Il futuro passa dalle città?



Il mandato che ho ricevuto dalla Presidenza delle Acli Milanesi è dare una risposta diretta, senza svicolare, a 5 domande:
  • Le aree metropolitane sono fonte di benessere? 
  • Ci sono aree metropolitane che sono riuscite a ridurre le diseguaglianze? Come? 
  • le diseguaglianze urbane sembrano legate a trasporti, alloggi... la politica degli immigrati influisce sulle diseguaglianze?
  • Gruppi religiosi, chiese, ong, sindacati... nelle regioni europee sono mai state in grado di guidare un cambiamento strutturale? 
  • Le diseguaglianze urbane possono essere ridotte senza l'intervento dello Stato? 
Le aree metropolitane sono fonte di benessere? 
Di cosa parliamo quando parliamo di aree metropolitane, in Europa? Le aree metropolitane sono più ricche di ogni altre forma urbana e sono molto più ricche delle campagne. Ma sono anche le zone dove le conseguenze delle crisi economica sono state più dure. Se guardiamo ad un indice che è l'indice degli standard di vita multidimensionale (reddito, lavoro, salute...) vediamo che gli standard di vita nelle regioni metropolitane sono più elevati almeno del 30% rispetto alle altre aree. 
Il livello medio del reddito nelle aree metropolitane è il 40% più alto di quanto non sia nelle altre regioni non metropolitane. Tuttavia i salari aumentano con l'aumentare della dimensione della città. I salari più elevati riflettono maggiore produttività della città metropolitana e sono trainati da fattori che attirano lavoratori di maggior talento, più formati e  attirano imprese più produttive e le mettono vicine. Per le imprese l'agglomerazione diventa un fattore di successo straordinario. Le imprese di successo vogliono stare vicine. Il fatto di attirare più imprese produttive, più lavoratori con alte competenze e di dare salari più alti non vuol automaticamente dire capacità di redistribuire questa ricchezza alla totalità della popolazione. Infatti quando la crisi c'è stata le cose non sono andate bene. Se si considerano i cambiamenti degli standard di vita si vede quanto la reazione alla crisi è stata diversa nelle diverse aree. Ed è andata male in particolare alle metropoli. Le metropoli hanno  pagato la crisi più delle altre aree. E siccome non l'hanno pagata di più i lavoratori più ricchi, vuol dire che l'hanno pagata di più tutti gli altri. La crisi è stata la più grande crisi di sistemi produttivi europei. Ed è stata pagata da tutti. Ma è stata pagata di più dai posti più ricchi. E ha prodotto più diseguaglianza e l'ha prodotta in modo più rapida. Milano tutto sommato se l'è cavata bene perchè sta tornando a ridistribuire, perchè ha tenuto sulla salute. Ha tentennato sul lavoro, adesso è ripartita. Le città metropolitane sono più ricche, ma sono più esposte alle crisi economiche. In questo contesto va ragionata la lotta alle diseguaglianze. Non possiamo pensare di essere nel  2007 con il vento in poppa. Dobbiamo redistribuire sapendo la fase in cui siamo. 

Come sono riuscite, alcune regioni, a ridurre le diseguaglianze?
Le diseguaglianze aumentano quando qualcuno perde risorse verso l'esterno, riceve minori risorse dall'esterno o dall'interno e quando si redistribuisce verso i più ricchi. Questo vale per gli individui e per i quartieri. Se il territorio e la capacità produttiva si impoverisce, aumentano le diseguaglianza. Se calano i contributi dall'esterno aumentano le diseguaglianze. Se si redistribuisce verso i ricchi aumentano le diseguaglianze. Quindi per combattere le diseguaglianze serve: non perdere risorse, attirarne di nuove, ridistribuire verso i poveri. Sono 3 cose differenti per cui le politiche devono essere su 3 binari differenti con 3 famiglie di obiettivi. 

