Gli stili di scena nell'associarsi quotidiano - Sebastiano Citroni

di Sebastiano Citroni 


Normalmente il terzo settore si suddivide guardando alla forma giuridica (odv, aps, cooperative…) oppure al tema (pace, immigrazioni, salute…) oppure alle persone (volontari, lavoratori….). Io ho provato a suddividere andando invece ad osservare gli stili associativi. L’idea è che la vita di una associazione si articola in una serie di scene, non illimitate: lavoro di ufficio, davanti alla macchinetta, sportello con utenti, assemblea soci, riunione di equipe… sono molte ma è tutto sommato un repertorio limitato. Non inventiamo le parole che usiamo. Le conosciamo già ed in base a quelle che conosciamo possiamo scegliere quali usare. Anche per gli stili è la stessa cosa: non li inventiamo da zero, pratichiamo uno stile che conosciamo. Conosciamo cosa è appropriato fare e non. 


Quali sono gli stili praticati? Gli stili associativi ci danno modo per leggere un’associazione. Ne ho rilevati 5: 

Militanza

Cittadinanza attiva

Volontariato occasionale

Comunità di interesse

Comunità di identità


Il primo è uno stile molto facile da identificare. Relativamente minoritario, oggi,  ma con una sua gloriosa storia. La militanza. Rapportarsi come compagni che portano avanti una battaglia comune. Questo vuol dire associarsi in un certo modo. E’ un modo diverso da chi fa impresa sociale. Diverso da chi si associa come cittadinanza attiva in un quartiere… nella militanza si sa che siamo dalla stessa parte, non c’è bisogno di dirselo, non si mette in discussione, si va dalla stessa parte….


La comunità di interesse è qualcosa che si riunisce per un obiettivo comune. Si fa una associazione o un consorzio di associazioni o una rete per partecipare ad un progetto in relazione ad un obiettivo specifico. Non nasce su questioni identitarie, di principio, ma nasce per un obiettivo comune: cambiare quella legge, vincere quel bando… Nelle comunità di interesse sappiamo che siamo diversi, non ci sorprende, non ci scandalizza, ci serve, per raggiungere l’obiettivo. Siamo diversi ma è una diversità che in parte cerchiamo e in parte tolleriamo. Perché riguarda solo quello specifico obiettivo. Non riverso lì tutta la mia identità.  


La comunità di identità è molto diversa. Non c’è prima l’obiettivo specifico. C’è prima un dirsi: noi siamo. Noi siamo operai, Noi siamo abitanti delle case popolari. Noi siamo familiari delle vittime di attentati. Noi siamo familiari di disabili… Le presone convergono a partire dal bisogno di condividere una condizione comune. Poi possono partecipare al bando, cerca di influenzare la politica, possono fare varie cose. Ma il punto di partenza è una identità riconosciuta, non una diversità cercata. 


(...) Gli stili sono espressione di concezioni generali. Fare associazione è mettersi assieme per fare una battaglia politica? Vuol dire affrontare dei bisogni in modo sostenibile? Vuol dire esprimersi pianamente come cittadini perché non ci basta andare a votare? Sono concezioni diverse che sembrano astratte e generali ma che si esprimono in modi molto concreti. 


(...) E’ da rivedere l’idea che l’associazione prima elabora le strategie e poi si organizza con le pratiche. In realtà prima c’è un modo di organizzarsi, poi, in base a quei modi di organizzarsi, alcune strategie appaiono come ragionevoli mentre altre sono viste come inconcepibili


(...) Per capire il tipo di cambiamento e il tipo di contributo che una associazione dà, bisogna fare lo sforzo di guardare non solo a cosa fa ma a come lo fa. Perché è lì che si coglie la specificità di questo mondo.  Ad un certo punto degli anni 80 alcune associazioni hanno iniziato a fare riduzione del danno. Distribuzione di siringhe sterili per evitare diffusione di malattie in chi si passa la siringa. Questo intervento di riduzione del danno, che adesso è diventato parte del servizio pubblico, inizialmente ha significato ri-deferinire cosa è il problema, a partire dal modo con cui è affrontato. Se ci fosse stata una battaglia esplicita su questo tema, in regione Lombardia, scontrandosi nel dibattito, una legge per dare siringhe ai drogati non sarebbe mai passata. Sul piano delle pratiche invece, pur all’interno di un dibattito, ma il cambiamento è passato ed è passato a partire dall’efficacia prodotta. Questo è un esempio, ma vale in una marea di ambiti.


