Dell'associarsi non ne sappiamo tantissimo... - Tommaso Vitale


di Tommaso Vitale - 


Associarsi, mettersi insieme. Il punto fondamentale di ciò che dirò io oggi è: non ne sappiamo tantissimo. Possiamo essere un po’ sistemartici su alcuni temi, ma l’avventura e la logica della scoperta è qui: è ancora tutto da fare. Nel passato, collettivamente, nelle scienze sociali europee, ci siamo un po’ sbagliati nel modo di pensare e ragionare e spiegarci il fenomeno associativo. 


La partecipazione associativa e sociale è un aspetto centrale della modernità, della vita insieme:  cantiamo in una corale, giochiamo a calcio in un club amatoriale, ci incontriamo per discutere le finezze di una certa forma di yoga, impariamo una lingua insieme a persone che non la conoscono, aiutiamo ragazzi più giovani ad imparare, facciamo grandi manifestazioni per la vita dell’acqua, diamo vita a mense popolare, facciamo cose per rilanciare l’attrattività dei nostri paesi… Sono cose molto diverse tra loro, ma hanno un punto comune: sostanzialmente ci mettiamo insieme, facciamo insieme, ci emozioniamo insieme. Sono tantissime le cose per cui il mondo della politica e il mondo intellettuale hanno guardato con fascinazione al mondo della partecipazione sociale. 


La storia inizia quando Alexis de Toqueville parte per gli Usa e vede qualcosa per cui dice ”Questi stanno imparando la democrazia giocandosela”.

Vede che è il fatto di stare assieme che fa l’apprendimento della democrazia. Questo ha un enorme fascino per il mondo europeo. Fascino  per un modello di partecipazione che fa cambiare le cose, innanzitutto facendo cambiare chi le fa. 


Siccome questa partecipazione performa, produce un sacco di buone conseguenze, noi l’abbiamo sempre guardata osservando la produttività. Produttività di legami, di competenze, di prospettive.  Per darsi un progetto di vita, per stabilire relazioni, per farsi aiutare nei momenti duri della vita o addirittura per imparare quelle regole che ci permettono di votare a maggioranza, per stare insieme, per convergere e fare democrazia. Abbiamo pensato a tantissime cose, alcune un po’ astratte (coesione sociale…) altre molto concrete (amicizia, amore, capacità cognitive…). Tutte cose che l’esperienza dell’associarsi fa, produce, su cui incide. 


Sono cose importanti ma…ci siamo sbagliati! Perché guardando solo a tutte queste funzioni non abbiamo voluto guardare alle tendenze empiriche di fondo. La storia della modernità è una storia di riduzione dei tassi di partecipazione. Abbiamo una narrazione su queste cose che è bellissima. Una narrazione su tutto ciò che l’associazionismo fa e produce. Ma tutte queste narrazioni non sono capaci di spiegare perché da queste parti solo 8 o 9 persone su 100 si associano. Perché in Italia siamo da anni in una forte decrescita della partecipazione. E lo siamo anche se la misuriamo su forme nuove, anche se ne guardiamo tutte le prospettive più sofisticate, anche se teniamo conto dell’off line e on line. Tutte le nostre narrazioni non spiegano perché anche il Paese che ha massimi livelli di associazionismo e partecipazione in Europa (la Germania) resta su un livello di partecipazione di 1 su 3. Se questo mettersi insieme è così tanto buono, bello e performante e fa così bene al paese, alla democrazia, ai legami e fa bene anche alla persona che lo fa, perché non siamo tutti lì a farlo? E anche, perché in alcuni posti lo si fa di più e in altri di meno? Perché alcune persone lo fanno di più e altri di meno? Perché alcune organizzazioni hanno così tante persone e altre così poche?


Abbiamo avuto il limite di aver ragionato sul tema per funzioni. Il dramma intellettuale del 900 è il funzionalismo. A destra come a sinistra. Siccome una cosa fa e performa, allora pensiamo di poter spiegare quella cosa in base a ciò che performa, in base alle conseguenze che produce. Questo ci porta ad una assenza della spiegazione. Ad un disastro intellettuale. 


Qui nasce la passione, qui ci interroghiamo guardando all’Europa. Non su come fare di più e meglio. Ma sul perché. Il nostro sogno e gusto europeo di guardare altrove non può essere pragmatico e utilitarista. Abbiamo 123 anni di questo pragmatismo, di questo volere subito passare all’intervento, all’azione. La comprensione ha i suoi tempi. Serve la ricerca? Si. Serve ricercare ancora. 


Con la ricerca scopriamo che, sia per le donne che per gli uomini, la decisione di associarsi ad altri è legata più ad amicizie e a prove di fattibilità che ad una identità predefinita. Più alla possibilità di avere qualcuno che ci è vicino e ci fa vedere come si fa a fare bene con gli altri, che non ad una idealità. Vediamo che, sfortunatamente, le condizioni per l’azione sono più positive quando le cose sono calme e quando i problemi si stanno in parte risolvendo. Quando invece le persone vedono i problemi aumentare, la capacità di associarsi diminuisce un po’. 


La ricerca comparativa ci permette di guardare anche alcuni lati oscuri. Ad esempio, ci permette di vedere quando la partecipazione si camuffa di altro, di lavoro un po’ sporco e sotto pagato. Ci permette di vedere se i quadri regolativi recenti aiutano a invertire le tendenze di lungo periodo o meno. La ricerca comparativa aiuta a dare alcune risposte. Ma prima di tutto guardiamo alla sfida intellettuale. Ci interessa capire perché una esperienza è attrattiva, perché ha senso per alcuni e non per altri. Studiare, approfondire, vedere e avere il coraggio anche di marcare alcuni punti di problema, non è elemento di discredito. 