Il punto fondamentale è la diseguaglianza territoriale e tra individui. La questione delle periferie ovviamente c'entra, ma senza dimenticare che le periferie non sono tutte povere. Nelle metropoli policentriche possiamo avere quartieri cittadini periferici molto ricchi in cui la classe superiore si1 relega. La questione delle periferie non è solo questione di svantaggio. E' questione di presenza spaziale. Alcune sono svantaggiate, altre sono processi di autorelegazione di ceti superiori. I ceti superiori che vivono in periferia attivano molte risorse, perchè sono capaci di lobby e attirano molti servizi pubblici. In questi quartieri la capacità di lobby è anche più forte e capace che in altri, perchè c'è più capacità mutualistica. Il problema delle periferie povere è un problema di diseguaglianza e di redistribuzione delle risorse esistenti ma è soprattutto un problema di mischiare le popolazioni. 

(vedi grafici Barcellona). 
Si vedono tutti i quintili di vulnerabilità: su servizi alla persona, accesso a cibo fresco, sanità... quale che sia il tema i posti più sfigati hanno circa la metà dei servizi rispetto ai posti più influenti. 

Qui si vede l'impegno del terzo settore, sempre a Barcellona. E sempre in quintili vediamo come entra il terzo settore dentro il mutualismo. La differenza tra una zona ed un'altra è di circa 4 volte e mezzo. Noi dobbiamo assumere che questo non è solo un problema di Milano e Barcellona. Le zone più deboli hanno meno servizi pubblici, meno servizi a finanziamento pubblico, ma anche meno società civile attiva e capace di investire in mutualismo e coinvolgimento.  

Per questo il problema della riduzione delle diseguaglianze non può essere affrontato solo in termini di redistribuzione di risorse ma nelle politiche progressiste europee è affrontato anche come redistribuzione e come dinamica e mobilità della popolazione. Nessuno ci crede che solo redistribuendo si riesca ad attivare dinamiche serie di riduzione della diseguaglianza. Senza mischiare la popolazione e senza attivazione della società civile non si riesce.  Questo non vuole dire che il terzo settore salverà tutti e che se gentrifichiamo tutto sarà bello. Ma non passa tutto solo dalla redistribuzione.  La redistribuzione è necessaria ed è essenziale e richiede un assetto amministrativo. Ma la società civile non può prescindere dal fatto che il protagonismo solidale e mutualismo non è di classe popolare. E' tutto di ceto medio. Ma è un portato del ceto medio quando il ceto medio sta con i suoi simili. 

Le questioni relative alla riduzione della diseguaglianza che passano dalla redistribuzione della popolazione (il tema del mix sociale) sono cosa poco discussa ma necessaria. Solitamente sono discusse in modo spaventato e difendendosi (es: ci sono già poche risorse per i poveri, evitiamo di mettere di mezzo il ceto medio se no ci guadagna e ci espelle con la gentrificazione...). Ma il mix di popolazione non è così. Non vuol dire portare i ricchi nei luoghi dei poveri. Vuol dire porzioni di popolazione povera nei quartieri in cui si è autorelegato il ceto medio superiore o le classi superiori. Le questioni del social mix sono importanti perchè evitano che i poveri stiano solo tra poveri. Abbassando le aspirazioni e le istruzioni dei loro figli e mantenendo un abbassamento di prospettiva. 

Il ceto medio è capace di mobilitarsi per gli svantaggiati solo se li conosce e se entra in contatto con loro. Altrimenti si dedica ad altro. Un buon social mix ha effetti strutturali anche su gang, mafie... 
La presenza di mafie è un dato di fatto. Le città metropolitane attirano popolazione. A volte la popolazione che viene attirata  non ha le competenze per entrare nel mercato del lavoro, ha pochi soldi e a volte questi posti molto poveri sono poco controllati dallo stato. Quando lo stato non governa, qualcun altro governa. Non ci sono vuoti di potere. Più i quartieri sono poveri e abbandonati da presenza pubblica, sia essa società civile o altro, più emergono gang. Alcune volte prendono forme più mafiose, altre volte sono forme più locali. Ma non se ne esce. Non sappiamo di territori con grande concentrazione di povertà e omogeneità che siano stati capaci di ribellarsi alla  presenza di criminalità organizzata. Forse nel passato, nel momento in cui la classe operaia e i partiti erano capaci di organizzar... Oggi le città riescono solo quando il ceto medio è molto supportato da una alleanza costitutiva tra città e terzo settore.  Redistribuzione della popolazione è anche governo della dinamica delle popolazione e decisione di quanto si pianifica, quanto si concede alla segregazione o scelta (poveri tra loro e ricchi tra loro). Se non si ripensano questi meccanismi è difficile aggredire le diseguaglianze. 