Spesso si critica il terzo settore perché è depoliticizzato. Ma non c’è solo la politica politicizzata. C’è una parte che è la politica delle pratiche. Cambiamenti, prodotti su un piano anche sotterraneo e implicito, che producono cambiamenti anche culturali, normativi, istituzionali. Ma è un processo che riusciamo a vedere solo se guardiamo il “come”. Se guardiamo solo al “cosa” e alla misura dell’impatto tutto questo non lo vediamo. Per questo serve mettere a fuoco il come. 


(...) Oggi sembra che ci sia, anche nel terzo settore, un modo giusto di fare le cose, un modo efficiente, efficace e che tutti si debba solo seguire quello. Ci sono consulenti pronti a dirci come organizzarci e come fare. Consulenti che di solito mutuano le tecniche e le competenze solo del mondo economico…


Tendenzialmente i consulenti propongono una modalità, pragmaticamente, per stare nei dettami della legge, ma nel farlo uccidono l’idea che ci sia una pluralità di concezioni, ugualmente legittime. Uccidono l’idea che il “come” non sia una scelta neutra e senza conseguenze. In questo contesto le cose si complicano ed è molto più difficile tenere assieme visioni diverse. In questo contesto i conflitti diventano aspri, perché non si capisce perché si confligge, tra una parte che sente venire meno il suo specifico ed una parte che non comprende perché l’altro si risenta, se in realtà si sta solo parlando del “come”, non del “cosa” e nemmeno del “perché”.


Invece ipotizzare che ci siano più modi di concepire le cose e fare spazio e al confronto con nuove idee, anche se inizialmente ci sembrano un po’ sbagliate, ci aiuta a crescere. Coltivare la biodiversità degli stili associativi è una ricchezza. Rende tutto più complicato, ma se si riesce è una risorsa. 


Anche perché:  se il mondo economico ha già le giuste risposte ed il modo giusto di fare le cose, e noi non dobbiamo fare altro che adeguarci e copiare dal profit, quale è la specificità che portiamo come terzo settore? 


Una volta c’erano matrici culturali e politiche chiare che producevano stili associativi omogenei. Oggi è più abituale che chi arriva non condivida in automatico le culture e gli stili associativi di chi è già presente. E chiedere a tutti semplicemente di adeguarsi ad una matrice (spesso implicita) non è accogliere. 


(...) La presidente di una delle associazioni che ho studiato diceva: lo stile che pratico dipende dagli obiettivi che agisco. In una certa misura è vero. E’ vero nella misura in cui scelgo le parole che uso, in base a ciò che voglio dire. Ma è anche vero che noi siamo parlati dal linguaggio. Il linguaggio predefinisce una serie di possibilità che esploriamo. Io scelgo le parole che usiamo. Ma è ancora più vero che io sono praticato dallo stile con cui partecipo. Pensate al linguaggio. Spesso si dice che gli eschimesi hanno 7 parole per indicare la neve. Noi ne abbiamo una e ci basta. Non c’è una traducibilità diretta tra ciò che puoi dire con 7 parole e ciò che puoi dire con 1. Il linguaggio predefinisce una serie di possibilità. 


Io sono di origine calabrese. Con mia madre parlo spesso in calabrese. In calabrese posso dire cose che in italiano non posso dire. Noi siamo parlati dal linguaggio. Io ho una parte consapevole, in cui sfrutto le possibilità che il linguaggio offre. Ma posso farlo all’interno delle scelte che il linguaggio mi offre e all’interno delle scelte che io conosco. 


Dopo di che, si, non tutti gli stili sono uguali. Non tutti gli stili consentono di sviluppare riflessività e consapevolezza. Lo stile è il terreno implicito su cui costruiamo la nostra relazione. Lo stile è ciò che è dato per scontato. Lo stile militante non permette riflessività e problematizzazione sul tema. C’è un nucleo centrale su cui la riflessività ci deve andare piano. Provate ad andare in un centro sociale, ad una riunione su come organizzare una manifestazione per gli immigrati. Si potrà discutere e problematizzare se lo strumento corteo o occupazione è adatto allo scopo, forse. Ma se si provasse a problematizzare sulle base: se qualcuno dicesse: si, ma scusate, perché dovremmo difendere gli immigrati? Questo non sarebbe accolto in quel contesto. 


