Come i Balcani ci hanno cambiato


Aprile 2012 
Erri De Luca scrive: Ogni generazione ha la sua città. Noi abbiamo avuto Sarajevo. Io dico. Noi abbiamo avuto i Balcani. Perché quello che è avvenuto negli anni ’90 è stato un movimento che ha costruito una fitta rete di relazioni che partivano da tanti piccoli e sconosciuti posti d’Italia e li legavano a tanti piccoli e sconosciuti posti dei Balcani. Villaggi di Slovenja, Croazia e di Bosnia. I luoghi della guerra. I luoghi dell’accoglienza. I luoghi dei passaggi obbligati nei viaggi. Ognuno di noi ha i suoi. Il mio campo profughi era Smartinska, a Lubiana. E poi Kocevje. Quello di Paolo e Silvio era Novo Mesto. L’altro Paolo era Vic, quelli di Como erano Skofja Loka, quelli di Torino Postumia e Ajdoscina…. E “i miei profughi” erano di Travnik, altri di Kljuc, Krupa, Sapna…
In quel momento in Italia era tempo di Mani Pulite. Di disillusione politica. Era tempo di mafia che uccideva. Eravamo usciti dalla Milano da bere. C’era appena stata la guerra del Golfo che ci aveva riportato la guerra in casa ma sembrava un videogioco notturno. E non c’era internet e le notizie si seguivano stando svegli di notte davanti alla tv. E il pacifismo in Italia era fatto da gente adulta che manifestava con i cartelli per il disarmo. La cooperazione era fatta di ong divise in cattoliche e di sinistra (con una intersezione tra le due parti). Le prima andavano in Africa seguendo le esperienze dei missionari. Le seconde in America Latina appoggiando le lotte di liberazione. L’associazionismo aveva appena scoperto l’economia e l’idea di terzo settore e con Acli e Arci quasi sempre compatte e in prima fila lanciava idee e campagne e iniziative che poi sono diventati stabili.
In questo scenario è scoppiata la guerra nei Balcani. E ha preso avvio quell’esperienza che Langer ha definito di Pacifismo concreto. Il Pacifismo Concreto non era contrapposto ad altri pacifismi. Perché il pacifismo concreto non aveva voglia di stare lì a rivendicare, era per il fare. Ma era diverso. Diverso dal pacifismo dogmatico (oggi si direbbe ideologico, che in parte ancora esiste e resiste) e dal pacifismo tifoso. C’era un po’ di dogma e un po’ di tifo anche in chi andava. Ma diminuiva progressivamente con l’andare.
Oggi diremmo che quello è stato il preludio della cooperazione decentrata. Che è stato un modello di rete. Ma la molla iniziale non è stata la ricerca di un modello o di un’idea. E’ stata l’umanità. E’ il bisogno di non restare fermi a guardare. La necessità di fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Basta che sia utile. E forse no. A volte andava bene anche che non fosse proprio esattamente utile. Bastava che desse la sensazione di essere utile. Basta che placasse il senso di colpa del restare immobile di fronte ad una guerra, ad una tragedia. Bastava che mettesse in relazione con quei luoghi, quei fatti, quelle persone. Questa mi pare sia stata la molla. Individuale, associativa e collettiva. L’umanità.
Poi è venuto l’incontro con l’altro. I luoghi, le storie, la lingua, le strade. Le persone. Una volta fatto “l’incontro” è stato spaesamento. E’ stata impossibilità di tornare alla vita reale e quotidiana del “come prima”. La guerra ci ha colpiti, ha fatto irruzione nelle nostre vite. In parte forse c’era paradossalmente anche il fascino della situazione. Dell’estremo. Della sofferenza. Della morte. Della guerra. In parte c’era il senso di relazione con l’altro che porta alla promessa di fedeltà. Alla necessità di non abbandonare. Quello che è accaduto è che il quotidiano è cambiato. Visto a posteriori quell’esperienza ha prima annientato e poi ri-orientato i percorsi di vita e di studio e di lavoro di ognuno.
Cosa si faceva allora? Un po’ di tutto. Soprattutto si faceva avanti e indietro. Si andava e si portavano pacchi. Si faceva animazione. Si prendevano tanti caffè. Si fumavano sigarette. Si chiacchierava (senza sapere la lingua). Si facevano fotografie. E poi si tornava e si faceva formazione, si cercavano macchine, si leggeva, si studiava, si discuteva, si organizzavano raccolte davanti ai supermercati, si sistemavano magazzini. Si raccontava e si discuteva.