Le città europee sono quelle che più di altri hanno ridotto le diseguaglianze. Se usciamo dal nostro orto europee, il modello della metropoli europea è quello meno diseguale al mondo. Non vuol dire sedersi e dire “fatto”. E' ovvio che tantissime pratiche di redistribuzione sono da ripensare. Ma tra le città ad alta crescita, le città metropolitane europee sono le meno diseguali. 

Milano è la metropoli italiana. Ha una base sociologica che va al di là della città metropolitana. Ha successo, attira popolazione, si comprimono i salari dei meno qualificati, non rispetto alla campagna ma rispetto ai salari più alti. A Milano si è visto impennarsi il costo del cibo fresco. Le nostre città metropolitane sono sempre lì tra il modello europeo e l'America. Non sottovalutate il tema dell'accesso al cibo fresco.  La diseguaglianza passa tra persone che hanno accesso diretto e continuato al cibo fresco e milioni di persone che non hanno mai visto cibo fresco nella loro vita. Le città metropolitane hanno visto impennarsi i valori immobiliari, il costo del cibo fresco e hanno espanso il proprio territorio con adeguato sistema di rapporti pubblici. Questo ha avuto effetti di confinamento e inquinamento. Ed i costi sono ricaduti sui più periferici e più poveri.

Bisogna produrre risorse. La crescita non è in contrasto con la redistribuzione. Ma la crescita senza redistribuzione è un disastro. Bisogna produrre e ridistribuire le risorse verso il basso. Ridistribuire la popolazione. Non solo mettere ricchi nei posti poveri ma anche mettere i poveri nei posti dei ricchi. Se le città sono in una dinamica espansiva è più facile legittimare la redistribuzione. Se si stagna c'è redistribuzione verso l'alto. Appena stagna, i ricchi prendono tutto. Ovviamente però la necessità di produrre risorse, cioè di fare concessioni per attirare imprese, intelligenze, con obiettivi redistributivi, permane. 

Quali leve per produrre risorse: 
  1. regolazione dei mercati dei prodotti (non dipende mai dalle città)
  2. regolazione del sistema finanziario (non dipende dalle città)
  3. regolazione dei salari (dipende in parte dalle città)
  4. regolazione della produzione di competenze (dipende molto dalla capacità di coordinamento delle città)
  5. regolazione del welfare (dipende molto dalle città, anche se con trasferimenti)
  6. regolazione urbanistica
  7. regolazione delle utilities 
Produrre risorse e attirare risorse dipende dalla capacità di attrezzare aree con buoni servizi energetici, buone fognature, buoni servizi di base... Alcuni di questi aspetti non dipendono dalle città e dalla loro struttura di coordinamento. Altre dipendono da governance di secondo livello. Altre sono responsabilità delle città. Il sistema è complesso. Una cosa su cui Milano è poco brava è la capacità di attirare risorse esterne. Ci prova sempre ad arrivare tra le città europee principali, non è mai troppo sotto, ma non riesce nemmeno a risalire, è sempre in mezzo. Non è brava ad attirare investimenti esterni diretti. 

