Per ripercorre quali sono i grandi punti di forza della ricerca sull’Associazionismo abbiamo bisogno di una visione attraverso il tempo.
La prima ondata è stata di chi ha guardato al rapporto tra l’associarsi e la politica. Il fuoco importante di questo sguardo, in una stagione molto lontana, negli anni 50, in Italia e come in Europa, è stato quello di chiedersi che rapporto c’era tra associazionismo e mondo del comportamento politico, mondo dei partiti. Diciamo che è stata una stagione importantissima, che continua ancora adesso, importantissima, con il rischio che alla fine in realtà volevamo capire la dinamica del sistema politico e, per capirla meglio, guardavamo alle relazioni tra associazioni e sistema politico.
La seconda ondata ha guardato alla socializzazione delle classi dirigenti. Ha guardato all’associazionismo per capire se e come partecipare ad una associazione dava un po’ di esperienza di capacità di gestione, di mediazione, di apprendimento di modelli economici, di mobilitazione, di comprensione più larga. Se dava cose utili per diventare classe dirigente. Cosa importantissima, per vedere tutte le funzioni dell’associazionismo, anche in termini di mobilità ascendente. Ma con il rischio di minorare l’importanza in sé dell’associazionismo, perché in realtà quello che volevamo capire era la dinamica dell’elite.
Una ulteriore ondata è stata quella dell’analisi della composizione interna delle associazioni. Fatta di ricerche molto belle, molto importanti. Per capire, settore per settore, nelle diverse parti di Paese, chi c’è dentro l’associazionismo. Chi c’è in termini di statuto socio-professionale, di genere, di età ed altro. In molti casi quello che interessava capire era la condizione della donna. Cercare di vedere se e come l’associazione diventa luogo di emancipazione femminile o luogo di riproduzione del patriarcato. Oppure ciò che interessava erano i giovani. Oppure gli anziani. Il fratello maggiore di queste ricerche era un soggetto categoriale.
Poi c’è stata anche la stagione dello studio degli spin off. Lo studio di ciò che organizzativamente nasce dall’associazionismo. Una stagione in cui si cercava di capire bene se e come l’associarsi porta alla creazione di altri soggetti, considerati importanti perché produttivi, perché capaci di dare lavoro, di rispondere in logica di servizio, di fare mutualismo in larga scala…
Questa stagione è andata di pari passo al cercare di studiare il professionalizzarsi. Qui il fratello maggiore era la figura dell’operatore, il fratello minore era il socio volontario. L’analisi è stata importante, non sempre fatta benissimo. Con difficili comparazioni europee, ma con passi avanti negli ultimi anni. Adesso siamo in grado di vedere anche le forme più ibride emergenti, con forme di partecipazione retribuita e partecipazione gratuita che si mescolano. Ma sono ricerche in cui l’obiettivo fondamentale è veder quali sono le matrici di consolidamento delle professioni.
Una stagione più recente, a cui hanno partecipato ottimamente anche molte persone qui presenti, è stata attentissima a tutte le forme di porosità, al confine tra interno ed esterno dell’associarsi. Ha riguardato le domande di chi, spaventato da un certo sviluppo di associazionismo religioso, si chiedeva se le associazioni fossero comunità aperte o chiuse. Se alcune forme di pro-loco locali in contesti periferici non diventassero forme chiuse di riproduzione di notabilato… alla fin fine, quello che volevamo capire realmente, era la comunità locale. Per capire meglio la comunità locale cercavamo di capire se i suoi soggetti stessero su posizioni di legame ponte o di legame interno. Di legami bridging o bonding.
Questa fase è iniziata un po’ nella stessa epoca recente della sesta. Che è stata la sfida per capire i modelli economici e organizzativi dell’associarsi. A volte con linguaggio di economia aziendale, con forme di equivalenza tra dimensioni monetarie e non. A volte più con linguaggi di interazionismo simbolico. Di fondo quello che volevamo era cercare di capire se e come queste organizzazioni avessero la possibilità di tenere nel tempo, di stabilizzarsi e di riprodursi.
Perché vi ho raccontato queste cose (note e stranote) con questa impostazione da lista della spesa? Se le passiamo in rassegna vediamo che sono tutti studi che, giustamente, studiano una cosa per capirne un’altra. Studi in cui è diventato molto importante cercare di capire cosa succede dentro le associazioni, per vedere gli effetti, gli esiti, fuori dalle associazioni. Si partiva dal dentro, per vedere quello che stava fuori.
Io credo che, in questo quadro, ci siano alcune cose che sono restate poco esplorate e che si vede che sono deboli nell’esplorazione dal modo in cui ne parliamo e dal modo con cui riusciamo ad immaginare alternative o aspetti operativi.
Ci sono cosette che si potrebbero, in prospettiva, studiare nei prossimi anni. Vale la regola di Dickens: 15 anni fa abbiamo studiato cose che oggi sono di attualità politica. Le cose che possiamo pensare e studiare adesso troveranno le loro forme tra 15 anni. Se sono cose stupide scompariranno “non c’è spazio per l’irrilevanza nello spazio pubblico”. Se sono sensate lo vedremo tra 15 anni.
