Sul filo della memoria - Franco Passuello




Ribelle per amore. Questa preghiera va ascoltata e meditata ricordando quando è stata scritta: durante la Resistenza contro il nazifascismo, dentro la Seconda Guerra Mondiale. Cioè, dentro un conflitto armato che opponeva italiani ad italiani. Ma è più giusto dire: italiani oppressi ad italiani oppressori subalterni ad un feroce e sanguinario dittatore tedesco. Ma chi è Teresio Olivelli e perché abbiamo scelto di iniziare da lui a ricostruire insieme il nostro filo della memoria? Ascoltate Eva Martucci. (Eva interviene sulla vita di Teresio) 

Ora è più chiaro: ricordiamo il beato Teresio Olivelli perché è un cattolico che ha fatto la Resistenza «per amore». Di più, lo ricordiamo perché è un fedele testimone d’amore cristiano.

Teresio è nel lager perché è un partigiano antifascista: e ci interessa ricordarlo per questo. Lui, però, subisce il feroce martirio perché nel buio disumano del lager aiuta i più deboli e sofferenti e illumina la notte della barbarie con il Vangelo e la preghiera. E anche per questo ci interessa farne memoria. 

Questi due registri del nostro fare memoria – politico e cristiano - saranno presenti lungo tutta la mia comunicazione. Il ragionamento che farò può essere rivolto a qualunque cittadina o cittadino democratici, indipendentemente dalla loro cultura o dal loro essere o meno persone di fede cattolica. 

Allo stesso tempo, però, parlo da cristiano. E non per questo sono meno “laico” nell’accezione corrente del termine. Nelle ACLI ho imparato che se cerchi di seguire il tuo Signore sei profondamente laico; hai rispetto per ogni persona e per il creato. Perché sai che tutti gli esseri umani sono creature del Padre, quindi sorelle e fratelli di uguale dignità. Tu puoi testimoniare la tua fede ma non esibirla e tantomeno imporla. Perché la fede è un dono. Di nuovo Resistenza. Facciamo memoria di Olivelli perché anche oggi c’è una Resistenza da promuovere e animare. Non  per combattere contro altri esseri umani ma per riconciliarci prima di tutto con noi stessi e tra noi. Per non farci paralizzare dal senso di paura e di impotenza di fronte alle gravi minacce che ci opprimono. Per non farci distrarre da forme di rimozione e di evasione che ci impediscono di maturare pienamente una coscienza morale e politica. 


In quanto cattolici e democratici, abbiamo la responsabilità, ed anzi l’urgenza di essere testimoni d’amore al servizio del bene comune. Perché l’avversario da battere, oggi, è meno evidente, più subdolo e seduttivo del nazifascismo di allora. 

Con l’invasione dell’Ucraina, Putin sembra assumere su di sé, oggi, il volto feroce del male assoluto. Questo non deve impedirci, però, di continuare a discernere il male che è nelle nostre società. E dentro di noi. Per sconfiggerlo, per essere seriamente operatori di pace. 

Per resistere alle tentazioni della società mediatizzata di mercato non bastano le solite passioni e appartenenze politiche, tutte largamente incapaci, fino ad oggi, di dare risposte credibili. 

Non bastano perché vediamo che democrazia e politica a scala nazionale ed europea non riescono ad incidere adeguatamente sulle tendenze distruttive in atto. E tanto meno riescono a mettere in campo il processo di radicale trasformazione che si rivela ogni giorno più necessario. 

I fratelli più piccoli

Serve qualcosa di più: serve una forte motivazione a mettersi in cammino per cambiare e serve un’inedita creatività spirituale e progettuale. Per questo dobbiamo riandare alle più profonde risorse ideali, morali e di fede di cui possiamo disporre.

Ci è chiesto di imparare a sperare, pensare, operare insieme. Questa è la nostra  responsabilità e ad essa non possiamo certo sottrarci noi cattolici democratici. Noi che possiamo attingere alla più preziosa e inesauribile delle risorse motivazionali, la radice di ogni bene e di ogni speranza: la nostra fede nel Crocifisso-Risorto per amore. 

Oggi più che mai ci è chiesto di dar conto di questa Speranza che ci abita. Come ha fatto Teresio Olivelli. Ci è chiesto di rigenerare in noi stessi la capacità di testimoniare l’amore per tutti gli esseri viventi e per il Creato. 

Questo amore non è un vago sentimento, un’emozione a autoconsumare. È carità concreta ed esigente, come Cristo stesso ci dice in Matteo 25. «Avevo fame… Avevo sete… Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me». Sì, i fratelli più piccoli sono una compagnia indispensabile e preziosa. Anche in politica. 

Abbiamo del resto il dono del magistero di papa Francesco che queste cose le ripete continuamente e in modo credibile.

Riandare a questa sorgente non basta a costruire il futuro che speriamo ma è un contributo essenziale di motivazione e di senso che noi cristiani democratici possiamo dare. Poi serve altro: servono una coscienza politica e un’azione politica che alla politica restituiscano la sua dignità. 

