Come facciamo? Facciamo fatica! - Roberta Vincini - Agesci


Grazie per l’invito e per avere pensato questo momento. Ci si incontra e ci si scopre anche con passati e presenti comuni. Ci stavo pensando un attimo fa, ciascuno ha le sue appartenenze multiple. Anche io: sono genitore, sono stata volontaria all’Avis, sono stata insegnante, sono preside, sono caposcout… a tenere insieme tutti i pezzi, lo impari in casa, in famiglia.  

Io sono preside, è il quarto anno che sono preside, ho avuto la fortuna di essere diventata preside l’anno del covid. Prima ho fatto per 4 anni la maestra, per 9 anni la professoressa alle medie, poi in un istituto professionale, oltre a essere un capo scout da quando avevo 20anni. Ho incrociato tante persone, tanti ragazzi, tanti genitori, alcuni me li sono ritrovata in più momenti e in più ruoli… 
 
E’ Interessante il punto di vista che state ponendo oggi. Il mettersi “in ascolto delle famiglie”. Come sono le famiglie che incontriamo? 

Le famiglie che incontriamo sono le più diverse. Famiglie con due genitori, famiglie allargate, famiglie monogenitoriali, famiglie che si sono separate e ricomposte in nuove forme, famiglie che non vivono con i figli, che stanno in comunità e genitori e figli si incontrano solo in momenti protetti, famiglie di single… Tutte queste sono famiglie. Sono famiglie? Le consideriamo tali? Sono domande che dobbiamo porci. Io sono sposata da 31 anni, mio marito sostiene che il matrimonio con me è per lui una grande via di redenzione (ed io penso altrettanto) ma oggi se vogliamo metterci in ascolto delle famiglie non possiamo non porci questa domanda: gli occhiali che usiamo ci consentono di vedere e di leggere tutte le tipologie di famiglie? Tutte hanno qualcosa in comune, ciascuna ha una sua specificità che va incontrata, siamo in grado di farlo? 

Tutte hanno in comune il fatto di avere figli. Ma questo dipende dal mio osservatorio. Come capo scout, come preside, io incontro le famiglie perché incontro i ragazzi. Non tutte le famiglie hanno figli, ma tutte le famiglie che io incontro hanno figli. Il punto da cui osservo connota ciò che vedo. 

Un aspetto, esploso con la pandemia ma già iniziato a diffondersi prima, è che spesso anche nelle famiglie le relazioni vanno verso un processo di digitalizzazione e ibridazione. Tutti vivono l’onlife (on line e in presenza, assieme). L’esperienza dei social è un pezzo di vita anche familiare. Un genitore deve porsi il tema di come stare anche su quel pezzo, così come deve farlo un educatore, un insegnante, un dirigente scolastico. Io ho una chat con i ragazzi del consiglio di istituto. Se voglio collaborare con loro devo anche mettermi in uscita e devo stare anche nei loro tempi e nei luoghi che loro abitano. Ma non solo il dirigente scolastico. Anche le famiglie. Le famiglie si parlano tanto attraverso le chat. I genitori si scambiano le informazioni, si tengono aggiornati, si confrontano e alleano sulle decisioni da prendere. Genitori e figli si parlano (magari i genitori di più, i figli un po’ a monosillabi…) in chat. E’ quotidianità per tutti. La relazione, anche famigliare, oggi è ibridata tra presenza e digitale, per tutti. Non c’è luogo, anche degli affetti, che non abbia una parte anche digitale. 

In alcune famiglie (non così rare) non si mangia più insieme. O comunque mangiare assieme è diventata l’eccezione, la festa, l’occasione. Nella quotidianità ciascuno mangia nella sua stanza o si mangia a turni. Magari si inizia perché gli orari sono diversi. Poi si continua perché diventa abitudine, diventa normale. Non è una cosa rara. E’ una lettura che ormai mi arriva con una certa frequenza. Prima si diceva che la famiglia è importante perché lì si apprende come stare con gli altri. Non è detto che tutto ciò che si apprende in famiglia sia solo positivo. E non è detto che l’immaginario di famiglia che abbiamo corrisponda a ciò che è realmente oggi più frequente. Ma il nostro compito non è giudicare, non è demonizzare. Il nostro compito è saper leggere e, a partire da quello che c’è, provare a costruire una strada comune verso il bene ultimo, che è, per tutti, la felicità. 