Siccome per capire una cosa ne abbiamo studiata un’altra, abbiamo enfatizzato molto tutti i lati strumentali dell’associazionismo. Questo si è consolidato anche in funzione di protezione dell’associazionismo. O, all’opposto, in funzione di chi voleva far vedere che i buoni fanno brutte cose. Il problema, in tutto questo, è che abbiamo completamente sottovalutato la dimensione espressiva, il piacere, la gioia, la festa, lo stare insieme in quanto tale.
Una delle cose rimasta sullo sfondo è tutta la questione che ruota attorno alla gratuità. E’ stata presa un po’ troppo solo sulla dimensione monetaria che è eccessivamente riduttivo rispetto a ciò che queste organizzazioni associative fanno. Gratuità non riguarda solo usare lavoro gratuito. È produrre, fuori di sé, contesti di gratuità. Questa cosa qui non è stata tanto studiata. Tutti quelli che hanno studiato queste cose sanno che queste sono fondamentali. Ma se vediamo cosa abbiamo scritto, non ne abbiamo scritto. Io non ne ho scritto.
Possiamo riprendere e tornare sulle nostre mancanze e sulla questione della convivialità. La convivialità è un concetto sempre usato, ma un po’ dimenticato, che è costruito su due assi:
- L’asse dell’espressione, della festa, dello stare insieme (di cui parlava prima Ivo).
- L’asse del demercificare. Che non è sinonimo di gratuità solo nel senso di non pagato, ma anche nel senso di produrre le condizioni per demercificare (decommodify).
Prendere cose che oggi sono merci e demercificarle, toglierle dallo spazio della merce. Indipendentemente da come questo si produca. Dal fatto che dietro ci sia un lavoro volontariato, un lavoro ibrido, una militanza conflittuale… Lo sforzo che sta in un’azione di convivialità è interessante. Non è interessante solo perché c’è una festa. E’ interessante perché è una festa che non è solo festa. La festa demercifica la socialità. E’ uno stare insieme che non è solo stare insieme. E’ uno stare insieme che ci permette di stare insieme senza che sia lo scambio mercificato a costruire le logiche del nostro stare insieme. Potremmo studiarla bene la griglia per osservare questo. Una griglia che pensa l’espressività come palestra di box popolare in una periferia o come luogo di aggregazione per anziani o molto altro…
Possiamo studiare come l’associazionismo è visto dalla politica. Non come l’associazionismo vede la politica. Come è visto da. Non sappiamo tantissimo di questo. Possiamo cercare di capire come le città guardano le associazioni. Cosa vuol dire operativamente? Da un lato vuol dire guardare come la classe dirigente politica e gli esecutivi e le minoranze parlano e hanno rappresentazioni dell’associazionismo. Dall’altro lato guardando qualche elemento culturale implicito delle politiche agite che finanziamo.
Su questo ci sono risultati che sono preliminari ma importanti. Ci sono delle città, per esempio Lione, Berlino e Lisbona, che vedono l’associazionismo come qualcosa di fragile che l’intensificazione dei ritmi di vita tende a soffocare. Guardano alle associazioni come soggetti vulnerabili. Ovviamente a questo sono associati strumenti che servono a ridurre il tempo del lavorio democratico nelle associazioni.
Ci sono città (Mannhaim e Porto ma anche Parigi) che guardano a ciò che è debordante. Guardano alle associazione come qualcosa che fa della convivialità, che sono qui, poi là, che hanno bisogno di spazi sempre diversi, che sono un po’ in competizione, non solo con i media sociali, ma anche con le automobili. Per cui pensano e cercano di stabilire delle politiche tutte attente a lasciar debordare. Per esempio a Porto un sabato si e uno no, le vie sono pedonalizzate e le associazioni vanno in strada. Ci sono strumenti per fare si che le associazioni di genitori possano avere spazi sulla strada davanti alle scuole… una marea di fantasie e modalità di urbanismo transitorio pensato per lasciare debordare. A volte prende un lato intellettuale di teatro di strada, altre volte è grande mangiata in cui ciascuno porta il suo.
Ci sono città che pensano che le associazioni siano luoghi ibridi e quindi, siccome sono ibridi, sono sempre a rischio sulla tenuta. Amsterdam, Stoccolma fanno contratti di occupazione precaria con soggetti che sono anche in condizioni più smandrappate che in Italia. L’idea è che se le associazioni sono ibride, non si possono fare patti completi. Si possono fare anche a partire dalla non completezza.
Cosa mi interessa di questo ragionamento? A me interessa stressare 2-3 elementi. Nel momento in cui ci poniamo la domanda su come le città guardano alle associazioni, ci poniamo la domanda di se ci sono città che riconoscono il carattere conviviale dell’associarsi, non stiamo facendo una operazione buonista di re-ideologizzazione. Stiamo cercando di capire se e quanto (e a che condizioni) le città guardano in questi termini alle associazioni per ragioni di clientelismo (di ritorno di tipo elettorale). O se invece hanno sempre le loro gerarchie (sinistra/destra) con una ambizione di recuperare consenso sostenendo luoghi di aggregazione e di protagonismo della società civile.