Fare memoria insieme 

Non vogliamo dunque soltanto ricostruire alcuni eventi della storia della nostra democrazia. Il nostro fare memoria insieme è un memoriale da vivere per amore e con amore. 

Il rimando esigente è a quello che per noi cristiani è il memoriale per eccellenza: «Fate questo in memoria di me». Proviamo a rendere presenti e vive, nel ricordo, persone ed eventi nella luce del Mistero Pasquale. Una luce che non tramonta.

Una luce che ravviva anche il nostro stare ed agire nel mondo con una passione per l’umanità e per il creato; che torna a ripeterci che il male e la morte non avranno l’ultima parola. Non l’avranno per l’umanità e per il creato, non l’avranno per ciascuna e ciascuno di noi. 

Questo Teresio lo sapeva e per questo non si è fatto intimidire e sviare dai torturatori nazisti. Non ci è dato sapere quanta paura e sofferenza umane lo abbiano messo alla prova ma lo possiamo immaginare. Lui non era un superuomo. Ma è stato proclamato Beato perché le ragioni della sua morte testimoniano il suo aver vissuto il transito alla vera vita dei figli di Dio.

Ancora 4 testimoni a farci da guida

Abbiamo iniziato dal beato Olivelli ma il nostro memoriale riguarda altre 4 figure-guida che ci sono state proposte: Tina Anselmi, Maria Agamben Federici, Aldo Moro e Giorgio La Pira. Sono tutti accomunati dall’aver fatto esperienza (in forme diverse) degli straordinari anni che hanno visto nascere la nostra Repubblica. C’è un altro martire, tra loro, un politico ucciso barbarametedal terrorismo brigatista: Aldo Moro. E c’è un altro Beato: Giorgio La Pira, chiamato già “sindaco santo” quand’era vivo. 

Mettiamoci ancora in ascolto di Eva Martucci. (Eva propone le biografie di Giorgio La Pira e poi di Tina Anselmi)



2. QUELLA STAGIONE CRUCIALE E GENERATIVA 

Fu preziosa l’unità tra diversi

Facciamo memoria di quella stagione perché segnò la difficile transizione dalla guerra alla pace, dalla dittatura fascista alla democrazia, da un popolo oppresso ad una popolo libero. Perché fu una stagione cruciale e generativa. Non per questo priva di contraddizioni e di limiti anche seri. 

Si era allora di fronte ad una irruzione tragica e distruttiva del male assoluto che aveva trascinato il mondo in una terribile guerra globale a due decenni dalla precedente e dopo una crisi economica senza precedenti. Fu possibile sconfiggere quella irruzione a costo di decine di milioni di morti (oltre 70 milioni) e di immani distruzioni. Fu possibile perché si allearono forze molto diverse tra loro. 

Fu così anche in Italia. E fu quella unità tra diversi ha rendere possibile, finita la guerra, l’approvazione quasi unanime della Costituzione. La Carta che ha tracciato per noi e per le generazioni a venire un percorso di liberazione e di convivenza civile e solidale di grande respiro. 

Di quelle straordinarie risorse di futuro possiamo e dobbiamo ancora avvalerci oggi. Fu una stagione vittoriosa soprattutto per il difficile e sanguinoso intervento delle truppe alleate. Ma fu anche una stagione generativa proprio grazie all’unità (imperfetta ma efficace) tra correnti culturali e forze politiche assai diverse tra loro. 

Quel costituirsi dell’unità antifascista e costituente fu facilitato dal fatto che l’Unione Sovietica faceva parte degli Alleati che combattevano le Potenze dell’Asse. E che quello schierarsi fu decisivo per sconfiggere i tedeschi sul fronte orientale e anche per vincere la guerra. Questa partecipazione costò ai soli sovietici tra i 23 e i 25 milioni di morti. 

I suoi buoni frutti… 

Valutare compiutamente la generatività di quegli anni vuol dire ricordare che le forze della Resistenza hanno fatto nascere una repubblica democratica in un’Italia distrutta dalla guerra, con un popolo gravemente ferito, tutt’altro che coeso e disabituato alla democrazia. 

Fu concentrata, a questo scopo, un’attività politica, sociale, progettuale molto intensa, impensabile in tempi ordinari. Lo ricordiamo proprio perché la si deve a quell’unità realizzata tra correnti culturali e politiche che presto risulteranno incompatibili. 

Ricordo anzitutto il Patto di Roma del 9 giugno 1944 che segnò la nascita della CGIL unitaria e fu siglato da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, da Achille Grandi per la DC;  per il PSI non fu firmato da Bruno Buozzi che si era molto speso per quell’obiettivo ma da Emilio Canevari. Buozzi era stato trucidato dai tedeschi 5 giorni prima. 