Un altro aspetto, sempre più evidente, è l’incertezza. Per le situazioni economiche, per le situazioni lavorative instabili, per ciò che accade… La preoccupazione è compagna quotidiana. Sono poche le certezze a cui aggrapparsi. Questo continuo essere esposti all’incertezza porta con sé il sentirsi inadeguati. Io faccio la preside in un liceo ed ai ragazzi viene proposto di andare in stage all’estero. I genitori si massacrano per mandare i figli all’estero in stage. Non c’è più una divisione netta tra a chi arriva e non arriva questa proposta. La proposta arriva a tutti e non essere in grado di offrire le opportunità al figlio è il cruccio dei genitori. Anche se magari a casa non c’è nemmeno un tavolo comune per studiare. Se non ci sono stanze per ognuno… La domanda che possiamo porci, di fronte a questo è: come si può essere solidali nel condividere queste preoccupazioni? Come si può costruire risposte comuni? Come sentirsi interpellati dalle situazioni? 

Ciò nonostante, tutte le ricerche sottolineano che il desiderio di famiglia ancora tiene. Gli amici dei miei figli convivono tutti. Uno si fa domande e si interroga: non si sposano per come hanno visto la vita da sposati dei genitori? I miei figli si sposeranno dopo aver visto noi? Ma in realtà, magari lo chiamano con un altro nome, magari danno forme un po’ diverse, ma il desiderio di unirsi a qualcuno in un progetto comune c’è. Anche il desiderio del per sempre (con tutte le paure del caso) c’è.  La sfida come adulti è non andare in crisi noi, per come sono loro e per le scelte che fanno. La sfida è aiutare questo desiderio perché possa trovare il modo di realizzarsi e perché non ci sia un chiudersi in sé, ma ci sia un imparare a condividere le difficoltà che possono nascere e che ci possono essere.

Il problema grosso oggi è la solitudine. Non solo la solitudine di chi è solo. La solitudine nelle famiglie. Negli appartamenti grandi, ognuno vive nella sua stanza, non ci si parla, non si fanno le cose insieme. Ci si scrive e ci si incrocia.  Durante la pandemia questo è diventato esplosivo. Perché c’era lezione, c’erano gli orari, c’era l’obbligo di stare tutti in casa e non potendo uscire i ragazzi si rintanavano. Ma già prima la dinamica si era avviata così. Qualche anno fa quando c’erano colleghe che mi dicevano che i figli per chiedere le cose dal piano di sopra scrivevano non ci credevo. Adesso ci credo, lo vedo, lo vivo… Oggi c’è l’attesa di capirsi, in famiglia. Anche tra genitori e figli. Anche in adolescenza. 

Mi ero scritta tre pagine. Ma il senso di ciò che avevo scritto è che una delle difficoltà più grosse delle famiglie con i figli è come stare nel proprio compito di genitori rispetto ai figli. Come stare nel proprio compito di famiglia affettiva e famiglia normativa. Quali regole porre e come accompagnare. Come tenere assieme queste due polarità. Lo sbilanciamento di un tempo della famiglia era sulla dimensione normativa. Pongo le regole, resto distante, nel mio ruolo. Oggi lo spostamento è sulla dimensione affettiva. La preoccupazione che i propri figli abbiano il meglio, che siano compresi, che tutti li possano ascoltare è fortissima. Offrire i riferimenti necessari perché un bambino capisca via via della sua vita e possa scegliere tra il bene e il male è un compito difficile, oggi più di ieri. E’ un compito che oggi mette veramente in crisi le famiglie. 

La preoccupazione per i figli, perché abbiano il meglio, è accompagnato da un bisogno di controllo fortissimo che si allea con la possibilità che gli strumenti ci danno. Un figlio che è in gita con la scuola, deve poter portare il cellulare, deve poter aggiornare il genitore in diretta. Il che si accompagna con una enorme fatica nel dire cosa è bene e cosa è male e di portare le decisioni fino in fondo. Se le famiglie decidono delle regole, poi fanno una fatica enorme nel tenere quella decisione. Se anche dico no, poi non ho la capacità e la solidità per portare fino in fondo quel no. Di fronte al conflitto, anche se ad un livello molto basso, cedo. Desidero talmente tanto il meglio per mio figlio che finisco per iper proteggerlo e vedo il mondo di oggi talmente cambiato da come era il mondo in cui sono cresciuto io, che dubito delle mie convinzioni, prima ancora che ne dubitino loro. Ho l’ansia che per un mio no, magari sbagliato, mio figlio possa essere diverso dagli altri, possa perdere un’opportunità, possa non venire compreso. Quello che notiamo, come capi e come insegnanti, è che i genitori non sono in grado o comunque fanno una enorme fatica a contenere le normali ansie dei figli, in particolare dei figli adolescenti. Quindi diventano parte delle ansie dei figli, al punto che gli adolescenti non hanno più il coraggio di essere adolescenti veramente ribelli, perché vedono i genitori così fragili, che non possono svolgere il loro percorso abituale di adolescenti ribelli, per timore di mandarli in crisi. Gli adolescenti, così, però, non confliggendo e non ribellandosi per crescere o non trovando contenimento alla loro ribellione, come crescono? 