(...) Per imparare ad avere a che fare con la diversità bisogna allenarsi. Siamo tutti istintivamente etnocentrici. Automaticamente la diversità si presenta in modo non tanto piacevole. Come una scocciatura, una irritazione. Spesso la diversità è bella teoricamente, ma riuscire a trasformarla in risorsa è tutt’altro che automatico. 


(...) La democrazia in America, Toqueville. E’ un nobile che ad inizio 800 va negli Usa e si trova d i fronte ad uno stile associativo completamente diverso da quello che conosceva nella vecchia Europa. Lui conosceva la militanza. Da noi ci si associa come un battaglione si compatta, ci si conta e ci si anima per marciare uniti. Negli Usa ci si associa per costruire le cose. Ci si associa sulla base di un progetto comune, non di un nemico, ma sulla base di qualcosa che facciamo insieme… fai una battaglia o costruisci una infrastruttura? E’ il principio anche del commenti organizing. 


(...) Un po’ di alfabetizzazione sul conflitto è utile. Ad esempio è utile avere presente che il conflitto non è la violenza. Il conflitto è l’opposto della violenza. Il conflitto è una struttura relazionale articolata attorno ad una divergenza. Se io la vivo in modo violento è terrorismo, la soluzione è annientare o danneggiare l’altro. Se io so che abbiamo un problema, so che questo problema ci lega nel conflitto. Il problema non coincide con la controparte. Quindi il mio obiettivo non è distruggere la controparte, è risolvere il problema. Conflitto e violenza sono due ambiti diversi. Sapere che non coincidono è una alfabetizzazione utile. Non è patrimonio comune questo tipo di distinzione. Dare legittimità e spazio al conflitto, sapendo che non è necessariamente distruttivo. Non è patrimonio diffuso. In genere si ha paura del conflitto, lo si mette da parte, quello monta e poi esplode in modo distruttivo… 


(...) Ci sono motivi per cui le leggi sono andate a mettere a fuoco il “cosa” fa un associazione e sono andati a conferire lo stutus sulla base di “cosa" fa, 26 lettere etc… ma c’è da ricordare che veniamo da una stagione precedente in cui era l’opposto. Nelle prime leggi su cooperazione e volontariato c’era l’idea che la forma no profit fosse un’idea in sé meritevole di benefici e sgravi fiscali. Poi, anche dal punto di vista della ricerca sociologia, abbiamo iniziato a puntare il dito sul fatto che la forma organizzativa non è garanzia di niente. Questo, insieme ad esperienze di abusi fatti nella forma organizzativa no profit (in particolare cooperative ma non solo.)… Insieme ad attività commerciali che utilizzavano la forma organizzativa no profit solo per convenienza… tutto questo, insieme a scandali, ha spinto il legislatore a normare in modo diverso, anche sulla base di ondata emotiva.


Così dal guardare alla forma organizzativa si è passati al guardare al cosa e al definire in modo vincolante il come. Ma nella prima fase la forma era concepita unicamente nel senso della forma giuridica. Io parlo di forme culturali. Pare come se non ci sia alternativa tra guardare la forma giuridica e guardare i contenuti. In un approccio che è piuttosto pericoloso. E’ il cosa fari che qualifica? O dipende da come te ne occupi. E questo non coincide con la forma organizzativa e giuridica. Tutta questa attenzione a contenuti sta diventando la normalità. Come se la specificità del terzo settore fosse carta straccia e non esistesse più..


Il problema di fondo che vedo e che ha a che fare con l prendersi sul serio è l’autocentratura. Il partire da sé e fermarsi a sè. E vari gradi di rigidità. Ho visto alcune associazioni anche professionalizzate, con dipendenti, che sperimentano vari stili e questo gli consente di restare molto radicati nel territorio. Non è da tutti. Quando si hanno servizi da organizzare è facile trincerarsi in criteri burocratici e nelle procedure. Invece ho visto associazioni che era no consapevoli del rischio di irrigidimento e che provavano a sperimentare vari stili. 



(appunti presi in diretta e non rivisti dall'autore durante l'incontro del 15 marzo in Acli Nazionali) 







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