to action, si direbbe. Cioè una sorta di chiamata all’azione e alla partecipazione. A tutti noi. Alle province che partecipano al percorso formativo, in primo luogo. Ma anche a chi altro vuole. Partecipare a leggere, secondo alcune categorie comuni che proviamo a condividere, le nostre comunità. Non il territorio in generale. Ma una porzione di territorio specifico in cui ci collochiamo. Milano nel percorso ha Giulia, nel primo anno. Potrebbe avere altri, nel secondo anno. E può decidere come partecipare a questa esplorazione. Può sceglierlo il provinciale, definendo un territorio. Possono sceglierlo dei circoli, provando a stare dentro un processo nazionale. 
Quali categorie, per leggere il territorio?

Casa, terra, lavoro. L’abitare, l’ambiente, il lavorare sono elementi fondamentali che caratterizzano i nostri territori. E il nostro stesso vivere. 

La periferia. In che senso parliamo di periferia? In termini di maggiore o minore perifericità. Siamo partiti in questo da una considerazione: ogni persona, a seconda di dove gli capita di vivere, ha diversa possibilità di avere accesso a servizi ed opportunità. Questo modifica le sue possibilità di esprimersi e realizzarsi pienamente in quanto persona e in quanto cittadino.  

Questa dimensione è la dimensione di perifericità di un territorio. Che non è dato dalla lontananza o meno da un ipotetico centro (sia perché questa dimensione lineare non è più una categoria sufficiente per leggere la realtà, sia perché oggi viviamo immersi in realtà che dobbiamo leggere sempre più come policentriche). Ma la nostra convinzione è che, se la dimensione di periferia è multipiano e multi livello (la crisi europea e degli Stati Uniti non è forse anche la crisi di una realtà che scopre di non essere più l’unico centro del mondo?), questo non vuol dire che la dimensione di perifericità, connessa a quella di disuguaglianza e di ingiustizia, non sia più attuale. Anzi, a noi sembra centrale. 

E di tutto questo cosa ne facciamo? Costruiamo un Atlante

Allora vorremmo, in modo partecipato e plurale, in modo scientifico ma anche artistico e creativo, competente ed anche appassionato, ri-esplorare e rileggere le nostre comunità. Con l’obiettivo di reimmergerci e anche di costruire una sorta di Atlante comune. Un insieme di mappe, da restituire ai nostri stessi territori e da leggere trasversalmente per cercare di costruire nuove forme di connessioni, come la rete tra città e le dimensioni trasnazionali di cui parlavano Paolo e Paolo stamattina. 

Che poi, Atlante, è anche colui che più o meno volontariamente, prova a farsi carico. Colui che porta il mondo sulle spalle. E che, da essere in movimento, fu trasformato in montagna, in qualcosa di fermo e immobile, per un peccato di non accoglienza. L’idea è quindi un po ‘di costruire un Atlante, un po’ di esserlo. In ogni caso, sempre per stare alla metafora del mito, non limitarsi a considerare tutto come sempre l’abbiamo visto ma provare a leggere in modo diverso. La terra tonda, non solo la carta piatta. L’astrologia, non solo la superficie terrestre. 

L’idea di fondo è che da questa rilettura possano emergere molte cose, che oggi non siamo in grado di prevedere con esattezza ma che siamo convinti che potranno essere molto fruttuose, anche in termini di rigenerazione associativa e di ricostruzione di nuovi mestieri ed opportunità e nuove forme organizzative per i circoli e per il nostro agire quotidiano. 

Concludendo....

Siamo tutti, credo, anche appesantiti dalla domanda di quale sarà il futuro possibile per l’esperienza associativa che ci è stata donata in eredità. In fondo tutte le esperienze hanno un inizio e possono avere un termine. Ma nella situazione attuale credo che sarebbe moralmente inaccettabile non giocare fino in fondo quello che potremmo considerare come i nostri talenti.  Perché ce ne sarà chiesto conto. 

E perché le nostre comunità e noi stessi, in quanto persone, abbiamo bisogno di provare a ridare un significato alla cittadinanza. Non come certificato da dare o non dare. Non come competizione tra nazionalità e identità. Ma come pienezza di una esperienza umana, in grado di orientarsi nel tempo e nello spazio e quindi di convivere e costruire relazioni e scambi con i propri vicini, di modificare e manutenere il proprio spazio di vita privata e collettiva e di raccogliere ciò che è stato realizzato da chi è venuto prima di noi e proiettarlo in una progettualità di ciò che vorremo lasciare a chi verrà dopo di noi. Una cittadinanza che è capacità, anche nella complessità e nella precarietà, di non essere sopraffatti dal disorientamento. 

Quindi, ci sono i percorsi formativi (oltre a quello di cui abbiamo parlato c’è anche un percorso in collaborazione con Next con 6 circoli, 2 al nord, 2 al centro, 2 al sud). Oltre a questo gli altri strumenti, a livello nazionale, sono quelli di mettersi in rete con le esperienze territoriali acliste che già stanno lavorando sull’animazione di comunitàe provare a raccogliere e far circolare il più possibile i saperi e le esperienze. E in questo ringrazio Milano perché ha avviato la sperimentazione con 3 animatori locali e perché ha voluto farlo mettendo generosamente il suo sapere a disposizione di altri. 

Ultimo filone,  mettersi in rete con altri soggetti esterni a noi che stanno facendo lo stesso. Perché più mi guardo intorno e più vedo che questo ripartire dai territori, con attenzione alla perifericità, con stile animativo, è qualcosa su cui molti stanno lavorando. E potrebbe davvero esserci un terreno comune per un’azione non solo nostra e che possa servire al Paese. Che oggi non so qual è. Ma che sento e credo ci sia. E che, con le premesse di cui sopra, è anche giusto non sapere e scoprire passo passo. 

Traccia del mio intervento al Consiglio Provinciale residenziale di Milano a Diano Marina. 
(non esattamente ciò che ho detto, che in parte è andato altrove, ma ciò che avevo intenzione di dire). 

Foto di Federico Borghi 

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