Su alcuni dei prossimi punti non saremo d'accordo. Su cosa siamo d'accordo? Siamo d'accordo sulle Acli: la centralità del lavoro e della regolazione del lavoro e la centralità della formazione. Ma forse io sono più convinto di voi dell'attualità delle Acli. La formazione. La creazione di competenze tecniche e tecniche superiori. Per me questo passa per le scienze dure e non per la formazione umanistica. Per me non passa dall'Università. Passa dalla capacità delle città di qualificare la loro offerta di formazione professionale, non solo per i giovani.  Milano ha un modello capitalista differente da quello del nord ovest, diverso dalla svizzera, diverso da Bologna e aree lì attorno. Milano è il centro di una regione produttiva che supera i livelli amministrativi e si estende verso est. Ed è basata su manifattura di alta qualità. La crescita di Milano dopo la crisi è stata spettacolare e forte, ha dato risultati importanti. Milano è la vedetta dell'Italia. Ma sono 40 anni che non riesce ad accedere all'empireo delle città europee. A Milano manca ancora qualcosa per fare il salto. 
A Milano si fa troppo poco ciò che si fa a Parigi e si fa troppo quello che si fa a Londra. Milano esporta, produce servizi dinamici per il mercato, ma non esporta servizi dinamici all'estero. Questo è un gravissimo deficit nella capacità di produrre lavoro. Milano resta manifatturiera di eccellenza, ma non riesce ad esportare a sufficienza. Non ha abbastanza qualità e quantità di competenze elevate per fare si che i propri servizi più dinamici competano con altri a livello internazionale. Milano non fa sui servizi quello che fa sulla manifattura. Parigi dal primo giorno dopo il referendum Brexit  ha messo 100 persone a lavorare per attirare la marea di imprese che uscivano da Londra. Dicendo a tutti: qui ci sono condizioni, competenze, utilities, per continuare a fare bene ciò che facevate lì. Milano non ha nemmeno pensato di cogliere l'occasione seriamente. I risultati in termini di occupazione (di livello alto e basso) dalla  Brexit a Parigi sono straordinari.

I milanesi della Milano Grande sono sempre più attratti dal modello inglese. Crescente finanziarizzazione data da accesso al credito al consumo. Non vale l'approccio morale contro il consumismo, come ci dicevano i preti negli anni 80 (I preti facevano bene negli anni 80). Ma oggi non ci siamo. I ceti popolari e i ceti medi inferiori non hanno un problema di consumismo, è che Milano è sempre più attratta dal credito al consumo. E' un sistema perverso. Il ricorso al credito al consumo è portato dal fatto che ci sono salari troppo bassi e che l'offerta mutualistica è pressocchè inesistente.  Inesistente non vuol dire che non fate niente. Ma vuol dire che l'offerta presente rispetto alla città non riesce a toccare l'insieme. Se compariamo Milano sui servizi mutualistici con altre città l'offerta mutualistica è molto bassa. E non abbiamo servizi di educazione finanziaria. Tranne un poco ora, nel comune di Milano, ma in generale non ci sono accompagnamenti continuativi per aiutare le famiglie a ripensare le loro strategie di consumo fuori dal modello di credito al consumo che finanziarizza e crea dipendenza. Il sistema è perverso per salari bassi, assenza di offerta mutualistica, mancanza di accompagnamento finanziario, costo delle case fuori controllo. Certo, Milano è meglio di Londra. Ma a Milano ci sono poche occasioni collettive di socialità. E bisogna spendere tanto per avere cose di senso. Bisogna spendere tanto per cinema, teatro, spazi di senso per stare assieme. Queste sono cose su cui, se si vuole la differenza, bisogna spendere poco. Altrimenti la disuguaglianza sale.  

Le ricerche dicono che non c'è nulla come la combinazione tra educazione pubblica di qualità (nido) e istruzione professionale di qualità a tutte le età, per sostenere le capacità degli individui. Voi avete una miniera e la giustificate meno bene di quanto potreste. La combinazione di educazione pubblica e formazione professionale è importante. E' ovvio che queste cose oggi hanno una discreta qualità a Milano ma non sono sufficienti. Richiedono più investimenti ma anche più giustificazione. 

Smettere di pensare che il problema delle nuove generazioni possa essere affrontato con un rigurgito di “segui il tuo cuore”. La formazione va qualificata di più e meglio. Impresa e investimento vanno dove ci sono servizi di qualità. Le imprese vanno dove ci sono case per lavoratori, bassi costi di connessione e competenze. Se milano non riesce a fare investimento di alto livello su competenze non si cereranno nuove imprese e se ne andranno quelle che esistono. Smettiamo che sia il caso di pensare che sia solo costo del lavoro. Voi pensate che a Parigi il costo del lavoro sia più basso che a Milano? La questione del costo del lavoro è uno dei fondamentali. Serve energia. Energia pulita a basso costo. Servono utilities, servono competenze. 