Non ho il compito di fare una cronistoria di quegli anni, quindi ricordo, e solo in parte, cosa si addensò nel solo 1946: elettorato attivo e passivo per tutte le donne; elezioni amministrative, prima consultazione democratica dopo il fascismo; elezioni politiche per l’Assemblea Costituente e Referendum istituzionale monarchia-repubblica, elezione di Enrico De Nicola a Capo provvisorio dello Stato… 

…e la sua fine

Il maggio dell’anno successivo, purtroppo, segnò la fine dell’esperienza straordinaria dei governi unitari, dei governi del CNL. Non prima che il governo De Gasperi portasse ad approvazione, qualche settimana prima, il trattato di pace e l’art. 7 del progetto di Costituzione, relativo ai Patti Lateranensi. 

Diversi fattori hanno pesato su questa rottura: un richiamo all’ordine dei sovietici su PCI e PSI; una pressione degli Stati Uniti sulla Dc; le divergenze sorte nel governo e tra i partiti quando si trattò di definire le politiche e i singoli interventi di riforma. Le dinamiche geopolitiche che stavano costituendo gli assetti mondiali del dopoguerra, furono la causa primaria dell’interruzione di quell’esperimento di unità nella pluralità.

Sono tra quanti sostengono da sempre che la Guerra Fredda ha diviso ciò che per il bene dell’Italia doveva e poteva restare unito. Aldo Moro è stato assassinato perché stava finalmente sanando quella ferita che per decenni ha fatto dell’Italia una democrazia incompiuta. Stanno qui le radici profonde che dagli anni ’90 del secolo scorso fanno marcire la crisi della politica italiana.  

In quegli anni cruciali e dentro quell’unità plurale i cattolici democratici hanno svolto un ruolo minoritario rispetto a quello delle sinistre e tuttavia essenziale. Lo fanno capire le 5 figure guida che sono state scelte. Decisivo è stato invece il ruolo svolto dai cattolici dopo la fine di quella unità. 

Gli anni della contrapposizione 

Con le elezioni del 1948 e la vittoria della Dc i cattolici assumono un ruolo centrale nel Paese e nel suo governo. È l’epoca della «diga contro il comunismo» cui si contrappone il «fronte popolare». E si deve a De Gasperi se questa centralità politica è stata interpretata (come lui stesso ha detto) come quella di “un centro che cammina verso sinistra”; sia stata ispirata, cioè, da un “anticomunismo democratico” (come l’ha definito Pietro Scoppola) che ha evitato la cristallizzazione di un blocco moderato come avrebbe voluto (per esempio) Tardini, autorevole Segretario di Stato vaticano dell’epoca. 

Le ragioni dell’antagonismo tra Dc e PCI erano fondate ma l’Italia ha pagato un prezzo per questo. Non si discute l’incompatibilità con la democrazia dell’ideologia comunista e più ancora dei regimi di socialismo reale dell’Est: in nome della giustizia sociale hanno dato vita a regimi totalitari.

Va dato atto, però, che il comunismo italiano ha scelto di essere altra cosa. Quando nel marzo del 1944 Togliatti rientrò in Italia dopo 18 anni di esilio a Mosca, impose la “svolta di Salerno”, cioè la scelta (poi mai rinnegata) di seguire la via democratica per affermare quella che veniva definita “democrazia progressiva”. Fu questa scelta a permettere i governi unitari e l’unità costituente. 

La storia, d’altra parte, ha dimostrato che l’esasperazione dell’ideologia liberale a sostegno dell’economia capitalistica, aveva in se stessa un tarlo. I risultati significativi di diffusione del benessere raggiunti nelle democrazie del Nord Ovest sono stati ottenuti spogliando e assoggettando l’emisfero meridionale con forme coloniali e imperiali tutt’altro che liberali e spesso violente. 

Né possiamo dimenticare i costi che per questa esasperazione sono stati pagati nel secolo scorso: due guerre mondiali (intracapitalistiche) e la Grande Depressione del 29, il ripetersi di crisi congiunturali. E come non ricordare che quei decenni di Guerra Fredda sono stati segnati in realtà dalla persistenza endemica della guerra guerreggiata e dei vari terrorismi? L’esasperazione dell’ideologia liberale a sostegno del capitalismo ha condotto le società democratiche sull’orlo di una crisi senza ritorno. Se la giustizia sociale senza libertà genera totalitarismi, la libertà senza giustizia sociale genera società ingiuste e progressivamente insostenibili. 

Nasce il “mondo” cattolico, nascono le ACLI

Torniamo a quegli anni 40 in Italia. Tutto l’assetto dell’area cattolica deve rapidamente ridislocarsi. Prende corpo il “quadrilatero” AC, DC, ACLI, CISL: una vera costellazione di organizzazioni che dall’ecclesiale si estende nel sindacale e arriva al politico. Nasce il “mondo cattolico” che comprende molte altre sigle, a cominciare dalla potente Coldiretti. 

Ci stiamo incontrando in una iniziativa delle ACLI, in una sede impregnata di memorie della Chiesa ma anche di storia delle nostra Associazione. 

Il compito che mi è stato assegnato non è riproporvi la storia aclista. Resta però un dato di fatto: la storia delle ACLI è parte integrante del tratto memorabile di storia nazionale di cui invece debbo parlarvi. 