Così vuol dire che non c’è spazio per sbagliare, non c’è spazio per essere diversi dagli altri, non c’è spazio per ciò che non è previsto e controllabile. Non dico che tutte le famiglie siano così.  Ma dico che queste sono tendenze generali ed anche le famiglie più solide sono prese in mezzo in queste difficoltà. Le famiglie più solide provano a dare un argine ma si interrogano tantissimo sul dove porre questo argine, sulla giustezza delle proprie decisioni, sulla responsabilità che un eventuale loro errore da genitore può portare come conseguenza al figlio. 

In tutto questo, la scuola? La scuola in tanti aspetti va a potenziare queste difficoltà. Perché spesso richiede la prestazione, richiede di essere sempre al top, richiede di non andare fuori dal seminato, non valorizza il pensiero divergente. La scuola spesso crea ulteriore ansia alle famiglie e quindi ai ragazzi.  

Cosa possiamo fare? 
Come Agesci la proposta che facciamo alle famiglie è fare un percorso perché i loro figli crescano come persone autonome, capaci di pensare e di scegliere. Scegliere è difficile, perché se scelgo una cosa, vuol dire che faccio a meno di fare altro, che rinuncio ad altro. Fare scelte oggi è una cosa difficilissima. Noi proviamo ad educare a fare scelte. E mentre tutti sono in ansia e gli sembra di non riuscire a sopravvivere in mezzo a mille cose, noi proviamo ad educare a scegliere di mettersi a disposizione degli altri. Non per altruismo o per follia. Ma (oltre che perché Qualcuno l’ha fatto e detto tanto tempo fa) perché siamo convinti che questo dia felicità. 

Come facciamo?
Facciamo fatica. Niente viene facile. Ma ci sono passaggi che tutti i gruppi di capi che lavorano con i bambini di un territorio passano nel rapporto con i genitori. Da un iniziale rapporto di informazione: ti racconto cosa faccio, ti tengo aggiornato, passano piano piano a cercare di coinvolgerti. Con attività, momenti di festa, momenti di incontro… Entro in relazione.  Il passaggio successivo è coinvolgerti nel progetto educativo. Non è più solo il mio progetto educativo, è il progetto educativo che ti propongo per i tuoi figli e su cui ti propongo di coinvolgerti, per i tuoi figli o per i figli degli altri. Ti offro un’occasione di metterti anche tu a servizio. Ti offro la possibilità di fare un’esperienza, ti offro di stare in relazione. Perché si impara solo attraverso esperienza e relazione. 

Al di là delle singole cose, delle singole proposte, delle singole attività… (può essere una torta, un accompagnamento, un lavoro di costruzione….) innanzitutto ti propongo di incontraci e di entrare in relazione. Ed è lì la vera fatica, anche per noi, non è nel fare le cose. E’ nel saper stare in relazione con gli altri, che non sono mai esattamente come io li vorrei. 

E come scuola? 
La normativa scolastica è molto bella. Dagli organi collegiali (del 1974) all’autonomia… c’è la possibilità di una offerta formativa dove sono coinvolti anche i ragazzi e le famiglie. Molti di noi hanno costruito patti di comunità con i territori, con le amministrazioni e con gli enti del terzo settore. Sempre più la strada sarà andare in questa direzione. Costruire patti in cui stare insieme.

Parliamo sempre di reti, ma a me piace di più parlare di alleanze. Perché la rete è un oggetto freddo e inanimato. Nell’alleanza c’è un tu ed un io che insieme diventano un noi e che insieme vanno in una direzione. 

(appunti presi in diretta e non rivisti dagli autori dell'intervento al seminario "In ascolto delle famiglie" promosso dalla delega Famiglie e stili di vita delle Acli Nazionali). 

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