La redistribuzione. E' semplice redistribuire verso l'altro. La redistribuzione è andata a favorire i più ricchi. A volte lo si è fatto anche con l'obiettivo ingenuo che redistribuendo ai più ricchi  cascheranno delle cose anche sui più poveri. Ma non ha funzionato. Come si fa a redistribuire verso il basso? Bisogna redistribuire verso i territori più svantaggiati. Per fare questo non ci sono altre soluzioni se non la fiscalità locale. Ridurre la fiscalità generale, aumentare la fiscalità locale. Si può fare in altri modi? Realisticamente qualcuno ha fatto altro, magari attraverso la distribuzione di servizi, riuscendo a redistribuire verso il basso? Non è successo da nessuna parte.  

Governare bene i territori deboli per farli crescere ed attirare investimenti. Convincere le regioni a fare una politica favorevole verso i territori deboli e non verso i territori forti. Non è facile. E' il contrario di tutto quello che il centro sinistra ha fatto negli ultimi anni. Ed è molto difficile perchè nessuno ci crede. Né a destra né a sinistra. Perchè è finita l'idea che abbia senso dare ai più deboli? Nel breve periodo è questione di etica pubblica. Se non ci diciamo che ci sono ragioni di giustizia sul lungo periodo sul breve non regge. Redistribuire ai territori più forti ha un moltiplicatore molto più alto. Se io do qualcosa a qualcuno più forte, lui con il mio 10 lui produrrà 30. Se lo do ad un territorio debole , con il mio 10, se va bene, produrrà 15. E' un problema di etica pubblica che ha riguardato il centro sinistra e l'etica cattolica. Io non posso dare al debole, perchè io ho pochi fondi e se li investo dove ho un moltiplicatore basso perdo il beneficio. E questo è uno spreco. E' eticamente insopportabile questo spreco dentro l'etica pubblica di breve periodo. Ed è così che il frame è andato verso il finanziamento ai territori già ricchi. Perché è un modo di premiare i bravi. Ma seguendo questo filone 15 anni dopo non abbiamo più politiche di perequazione. Per paura di sprecare non abbiamo più politiche. Non abbiamo più strumenti. Non abbiamo più la necessità di distribuire ai poveri nella testa. Siamo meritocratici e pensiamo che sia giusto. 

C'è una debolezza politica che è comune a molte metropoli europee. Le metropoli europee fanno fatica a rappresentare i propri interessi territoriali. Sono in competizione con le regioni e perdono. Il primo che pensa che è problema contingente tra  Milano ed il leghista che governa in Lombardia non ha colto che è una tendenza europea. Non bastano forme tecnocratiche (l'assessorato manda una persona competente in regione a dire che...). Qui passa l'attualità delle Acli. E' nell'asse tra città metropolitana, regione, stato, terzo settore e forze sociali e sindacali che si scopre l'intelligenza politica. Se pensiamo che le città possano fare da sole siamo molto lontani. Forse può farlo Casablanca. Ma non è nemmeno un modello democratico.  Alla società civile non basta dire cosa fare. Non basta nemmeno dire le cose giuste. Se non cresciamo nel modello di politica e nella capacità di pressione non diamo un contributo.  

Le città metropolitane che hanno ridotto diseguaglianze hanno fatto politiche classiche. Laburiste, se volete. Molto complesse dal punto di vista della attrattività e della produzione di risorse aggiuntive. Molto istituzionali per dotarsi di risorse fiscali per fare più servizi collettivi. Ma verso gli individui la redistribuzione diretta è stata fatta in maniera classicamente laburista. Giù le tariffe per i giovani, bassi costi dell'istruzione professionale e conciliazione, conciliazione, conciliazione. Costituire coalizione eterogenee capaci di spostare in su la capacità di rappresentanza. Il terzo settore non ha voluto fare la lobby dei poveri, ha voluto fare la lobby del terzo settore. Ma oggi non c'è un partito interessato al tema della redistribuzione e capace di attivare strutture di mobilitazione. con strutture di mobilitazione. La redistribuzione è scomparsa dentro la cultura politica. In fasi precedenti i governi locali ce la facevano a rappresentare gli interessi territoriali. La cosa è saltata con la crisi. 