È naturale dunque che io la ricordi, sia pure un po’ in filigrana. Anche perché le ACLI non sono nate ai margini di quella stagione ma ne sono state una componente a pieno titolo.  

Non è un caso che i 3 primi presidenti delle ACLI (Achille Grandi, Giulio Pastore e Ferdinando Storchi) siano stati anche eletti nell’Assemblea Costituente, dove era presente almeno un altro nostro dirigente importante: Giuseppe Rapelli. Sappiamo anche che per la nascita delle ACLI si spese molto l’allora sostituto alla Segreteria di Stato mons. Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI (tra i fondatori delle ACLI ci fu anche suo fratello Ludovico, antifascista impegnato e componente dell’Assemblea Costituente).

Le ACLI nascono dunque dentro il tempo convulso e trasformativo che stiamo ricordando: nascono qui a S. Maria Sopra Minerva nell’agosto1944 (Roma era stata liberata il 4 giugno!). Ma la loro gestazione è precedente. 

Una delle nostre testimoni, Maria Federici madre costituente che svolse un ruolo molto attivo nell’Assemblea Costituente, è presente alla fondazione. (Eva Martucci parla della Federici) E sarà anche la prima coordinatrice delle donne delle ACLI. Un altro testimone, Giorgio La Pira, sarà il primo presidente delle ACLI di Firenze. 

Le nostre ACLI furono create per volontà del Vaticano (come già la KAB tedesca e il MOC belga) per rendere possibile l’adesione dei cattolici nei sindacati unitari e nei paesi a maggioranza protestante. Una sorta di assicurazione di fedeltà dei cattolici alla loro Chiesa e alla loro fede. E infatti il compito iniziale dell’Associazione è di sostegno educativo e formativo dei cattolici impegnati nella CGIL unitaria. 

Achille Grandi, segretario generale della corrente democratico cristiana di quel sindacato è anche, per breve tempo, il primo presidente delle ACLI. 

Presto, però, le ACLI conoscono la loro prima grave crisi: la nascita della Libera CGIL (1948) e della Cisl (1950) le svuota di gran parte del gruppo dirigente e della loro funzione originaria. In molti, allora, pensavano che l’Associazione dovesse essere sciolta.  

Siamo ancora qui. Ma da allora le ACLI hanno dovuto ripensare più volte se stesse e il proprio ruolo. E questo le ha rese un organismo dinamico, spesso capace di aprire strade nuove.  

Se la Cisl si era autodefinita sindacato aconfessionale, le ACLI nei primi anni ’50 si ridefiniscono come ala cristiana del movimento operaio. E con Dino Penazzato e il suo discorso di Roma sulla triplice fedeltà (1955,Piazza del Popolo), giungono a competere apertamente, proponendo un programma sociale molto avanzato, con le sinistre per il consenso delle donne e gli uomini del lavoro. 

Si sono poi ripensate come movimento di formazione e di azione sociale insediato nella società civile: si sono date il compito di dare risposte adeguate ai bisogni e ai diritti dei lavoratori e delle loro famiglie attraverso i grandi servizi (Patronato, Enars, Enaip…) gestiti in collaborazione con le amministrazioni pubbliche e attraverso forme di autorganizzazione ed iniziative di proposta e di pressione verso le diverse istanze istituzionali. Fino ad arrivare (Congresso di Bari del 1981) a proporsi l’obiettivo della crescita politica della società civile. 

Chiudo questi rapidi accenni alla storia delle ACLI con un riferimento cui tengo molto ed è strettamente collegato al tema della memoria. L’unità contro il nazi-fascismo fu sostanzialmente pensata dall’alto per stato di necessità o per calcolo politico. Non fu sempre così a livello di base, nelle relazioni concrete tra i cattolici e le altre correnti politiche e sociali. Se volete sapere qualcosa di più su come fu possibile che perfino diversi sacerdoti prendessero parte alla Resistenza, vi consiglio vivamente di leggere un libro capolavoro che ha molto a che fare con le ACLI: “La messa dell’uomo disarmato”. L’autore è un sacerdote cremonese (di Vescovado, per essere precisi) che è stato vice assistente nazionale delle ACLI: Luisito Bianchi. Per me è stato personalmente molto importante: il mio primo padre spirituale, nel senso forte del termine. 

Ripartire da quella eredità

È però importante riaffermare che quel movimento plurale di popolo ci ha lasciato in eredità, proprio perché plurale, una Costituzione straordinaria: inclusiva, personalista, solidarista, con un giusto equilibrio tra responsabilità sociale dello stato e valorizzazione della sovranità popolare e delle sue autonome espressioni associative. 

Quella straordinaria Costituzione rischia oggi di non avere più un popolo che si riconosca nel patto sociale unitario che l’ha resa possibile. Per questo noi, qui, dobbiamo ripartire da quella eredità, dai suoi valori fondamentali, dagli equilibri tra i diversi poteri, tra i diritti che riconosce e le responsabilità che ci attribuisce. 