La ricerca comparativa può essere quantitativa: ci dice che si, effettivamente, persone più ricche e istruite partecipano di più. Territori più densi tendono ad avere una partecipazione più vibrante, ci sono momenti in cui le donne partecipano di più. Ma ci può far vedere anche che se qualcuno ha bassi livelli di reddito e istruzione e comunque partecipa, riduce le sue diseguaglianze rispetto alla possibilità di trovare lavoro, di partecipare anche nella sfera politica. 


Ma la ricerca solo quantitativa rischia di essere un po’ ombrosa e un po’ troppo pessimista. Vedere declinare la partecipazione dei cittadini ad una vita in comune non vuol dire pensare la fine della società civile, la fine del ruolo dell’associarsi. Perché nell’associarsi, anche se permangono i lati duri della società, anche se tutto siamo tranne che irenici, anche se sappiamo che esistono soglie di discriminazione delle donne anche nell’associarsi (specie dai 25 ai 35 anni, soprattutto in Italia ed Europa del Sud, su cui pesa un enorme carico di lavoro), anche se sappiamo che chi ha meno risorse riesce meno a spendersi… nell’associarsi risiede un potere trasformativo. 


Nell’associarsi scopriamo, in diversi paesi, quello che con grande intelligenza e profondità teorica Sebastiano Citroni, nel suo ultimo libro, chiama “la capacità di prendere distanza e metabolizzare i vincoli per rielaborarli nella partecipazione con le persone”. Quando ci si associa non si è passivi. Il fatto che ci sia diminuzione dei tassi di partecipazione, il fatto che alcuni territori siano marcati da minor numero di persone che partecipano, non vuol dire che, per chi partecipa, non avvengano cose trasformative straordinarie. Il punto è come le guardiamo. Se le guardiamo sminuendole o prostituendole (letteralmente: chiedendo di monetizzare la prestazione) o se le guardiamo con ottica strumentale, perché vogliamo che spremendole tirino fuori politica, democrazia e ricchi premi e cotillon per il mercato del lavoro, allora ci deprimiamo. Se guardiamo solo a quelle funzioni non riusciamo a capire cosa accade dentro l’esperienza dell'associarsi. Quello che accade dentro le organizzazioni non è la politica come la intendiamo negli anni 70, con gli occhiali dell’ideologia che influenzano ogni interpretazione. Quello che accade dentro le organizzazioni è che l’invenzione è sempre nuova e molto diversa. Diversa nella modalità di affrontare i vincoli, di affrontare le diseguaglianze di genere, le diseguaglianze di territori, di disoccupazione, di problemi, di solitudine. Guardare dentro permette di scoprire come è possibile praticare altro da ciò che già esiste. Le organizzazioni non fanno la politica dei movimenti sociali, anche se a volte, alcune, si coordinano e hanno capacità di influenza. Ma quello di organizzarsi in movimento e avere influenza diretta è solo uno dei mille metri da prendere in considerazione. Non è l’unico. A volte le organizzazioni creano posti di lavoro, ma l’impatto sul mercato del lavoro non è l’unico indicatore per misurare il senso di una mensa popolare, ad esempio. Guardando dentro le organizzazioni per come sono oggi si impara insieme molto più che non la politica della pressione e della proposta pubblica. 


La cosa affascinante è che la ricerca comparativa ci dice che nei gruppi sportivi spagnoli, svedesi e norvegesi il fatto di darsi regole comuni e democratiche per organizzare tornei, aiuta molto anche a pensarsi per un ruolo politico di pressione per le politiche sportive e culturali in senso largo. In altri paesi associarsi per fare sport insieme o per far fare sport a ragazzini non socializza molto alla politica. Ci dice che effettivamente i giovani partecipano sempre meno alla vita associativa, ma la crisi è molto più forte in Francia ed in Italia che non in Grecia e Germania. Questo ci obbliga a delle letture molto fini di come sono fatte le società europee e di come sono fatte le esperienze associative. 


Abbiamo la necessità di passare dal lavorio intellettuale per capire, dettaglio per dettaglio, cosa accade. A quali condizioni, nel modo con cui le persone si mettono assieme e affrontano i vincoli che pesano su di loro, l’esperienza associativa si sviluppa. Nella frammentazione che viviamo oggi questa è un’operazione molto importante. Non possiamo partire dalle funzioni. Dobbiamo partire dal significato che le persone affidano al mettersi insieme. Ogni sguardo è ricco, ma va puntato sul mettersi insieme. Da qui tiriamo fuori il coraggio di spiegare. Ci sono paesi in cui esistono enti di ricerca nazionali, con carriere interne. Ci sono paesi in cui associarsi è tema di esame o è tema di corsi avanzati di studi. Ci sono paesi per cui il riconoscimento del fatto che famiglia, lavoro e associazionismo sono i luoghi di socializzazione non discrimina l’associazionismo come cosa meno importante nella nostra vita. Noi ci siamo un po’ sbagliati, perché ogni volta che parlavamo di associazionismo c’era qualcuno che premeva per dire: si, ma il welfare…, si, ma la cooperazione…. Ma quando non si vanno a vedere le basi associative si perde molto del gusto di spiegare le nostre società e le loro accelerazioni. 


(appunti presi in diretta della lezione introduttiva del seminario "La partecipazione Sociale" tenutosi all'Università del Molise il 23.3.2023 e non rivisti dall'autore)

Pragmatici esercizi di umanità, spostamenti e trasformazioni.

La Bosnia. I profughi. L'Europa. La Bosnia é un luogo che non ha più voglia di presentarsi come "quella della guerra". 30 anni...