C'è una moda: basta fare deregolazione urbanistica e abbiamo fatto politica a costo zero. Va di moda ma non serve e fa danni. La visione dominante suggerisce che la soluzione alla crisi abitativa delle grandi città (che è uno dei grandi temi) sia allentare le norme urbanistiche. Noi possiamo dire che non c'è nessuna evidenza empirica in questo.  In nessun posto ha funzionato così. Così facendo è molto improbabile che aumenti l'accessibilità all'abitazione per famiglie a basso reddito. Semmai aumenta la gentrificazione. E i più ricchi espellono i più poveri. E' venuto il momento di capire la profondità e l'attualità delle Acli. Se vogliamo lottare contro le disuguaglianze dobbiamo vedere bene gli incroci tra accessibilità a servizi pubblici, pianificazione, politiche... se non si tengono insieme queste cose non si fanno le Acli.

Upzoning: si tratta di ridurre il potere dei governi locali in modo che non possano impedire edilizia ad alta densità, attirando promotori locali. Milano diventerebbe più grande. La mobilità aumenterebbe e le diseguaglianze diminuirebbero. In effetti densificare è importante per ragioni ambientali, diventa una enorme opportunità per il 30% della popolazione che si può permettere di andare dove le cose succedono. Ma la retorica che circola “lasciamo fare al mercato” i ricchi andranno verso il centro e si abbasserà il costo nei posti poveri, non ha mai funzionato così. Il costo nei posti dei poveri non si abbassa. E non si è pensato di densificare in termini policentrici. Densificare in più posti. Il punto non è solo concordare sull'importanza di alloggi a prezzi accessibili. Non dobbiamo essere ingenui. Se in moltissime città europee si sono consolidate coalizioni che spingono questa ricettucola ci sono ragioni forti che la sostengono. Coalizione tra millennials ad alto reddito (che sono tanti) e che questo tipo di città attira. Coalizioni con urbanisti che vogliono densità abitativa per ragioni di inquinamento. L'obiettivo è coerente, la strategia è: iniziamo a farlo lì, poi lo faremo anche altrove. Ma l'urbanistica è una scienza sistemica che dice che una cosa bella fatta solo in un posto produce effetti di flusso. Qualcuno vince e qualcuno è vittima. Millenniasl ad alto reddito, urbanisti ambientalisti con vedute ristrette e promotori immobiliari. Perchè i promotori immobiliari guadagnano di più da operazioni ad alto reddito (che sono più sicure, sono più facili, richiedono meno intelligenza). Millennials ad alto reddito, urbanisti ambientalisti con vedute ristrette, promotori immobiliari interessati al guadagno e amministratori di centro sinistra con pochi soldi (per cui c'è sempre il vecchio detto: piutost che nient, l'è mej piutost).

Le diseguaglianze urbane sono cose brutte, difficili da sradicare.Le diseguaglianze metropolitane sono bruttissime e difficilissime. Richiedono molta capacità di governo. Questa capacità non sta più solo nelle forze degli enti locali. La costruzione di coalizioni  procede molto rapidamente sul lato della proposta che avvantaggi e redistribuisca. Deve essere un fattore di riflessione serio. Per avere ceti affluenti a contatto con ceti svantaggiati. L'autosegregazione del ceto medio alto non facilita. Per essere scardinato ci vogliono coalizioni molto forti, molto interessate ad essere coraggiose.   


Queste coalizioni sono mai state capace di guidare un cambiamento? Si, in tanti posti. E' ovvio che nel fare sono stati molto capaci. Dentro processi ampi. Può essere nel movimento operaio di un tempo o in  altro. Oggi questi soggetti possono farcela dentro coalizioni più serie con le città e con i sindacati. L'obiettivo del fare che resta dentro un modo di governo solo per esperimenti, solo con un po' di progetti, è una rovina. Sono 20 anni che si fanno progetti con la politica dei mille fiori e i criteri di base sono stati poco toccati dalle sperimentazioni. Mettersi in coalizioni vuol dire fare patti con una lettura sistemica e uscire dalla  logica del breve termine e dello sperimentare. 

La specificità delle Acli parrebbe quella di non avere specificità -

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