Sapendo che anche noi ci troviamo a dover convocare, attorno a questa eredità, un popolo oggi disarticolato e in gran parte lontano da ogni idea di ricostruzione fraterna e solidale della società italiana.  

3. IL TEMPO MINACCIOSO CHE VIVIAMO

Perché non c’è una mobilitazione adeguata

Stiamo di nuovo vivendo un tempo ingiusto, minaccioso, distruttivo: disuguaglianze e ingiustizie, diffusione di forme autoritarie di governo delle nazioni, la guerra come ordinaria estensione della politica, violazione oltre ogni limite di guardia della dignità e dei diritti dei viventi e degli equilibri sistemici del pianeta...

Ci sentiamo sempre più insicuri ed impotenti, sovrastati. I rischi e le minacce che si addensano sulle nostre vite sono sempre più visibili: cambiamento climatico, crisi economiche, pandemia, guerra mondiale a pezzi che rischia di diventare guerra mondiale dichiarata con credibile minaccia nucleare… Perché, allora, non suscitano una mobilitazione politica popolare seriamente in grado di contrastarle? 

Ogni essere umano e tanto più ogni cattolico democratico, dovrebbero avvertire fortemente la responsabilità di promuovere un movimento di liberazione e di rigenerazione sociale. La situazione, però, è molto diversa da quella degli anni che abbiamo ricordato: non possiamo contare, oggi, sull’impulso pressante di una lotta di resistenza e di liberazione. E sembra lontana la possibilità di costituire una vasta unità di forze che motivi e promuova una nuova stagione generativa di futuro. 

Non sono mancate mobilitazioni anche rilevanti, soprattutto sul versante della lotta contro il cambiamento climatico e la violenza sulle donne. E non a caso si tratta, sostanzialmente, di un movimento generazionale e di un movimento di genere. 

Parlo dell’impulso dato da Greta Thunberg con il Friday for Future alla presa di coscienza sulle tematiche del cambiamento climatico. Il movimento ha avuto anche interlocuzioni di alto livello nelle istituzioni internazionali ed è riuscito ad ottenere qualche risultato significativo. 

E parlo del vasto movimento contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne, in parte confluito nel Me Too. Anche di questa essenziale realtà si parla molto, soprattutto sui media vecchi e nuovi, ma siamo lontani dal far assumere alla questione la centralità che merita e dall’adottare politiche davvero incisive. 

Fare leva sui fattori di bene

I movimenti che vedono in campo soprattutto i soggetti direttamente più interessati riescono, se va bene, a rendere visibili le questioni e a imporle formalmente all’ordine del giorno. Non è poco, certo. Ma non è risolutivo. Questi movimenti rivendicano dalla politica in crisi quel che non è in grado di fare. Per risolvere le questioni che li caratterizzano bisogna tirar fuori la politica dalla sua autoreferenzialità e dalla sua impotenza. E questo vuol dire collegare questi movimenti ad una più ampia rete di movimenti sociali e politici che riesca ad inserire la loro forza e le loro istanze in un più generale e progressivo movimento di liberazione e di trasformazione. 

Questo nostro filo della memoria che ricostruisce e valorizza i grandi fattori di bene e le dinamiche costruttive che si sono manifestati nel tumultuoso secolo che sta alle nostre spalle, può essere un passo importante. Può esserlo se ripetuto creativamente nelle nostre comunità come questo laboratorio si propone. 

Fattori di bene, va precisato, perché non ogni memoria del passato è forza costruttiva: basta l’esempio della falsificante narrazione storica con la quale Putin giustifica il suo folle disegno di riconquistare con la guerra territori e nazioni per tornare non solo ai confini dell’Unione Sovietica ma a quelli dell’Impero zarista. 

4. COSTRUTTORI DI FUTURO 

Prima di proseguire debbo fare una precisazione: è quasi un quarto di secolo che non partecipo attivamente alla vita della nostra Associazione; non certo perché sia venuto meno il mio amore per le ACLI, delle quali faccio parte dal novembre 1966 e alle quali debbo moltissimo, quasi tutto. È chiaro, dunque, che vi sto dicendo cose che non si riferiscono a posizioni ufficiali delle ACLI oggi presiedute da Emiliano Manfredonia, che stimo molto. Sono solo il frutto del mio pensiero in questa fase della mia vita.

Chi, come?

Costruire il futuro. Siamo all’ultimo capitolo di questa comunicazione. Se le mie considerazioni hanno un senso, allora il compito che abbiamo davanti è fin troppo chiaro: mettere in campo un movimento culturale e politico abbastanza ampio, coeso e forte da contrastare e invertire le tendenze distruttive di questo tempo oscuro. 

In una società frammentata e individualista com’è possibile rinverdire il riferimento allo spirito unitario, ai principi fondanti, ai fattori di bene di quella storia costituente? Non si vedono oggi forze politiche in grado di promuovere seriamente un tale movimento unitario. 

