Popolo: soggetto collettivo da costruire


Il punto di partenza è sempre il popolo. Soggetto collettivo da costruire. Credo l’azione delle Acli debba collocarsi lì, perché è il nostro posto, da associazione popolare e perché lì, oggi, è l’urgenza sociale.

Popolo in dimensione nazionale, perchè, a fronte della diminuzione di rilevanza internazionale cui il paese andrà incontro e della crisi economica e sociale che attraverseremo, il tenersi assieme sarà uno sforzo che avrà bisogno di tutti e non potrà essere dato per scontato.

Popolo in dimensione locale, cioè comunità, perché la dimensione nazionale non è una somma di singole persone, ma l’intreccio (non facile) di connessioni tra comunità locali. Comunità che sono abitate da gruppi e culture diverse, che spesso procedono in parallelo senza incontrarsi o in conflitto tra loro. Comunitá che però hanno in comune un territorio ed una storia ed hanno bisogno di ridefinire assieme un progetto ed un sogno collettivo sul futuro.

Una esperienza di questo periodo sono stati gli esercizi di futuro, con la “Mappa celeste” e con “Su la testa”, il percorso Acli con la cooperazione sociale. Non il tentativo di indovinare ciò che verrà. Un modo di allenarsi al pensiero strategico complesso che serve a muoversi nella complessità e precarietà e velocità di oggi. Si fa fatica a pensare davvero al futuro, quando nulla è certo (siamo diventati abilissimi nel riformulare i piani, in questo periodo). Si fa fatica ad uscire dal vincolo dell’oggi, ma è necessario. Proiettarsi nel domani (soprattutto nel domani non immediato) ci serve ad acquisire la consapevolezza che non esiste il futuro, esistono i futuri. Quelli possibili, quelli probabili, quelli auspicabili. Capire cosa è per noi desiderabile è meno facile di quanto potremmo pensare, ma è la precondizione necessaria per ricostruire, a ritroso, i passi necessari dal fare oggi. E lavorare su più scenari è indispensabile. Senza la sicurezza di raggiungere l’obiettivo e con la certezza che il percorso non sarà una linea retta, ma con la consapevolezza della direzione verso cui andare.

In questi anni abbiamo iniziato ad investire in animazione di comunità. Semplificando potremmo dire che animazione di comunità vuol dire avviare processi di partecipazione, che restituiscano il potere, partendo non dall’astratto ma da quel che c’è. Per farlo è indispensabile riuscire a vedere quel che c’è. Ma è ancora più indispensabile modificare il nostro modo di pensare e leggere la realtà. Cioè, in fondo, iniziare a pensare la realtà in modo comunitario.

Secondo il pensiero lineare dopo A viene B, dopo B viene C. Secondo il pensiero sistemico A è causa di B, B influisce su C, C influisce su A. La realtà è interconnessa. Non basta leggere A e poi B. Dopo aver compreso B, è necessario tornare a rileggere A, alla luce delle nuove acquisizioni e così via… Serve pensare quindi in modo ricorsivo e radiante. Perché ciò che si produce a partire da ogni singolo evento non è un altro evento, ma un ventaglio di interazioni che vanno ad influire su altri elementi. Pensare sistemicamente vuol anche dire ridimensionarci e sapere di non essere noi i creatori e motori del tutto. Riconoscere che i sistemi, in fondo, si autoregolano. A noi spetta osservare e scovare dove già esistono meccanismi autoregolanti, magari fragili, assecondarli e promuoverli, spesso con movimenti che sono, a prima occhiata, controintuitivi.

Agire in questa ottica significa, per noi, tenere strettamente connessi azione sociale, impresa e politica. Non c’è alcuna credibilità politica in ciò che dichiariamo, se non mettiamo a frutto una riflessione sull’esperienza che derivi da territorio, azione sociale ed imprenditivitá. E non c’è azione sociale incisiva se dal frutto dell’impegno volontario e di cittadinanza non deriva anche una opera di lotta, denuncia e proposta per cambiare le condizioni. Ma oggi cominciamo a capire che non c’è nemmeno imprenditività economicamente sostenibile se non c’è un’idea di valore comunitario e sociale.

