Partecipazione. collaborazione e piattaforme. Nessuna incompatibilità di principio, ma nessun automatismo. - Ivana Pais


di Ivana Pais 

Io tratto un tema che lavora su prodromi e prerequisiti della partecipazione sociale e dell’associazionismo, perché io studio il digitale, non in termini di sondaggi online ma, negli ultimi 15 anni, ho studiato il ruolo del digitale nei rapporti tra economia e società. Gli studenti qui presenti non se lo ricorderanno, ma una decina di anni fa sono nate le piattaforme digitali che noi abbiamo inserito sotto un cappello che abbiamo denominato sharing economy. In quegli anni le aspettative su queste piattaforme collaborative erano tante. Sono nate dalla convergenza tra fatti anche storici e di contingenza economica diversi: c’era stata crisi finanziaria, le tasche dei cittadini erano vuote e c’era bisogno di risparmiare. Iniziava ad emergere una sensibilità ambientalista, che poi si è manifestata con più forza. Nel frattempo le tecnologie ci mettevano a disposizione cose che per voi sono scontate ma che per noi allora non lo erano, come ad esempio la geolocalizzazione: sapere dove si era, potendoci incontrare. Tra 10 anni, allo stesso modo, ci racconteremo come oggi stiamo iniziando ad esplorare Chatgpt e le sue possibilità. 

Ma visto che intanto dall’avvio delle piattaforme è passato del tempo è interessante vedere cosa ha generato, cosa ne abbiamo fatto e cosa non abbiamo saputo esplorare, per creare una economia che favorisca una relazione tra le persone. Il favorire la relazione era un prerequisito da cui poi poteva nascere altro. La sensibilità era forte. Il movimento sosteneva il bisogno di una economia diversa che favorisse una forma di partecipazione civica anche attraverso una partecipazione economica. Quello che è successo è che non è andata così. Ma il rischio che stiamo correndo è di non veder quello che c’è. Abbiamo sbagliato a posare lo sguardo. L’aspettativa era avere piattaforme collaborative. Con una aspettativa di determinismo tecnologico spinto. I dispositivi tecnologici avrebbero dovuto creare effetti sociali. Questo non è avvenuto. 


Poi c’è stata una ondata di riflusso in cui, non soddisfatte le aspettative, nelle piattaforme abbiamo iniziato a vedere solo le cose che non ci piacevano e le piattaforme sono diventate il male. La proposta che vorrei fare è: buttiamo a mare l’idea di piattaforme buone o cattive e proviamo a vedere le logiche e come sono incorporate, anche attraverso il modello piattaforma. 


Guardiamo la logica collaborative. Se le guardiamo così, qualcosa c’è. Non è tutto da buttare. Guardando la logica qualcosa c’è. Con il crowdfunding durante il covid abbiamo visto logicohe collaborative che hanno mostrato logiche di collaborazione che hanno prodotto comunità, oltre che risorse per emergenza, hanno generato e prodotto attori inattesi. Io ho intervistato tutti gli studenti universitari che hanno lanciato campagne di sostegno durante il covid. Sono andata a sentirli e quasi tutti erano fuori sede che hanno fatto raccolte fondi per la sede dell’università in cui studiavano, non per il loro posto di provenienza. Quasi tutti hanno mostrato una intenzione di mostrarsi al territorio in cui arrivavano come forza positiva. In una fase di crisi hanno mostrato l’esigenza di non essere vissuti come invasori di territori, che vanno e fuggono non lasciando niente. Hanno deciso di fare queste campagne per gli ospedali dei territori delle loro università per dimostrare che magari sono di passaggio, ma ugualmente vogliono e possono lasciare cose positive. Hanno raccolto dai 500.000 euro in su. E parliamo di studenti, non di Chiara Ferragni. Al di là dei soldi, hanno ravvivato e coltivato delle comunità che c’erano e hanno rinsaldato rapporti tra comunità temporanee e comunità radicate e ci hanno mostrato un modo diverso di porsi. 