La vittoria di Elly Schlein alle primarie che l’hanno scelta come segretaria del PD ha suscitato l’entusiasmo di molti ma ha preoccupato molti altri, anche cattolici democratici: sì, è un fattore di novità ma è troppo diverso e inquietante il suo profilo personale e politico. Sembra che lei comunque abbia trovato un accordo con Bonaccini: l’Assemblea nazionale di domani dovrebbe eleggerlo presidente del partito. Ci vorrà tempo per capire se il nuovo assetto farà del PD un partito realmente in grado di mettere nuove radici, come Elly propone, nelle aree più fragili ed esposte della società e di farsi interprete delle loro istanze. 

Intanto, c’è chi ha tratto motivo dall’elezione della Schlein per confermarsi nella scelta di praticare una vecchia strada: rifare un recinto politico riservato ai cattolici democratici. Una scelta che mi appare più un riflesso di chiusura difensiva che uno slancio verso le nuove convergenze che sono necessarie ed urgenti. Chi sogna un nuovo partitino di ispirazione cristiana finirà solo col frantumare ulteriormente forze che invece andrebbero unite. 

Sto per dire qualcosa di molto radicale: per ridare alla politica la sua dignità e credibilità, non basta cambiare i gruppi dirigenti di questi partiti e neppure rendere più democratica e partecipativa la loro organizzazione. Bisogna cambiare la politica, bisogna sottrarla al monopolio dei partiti e delle loro burocrazie. 

Ripartire dalla società

La politica di domani o nascerà da una società civile rigenerata o non sarà. La crisi attuale non dipende soltanto dai partiti, dai loro programmi o dal loro autodefinirsi di destra o di sinistra. E neppure soltanto da una società sedotta e sedata e dalla disaffezione; dipende più ancora dalla sua impotenza a incidere su vincoli, processi, tendenze determinate fuori da ogni procedura democratica e ingovernabili dalle democrazie, nazionali o europee che siano. 

E allora?  Resto convinto che si possa ancora fare molto per costruire un altro futuro. Che possiate senz’altro farlo voi nuove generazioni e voi donne. Ma non solo voi. Per nutrire una nuova speranza, però, dobbiamo smetterla di limitarci a delegare la politica ad altri: sia che si tratti di una delega consapevole o derivante da un disinteresse per la politica e per il bene comune. 

Si può rigenerare la politica se si rigenera un popolo democratico, che non sia tale solo perché ogni tanto va a votare ma perché matura una coscienza politica e una cultura politica; perché coltiva un’autentica passione per il bene comune, per la propria autonomia e coesione, per una reale sovranità esercitata per attuare il programma della Costituzione, ancora in gran parte disatteso.  

Un obiettivo non alla nostra portata? 

L’obiettivo appare così grandioso e lontano, sproporzionato rispetto allo scenario oscuro in cui siamo costretti a vivere e alle nostre forze attuali. E non è senz’altro impresa dai tempi brevi. Ma ci si può lavorare da subito, con una iniziativa dal basso, nella società. Là dove c’è già molto di buono e di convertibile al bene su cui poter contare. E ci si può lavorare non contro i partiti ma chiamando i partiti a sottoscrivere patti programmatici che riguardino le possibilità reali di attuare politiche efficaci negli organismi elettivi e nei governi istituzionali. Senza svendere la nostra autonomia.

Sembra a me che le ACLI si trovino da molto tempo ad operare sulla frontiera giusta, che siano già consapevoli di esprimere una propria autonoma politicità, là dove le ha collocate la storia qui solo accennata: là dove economia e democrazia debbono essere indirizzate ad operare per la promozione umana non più soltanto delle donne e degli uomini del lavoro.

È la frontiera calda della modernità ma anche quella che la potenza senza regole dell’ultra-capitalismo ha più scompaginato assetti e rapporti di forza. Quella triangolazione tra Stato, mercato e movimento operaio che ha fatto le fortune dello stato sociale democratico all’europea, non c’è più perché il mercato ha disdetto unilateralmente il compromesso su cui si reggeva. Il capitalismo internazionalizzato,  finanziario e telematico sfugge ad ogni responsabilità sociale e ad ogni regolazione politica. Anzi: ha fatto della politica un proprio strumento ed ha sterilizzato quasi ogni conflitto sociale.

Ecco perché la politica e la democrazia debbono oggi tornare ad esprimersi prima di tutto nella società. La democrazia sociale è sempre stata subordinata a quella politica e a quella economica. Oggi deve diventare invece fondativa. (Eva legge Aldo Moro)

Per questo le ACLI, nonostante difficoltà e contraddizioni, possono essere ancora oggi tra gli eredi e gli interpreti più coerenti del lascito democratico di cui stiamo facendo memoria. 

Un dialogo costruttivo di futuro

Questo laboratorio sperimentale è un passo nella giusta direzione. Lo è questo reciproco ascolto e dialogo, tra generi e generazioni. Perché se vogliamo una vera collaborazione tra diversi, dobbiamo rimuovere le ragioni che alimentano tra loro contrasti di interessi, estraneità, conflitti latenti. 