Azione sociale ed impresa non sono mondi diversi. Sono forme diverse per raggiungere gli stessi obiettivi: comunità più coese, maggiore partecipazione, minori disuguaglianze di opportunità, migliore accesso ai diritti, a benessere e ben vivere per tutti. Quindi, qualsiasi sia la forma, tutte hanno valore fortemente politico.

In un welfare in profonda trasformazione non possiamo guardare alle nostre imprese di oggi in base ai servizi che offrono oggi o al modo in cui oggi sono organizzate. Dobbiamo guardarle come soggetti in divenire. Dobbiamo capire come, associazioni ed imprese assieme, possono contribuire a identificare, progettare e promuovere nuovi servizi e nuove risposte. Nascono continuamente nuove povertà e nuovi bisogni, la società si modifica e questo lascia scoperte moltissime parti. Serve attivarsi per il nuovo, servizi da realizzare in proprio, da suggerire al pubblico, da co-progettare mutualmente assieme ai cittadini, su cui attivare fondi privati… Servizi che saranno sempre meno semplici sportelli e sempre più luoghi ed iniziative con modalità di accesso fluida, differenziata, personalizzata e integrata tra presenza ed online.

Per attraversare una trasformazione così profonda credo serva la valorizzazione di tutti i saperi. Non ci basta il sapere giuridico ed amministrativo (che abbiamo, anche a livelli elevati). Servono competenze sociali, formative, imprenditoriali…Anche per questo è imprescindibile fare dialogare le esperienze tra loro: Caf, Patronato, Enaip, cooperazione sociale e associazioni di promozione sociale. Anche per questo sarebbe interessante sviluppare, contemporaneamente, forme di partecipazione dei lavoratori alle imprese e attenzioni alle dimensioni di sostenibilità anche sociale ed ambientale del lavoro che noi stessi promuoviamo.

Per attraversare una trasformazione così profonda serve sicuramente anche coltivare in modo non individuale una profonda dimensione spirituale. Pio Parisi in una intervista con Pino Trotta parla del rapporto tra spirito e struttura. E nel dibattito è già emersa una proposta: riprendere ciò che abbiamo lasciato in sospeso negli anni 90: essere diaconie fraterne per la costruzione di una nuova società (tra l’altro il termine fraterno oggi assume anche un connotato ancora più pieno).

La divisione dei ruoli politici/tecnici (politici solo rappresentativi e tecnici solo competenti) che a tratti è emersa nelle nostre discussioni è una divisione mutuata dalle istituzioni ma non è adatta, a nostro parere, per una realtà ed un tempo come i nostri. Né pensando alla figura dei tecnici come manager, né pensandoli come funzionari. È difficile oggi dire quale scelta sia solo politica o solo tecnica. Esistono infinite tecniche, non una. E molteplici sono i livelli politici. I profili da riscoprire in questa fase mi paiono quello di soci, lavoratori, piccoli (e grandi) imprenditori. Persone che, pur nella differenza di ruolo che specifica compiti e responsabilità, abbiano un mix di identità e competenza. È una generazione da fare crescere e sulla cui formazione investire, anche con contaminazioni esterne e anche per questo può essere prezioso il rapporto con il mondo della cooperazione sociale.

Azione sociale, movimento. Spesso in mente abbiamo ancora il modello anni 50. Un mondo diviso in due, tra don Camillo e Peppone, con una filiera lineare che “al centro” identifica le azioni e le invia, attraverso diverse cinghie di trasmissione, a tutti “i propri” sul campo, secondo una modellizzazione di tipo industriale. Ammesso e non concesso che gli anni 50 fossero come noi li immaginiamo, oggi nell’azione sociale come nel lavoro, i meri esecutori avranno sempre meno spazio. Serviranno invece sempre più “artigiani”. Persone attive, motivate, in grado di leggere la realtà, pensare, agire e con un grande patrimonio di legami interni ed esterni all’associazione. In questo senso il circolo non può essere inteso come “filiale” territoriale di una associazione nazionale, è l’associazione nazionale che deve diventare realmente rete di realtà associative locali.