Un discorso diverso è quello che riguarda la piattaformizzazione di servizi già collaborativi o collaborativi di natura. Io sto studiando le piattaforme di welfare. La premessa di tutte le ricerche in questo campo è il rischio di uberizzazione del welfare. Probabile, il rischio c’è. Ma ci sono 127 piattaforme di welfare, una che assomiglia a Uber non c’è. Ne abbiamo 127, spesso locali, ognuna delle quali interpreta a modo proprio la facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta. Sono tutte positive? No. Ci sono interpretazioni potenzialmente interessanti? Si.


1. Logica di apertura della piattaforma. Per sua logica la piattaforma è aperta. Finora ci è piaciuta solo se aperta a persone autoselezionate. Che è la magia. Non lasciare fuori, non fare selezioni. Ma di fatto vedere arrivare solo chi vogliamo. Quando c’è qualcosa che sfugge e la gente non si autoseleziona bene, succedono le cose interessanti. L’interessante è andare a studiare i casi in cui la autoselezione sfugge. Smetterla di raccontare che siamo aperti ma che dalla porta passa solo chi ha determinate caratteristiche. L’apertura autoselettiva è un gioco finto e non dobbiamo raccontarcelo.


2. Organizzazioni e digitale. Non bisogna credere nel super potere del digitale ma il digitale oggi conta. Non dobbiamo sbilanciarci né in un senso né in un altro. Nelle organizzazioni di terzo settore, se vogliamo arrivare alla digitalizzazione giusta, prima dobbiamo fare digitalizzazione, dobbiamo fare digit. E questo non c’è. Nonostante il covid. Non possiamo fare il triplo salto carpiato che si pensa, passando da zero alla digitalizzazione dei processi. Altrimenti i processi digitalizzati si sommano e affiancano gli altri processi e chiedono alle persone di gestire i due processi in contemporanea, facendo danni incredibili. 


3. Platform cooperativism. Un altro errore che abbiamo fatto negli ultimi anni è pensare che si possa ottenere spontaneamente un platform cooperativism. Prendiamo le piattaforme estrattive, tipo Uber, facciamo copia incolla del dispositivo digitale così com’è, rubiamo l’infrastruttura tecnologica, e sopra ci mettiamo l’idea di governarla in stile cooperativo. Questa idea è tanti anni che viene studiata ed è un fallimento totale. Se noi sotto abbiamo una infrastruttura pensata per meccanismi estrattivi, sopra non ci possiamo attaccare la cooperazione. Non si attacca. Fino a che non metteremo le mani sulla tecnologia, disegnando una tecnologia che incorpora logiche cooperative, non andremo da nessuna parte. Fino a che non sarà il terzo settore a costruire una tecnologia che corrisponda ad una logica, non andremo da nessuna parte. 


4. Ecosistemi. Le piattaforme stanno creando nuovi ecosistemi, nuove opportunità di mettere in relazione attori diversi. Io lo studio nel welfare, ma avviene ovunque. Ci sono esperimenti interessantissimi in cui la piattaforma diventa abilitante per attori diversi e diventa apertura ad attori distribuiti. Anche a chi non fa già parte di una associazione, ma che ha  bisogno di una piattaforma per sperimentarsi e magari fare poi il passo ulteriore con l’associazionismo.


Le critiche all’online erano fortissime, perché era visto come alternativo all’azione collettiva. Se la gente fa il click online, non va più in piazza. Fra 10-15 anni qualcuno ce lo racconterà meglio. Ma già oggi, se abbiamo capito, dobbiamo fare qualcosa. Se continuiamo a considerare le forme come alternative non vediamo la complementarietà e la possibilità di abilitazione reciproca che già esiste. 


(Appunti presi in diretta e non rivisti dall'autrice. Intervento all'Università del Molise "Partecipazione sociale". 

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