Non possiamo riferirci a concezioni puramente demografiche del genere e della generazione. Nella società fluida e individualistica ogni identità è instabile, aperta, esposta, esibita. Se parlando di generi ci riferiamo soltanto alla diade maschio-femmina escludiamo ampie aree di esseri umani: viviamo nell’era dei molteplici orientamenti sessuali. E anche i confini tra le generazioni sono oggi più sfumati: molti adulti sono più incerti e tormentati degli adolescenti e molti adolescenti diventano precocemente adulti.

Il contrasto di interessi e le disuguaglianze di opportunità tra generi e generazioni esistono. Ci è chiesto di riaffermare con chiarezza che le differenze non giustificano alcuna disuguaglianza di dignità, di potere, di opportunità di vita. Ma neppure rigide separazioni identitarie che indeboliscono la coesione sociale e cristallizzano la differenza.

La terza e quarta età, oggi, sono più attive e meno marginali. L’invecchiamento della popolazione dovuto alla maggiore longevità e alla forte flessione delle nascite, le ha rese oggetto di invasive strategie di marketing che lucrano consumi, audience, consenso elettorale. Ma è facile vedere che forti penalizzazioni ed emarginazioni intollerabili esistono anche nei confronti degli anziani. Basta vedere quanti sono soli e indifesi, quanti sono ricoverati in strutture loro dedicate che finiscono col segregarli. Pensiamo a quanti la pandemia ne ha falciati dentro queste strutture. 

Il dialogo di cui stiamo parlando non è solo relazionale e sociale, è  politico, è costruttivo di futuro. È  rivolto a raggiungere un nuovo patto politico tra generi e generazioni orientato a costruire il mondo che tutti speriamo: più umano, più giusto, più sostenibile. Per questo è necessario agire per far riconoscere e prevalere ciò che ci unisce su ciò che ci divide. Si possono ridurre al minimo, così, i conflitti che logorano e disperdono energie invece di farle convergere. 

Una comune visione di futuro

La rigenerazione di relazioni fraterne, il ricostruire insieme un filo della memoria per maturare una comune coscienza politica, ha poi il compito tutt’altro che facile di tratteggiare le coordinate del futuro che insieme vogliamo contribuire a costruire. 

Una progettazione reale, naturalmente, non può essere fatta in astratto a tavolino. Serve, per questo, una conoscenza profonda delle realtà in cui si interviene, delle comunità che ci abitano. E servono competenze specifiche. 

Non ho la pretesa di tratteggiare qui i lineamenti di una nuova società, obiettivo sul quale mi sono a lungo esercitato nella mia vita e ancora mi esercito in altre sedi. Ricordo, però, che questo laboratorio si propone, tra gli altri, l’obiettivo di maturare una comune visione di futuro. 

È un compito decisivo: solo se sai dove vuoi andare puoi orientarti nel cammino; e sappiamo che strada facendo la meta può essere precisata, variata, cambiata. È interessante vedere che questa ricerca era già presente durante la Resistenza, pur nel tempo delle rigidità ideologiche. Ascoltiamo ancora Eva Martucci (lo schema delle Fiamme Verdi). 

È insomma molto importante che anche la nostra tessitura di trame locali sia inserita entro le direttrici di un processo di trasformazione; che contribuisca ad elaborare, in progressione, un pensiero strategico di più largo respiro. 

Qui mi limito ad individuare i fuochi di quella tessitura di trame a dimensione locale e comunitaria di cui già avete ragionato. 

L’asse portante di un welfare comunitario

Chi ha pensato questo laboratorio osserva come il dialogo tra le generazioni possa essere «di straordinaria importanza per la costruzione di welfare più equi e lungimiranti (a partire da quelli generativi e comunitari spesso presenti nei contesti locali)».

Sono del tutto d’accordo e poiché siamo in un campo al quale mi sono a lungo dedicato, aggiungo: la progressiva socializzazione autogestita dei servizi di welfare è uno dei luoghi più generativi e trasformativi per costruire il futuro. 

La politica riesce a costruire la città dell’uomo se la fa crescere soprattutto con l’attivarsi consapevole, fraterno, solidale delle persone e delle diverse forme comunitarie. 

Tra gli errori di fondo della politica al tempo della sua crisi c’è il suo essersi schiacciata sulle logiche del governo, delle sue compatibilità e delle sue convenienze fino a pretendere, attraverso spregiudicate e falsificanti strategie di acquisizione del consenso, di imporle alla società Così si è sostituita un politica viva ad una politica morta. Come puoi meravigliarti se mi sento estraneo ad una tale politica?

C’è urgente necessità di una società più autonoma e più consapevole della propria sovranità (si, sovranità, cosa troppo seria per lasciarla nelle mani dei sovranisti). Una società che si metta seriamente in cammino per liberarsi dalla colonizzazione mercantile che aliena oggi gli esseri umani molto più di quanto accadeva nel lavoro capitalistico; per liberarsi dalle logiche di potere che contribuiscono ad allontanarla dalla politica, dai narcisismi che sottraggono uomini e donne ad ogni solidarietà che non sia con il simile in cui puoi specchiarti.