La rete, la collegialità e la participazione non sono valori solo in base a principi etici o morali. Sono necessità pratiche. Le leadership oggi si logorano in fretta, i cicli si accorciano. In parte è l’inevitabile effetto dei tempi. In parte è perché la complessità è talmente cresciuta che da soli non si riesce proprio a governare. E senza corresponsabilità i fallimenti finiscono per essere riversati sul singolo.

Ma praticare la collegialità e favorire la partecipazione è tutt’altro che facile. Dire democrazia non basta più a definire. Sappiamo che la democrazia non consiste nella conta dei voti tra posizioni precostituite, secondo il principio di maggioranza (anche se dalla dimensione di consenso non si può aristocraticamente prescindere). Sappiamo che non è nemmeno negoziazione tra interessi dati. E’ discussione fondata su argomenti tra tutti i soggetti coinvolti dal tema. Ridare fiato alle democrazia (interna ed esterna) è allora un processo che si fonda su due pilastri: l’uso del confronto argomentato e l’inclusione di tutti gli interessi e i punti di vista che sono toccati dall’oggetto della discussione. Solo questi due aspetti possono consentire di trasformare opinioni ‘grezze’ in valutazioni utili a costruire risposte ai problemi di tipo politico-organizzativo e amministrativo.

Gli organi collegiali riassumono fondamentale importanza, in questo processo, ma necessitano anch’essi di trasformazione. Esiste sempre meno “il momento deliberativo” e “le decisioni assunte una volta per tutte”. Esiste sempre di più la necessità di tavoli di dialogo e cabine di regia che continuativamente accompagnano i processi e che sappiano essere snodi di processi di ascolto e partecipazione ampia. Si esprime in modo confuso e conflittuale, ma ciò che sta accadendo tra governo, regioni, comuni per la gestione della pandemia è un abbozzo di infrastruttura di democrazia (anche se, per ora, lascia fuori eccessivamente il parlamento e altri soggetti sociali). Una democrazia maggiormente deliberativa e partecipata, quindi, non come alternativa alla democrazia rappresentativa, ma come suo approfondimento e sostegno.

Il metodo è importante, ma non è tutto. La democrazia è entrata in crisi per scarsità di partecipazione ed efficacia. Ma è anche entrata in crisi per l’incapacità di arginare lo strapotere delle grandi elite economiche prima e di porsi il problema della gestione di dati e piattaforme digitali poi. Possiamo essere contenti del fatto che Facebook cancelli un post spaccone di Trump sul vaccino. Ma non possiamo non preoccuparci del fatto che tutti gli scambi avvengano su una piattaforma privata, guidata da regole che non trasparenti e di fronte al quale non c’è riconoscimento di alcun limite esterno. La sfida democratica riguarda il comprendere come imporre regole e trasparenza, ma anche, più ampiamente, tenere sempre più conto dell’esistenza di uno spazio non solo fisico di scambio e di convivenza e ideare forme civili e partecipate di abitarlo.

Vale per questo, ma anche per i grandi problemi globali, se manteniamo l’ottica sistemica riconosciamo che la dimensione dei temi è internazionale. E’ quindi necessario pensare anche a soggetti sociali che provino ad agire in questo senso, creando reti e connessioni internazionali. Il covid ci ha aiutato a comprendere la necessità dell’Europa, tutte le sfide che abbiamo davanti ci aiuteranno a comprendere che anche l’Europa non basta.

Post a firma di Emiliano Manfredonia e Paola Villa pubblicato su Acli al Futuro 

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