Rovesciare la logica attuale del politico

La logica attuale del politico va rovesciata: la politica cresce in autonomia nella società e proietta i suoi rappresentanti nelle istituzioni attraverso le organizzazioni politiche democratiche che si fanno interpreti credibili della sua progettualità. 

La strada da intraprendere è quella della socializzazione comunitaria del welfare e della crescita politica della società civile. Una costruzione che non sia puramente funzionale. 

Questo significa ripensare seriamente le reti di terzo settore, oggi troppo subalterne alle pubbliche amministrazioni e quindi sia troppo esposte a forme di scambio politico improprio, sia troppo attraversate dalla competizione per accedere a finanziamenti, progetti, appalti… Solo ricostruendo la loro autonomia e saldando una loro nuova unità; di più ricercando il collegamento e la collaborazione di tutte le varie correnti di economia civile, solidale, trasformativa, di liberazione… 

E poi dare più intensa qualità alle proprie iniziative. Cosa vuol dire concretamente? Qualche spunto: ogni piccola e provvisoria o  consistente e duratura realizzazione deve essere pensata come una “struttura di bene”: capace cioè di incarnare e promuovere in se stessa (con la medesima priorità che attribuisce al produrre beni e servizi) relazioni fraterne e comunitarie, forme di dialogo e di reciproco riconoscimento, esperienze e forme aperte e plurali di nuova istituzionalità e di democrazia civile partecipativa, non partitizzata. L’impresa sociale e solidale di welfare non è una simil impresa capitalistica in sedicesimo: può essere soltanto un’impresa comunitaria e autogestita. Un’espressione diretta delle comunità e della loro sovranità politica. 

Lo so che non è cosa p. Credo di avere avuto un ruolo non marginale nella nascita del Terzo settore in Italia. E tuttora sono impegnato (come posso) a promuovere economia sociale solidale, anche a scala internazionale. Non è semplice ma è questa la strada che può far rinascere una buona politica, davvero orientata al bene comune inteso come bene di ciascuna e ciascuno e come bene di tutte e di tutti. 

Siamo del resto in continuità con la migliore tradizione del cattolicesimo democratico, almeno da Sturzo in avanti: sovranità popolare e democrazia debbono avere loro salde ed autonome radici nelle comunità, nei «corpi intermedi» come diciamo da sempre con una espressione che forse oggi va rivisitata. 

Dentro questa concezione (stupendamente riassunta negli articoli 2 e 3 della Costituzione, cioè tra i principi fondanti della Repubblica) c’è stato forse all’epoca, da parte della Chiesa e dei cattolici, un doppio riflesso pregiudiziale: antistatalista e anti-collettivista e di difesa delle opere cattoliche. 

La storia ci ha detto, però, che il pericolo più grande, per le autonomie della società, è venuto dall’individualismo liberista, veicolo privilegiato della colonizzazione mercantile della società e dello svuotamento della sua coesione e della sua autonomia. 

Liberare la società da questa colonizzazione e dalle sue seduzioni è necessario se vogliamo davvero rigenerare l’autonomia della società e dei suoi corpi intermedi per costruire una città propriamente umana.

Autonomia prima di tutto culturale come condizione necessaria a costruire un’autonomia politica. Ne va della democrazia. Senza questa autonomia consapevole non c’è sovranità del popolo e non c’è democrazia degna di questo nome. 

***

Il nostro fare memoria, dunque non ha lo sguardo rivolto al passato, non è ottusamente nostalgico. Nel meglio della storia dell’Italia e dei cattolici, cerca fattori di bene, punti di riferimento e di orientamento che ci aiutino a camminare verso un futuro più umano e più giusto. 

Da tempo c’è il tentativo di snaturare la Costituzione della Repubblica e il patto sociale che l’ha fin qui sostenuta. È vecchia si dice, la società è cambiata. È vero ma vecchi e superati non sono i valori fondanti del patto sociale unitario reso possibile da una vera stagione costituente maturata nel contrasto ad una tragedia distruttiva. Stanno dunque ancora qui le basi solide su cui fondare la costruzione del futuro. E già  la nostra tessitura a dimensione locale e comunitaria e la nuova progettualità che ne deve scaturire trovano il forte ancoraggio per una nuova creatività spirituale e politica. 

Ci vogliono smemorati e individualisti per renderci più disponibili alle loro strategie distruttive. Ribellarsi è giusto. Per amore e con amore, ci ha testimoniato il Beato Teresio Olivelli. Facendo davvero della nostra politica una forma alta ed esigente della Carità. Sapendo che possiamo farcela solo con l’aiuto di Dio. Solo invocando la sua misericordia. 



 


Pragmatici esercizi di umanità, spostamenti e trasformazioni.

La Bosnia. I profughi. L'Europa. La Bosnia é un luogo che non ha più voglia di presentarsi come "quella della guerra". 30 anni...