Nel suo apice il nostro specifico “pezzetto” de Un Sorriso per la Bosnia ha raggiunto circa 3000 persone organizzate in 22 comitati locali di gemellaggio. E l’ossatura di quel progetto è il DNA dell’attuale IPSIA.
Associativamente da quell’esperienza sono nate varie idee e acquisizioni:
  • E’ cambiata l’idea di cooperazione. Come IPSIA siamo un esempio (forse il più netto tra quelli che mi vengono in mente) di come la cooperazione sia stata cambiata e contaminata dalla guerra dei Balcani. Perché dopo la cooperazione di guerra fatta di profughi e di azioni di diplomazia popolare c’è stato il post guerra fatto di accompagnamenti ai rientri e di ricostruzione. Ed è stato il momento in cui si è fatto i conti con la necessità anche delle professionalità, senza abbandonare la presenza dei volontari. L’idea di cooperazione che è nata dai Balcani è stata proprio questa. Una società civile entra in relazione. Tramite volontari, cittadini, gente normale. Ma che “usa” singole professionalità quando servono. All’interno di quell’andare e venire che continua a caratterizzare la relazione di cooperazione. Non è mai facile trovare il punto esatto di equilibrio ma siamo sicuri che la direzione sia questa. Quella di una cooperazione di comunità.
  • E’ cambiata l’idea di pacifismo. Questa è stata sicuramente la più dibattuta. E forse non è nemmeno del tutto compiuta. Il sogno di un mondo senza armi e senza eserciti (pacifismo dogmatico) non reggeva il confronto con la realtà sul campo. L’idea che i militari fossero il nemico si è frantumata. Sul campo con i militari ci si parlava. Se ne chiedeva l’aiuto. Si collaborava. In Kosovo nel 99 abbiamo distribuito migliaia e migliaia di stufe a tutti i paesini della zona di Dragas. Ed è stato possibile solo perché i militari (turchi, perché in quella zona erano loro i competenti) hanno messo a disposizione i loro mezzi. E così la nostra jeep rossa guidava una fila di camion su per la montagna. Non sono un’esperta di tecniche militari ma la parte utile della presenza militare non è stata quella legata al bombardamento dall’alto, con mezzi potenti da effetti speciali (come gli F35), giocando ambiguamente sulla posizione collaterale con una delle parti in causa. E nemmeno quella che auto-decide la prospettiva politica e diplomatica. Ma nemmeno quella che “gioca” a imitare la solidarietà e la cooperazione. La parte utile è stata quella della gestione quotidiana sul terreno. Dell’intelligence del governo del territorio. E proprio perché utile è anche quella che è sembrata la più sfornita. Perché i carri armati sono solo simboli nei posti di blocco. E serve maggiormente una formazione sul contesto, un investimento in mezzi da polizia, serve un lavoro capillare e diffuso.
  • E’ cambiata l’idea di diplomazia popolare. Di fronte della guerra quello che è emerso chiaro a tutti è che alla fine l’opzione militare resta troppo spesso e troppo profondamente la sola opzione. Non accompagnata dalla attenzione ai contesti e ai processi. Non accompagnata da un lavoro politico e diplomatico. Senza prospettiva e visione. Senza futuro. Giocata solo sul presente quando non su interessi “altri”.
  • E’ stata scoperta l’idea di Nazioni Unite. “Riformare l’ONU” era ritornello di moda negli anni 90. Oggi sembra che questo non sia più a tema. Non perché il problema è risolto. Ma perché sembra che se ne possa fare a meno. Ognun per sé. O una “coalizione di valorosi”, Invece c’è ancora bisogno di una autorità “sovranazionale”, per la sicurezza collettiva, per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e nella promozione della cooperazione internazionale (come recita la Carta).
  • E’ cambiata l’idea di Europa. Se i Balcani sono stati quello che sono stati è anche causa del fatto che l’Europa non ha saputo giocare un ruolo unitario. Ogni Stato ha giocato la sua posizione, le sue relazioni, i suoi punti di vista. La soluzione (per i Balcani ma ormai anche per noi stessi, sempre più vicini al nostro orlo del baratro) non può essere l’ognun per sé. La soluzione è per tutti l’Europa. Non l’Europa burocratica e tecnocrate che ci appare oggi. Non l’Europa lontana. L’Europa ha bisogno di ritrovare l’anima (come ha detto Jacques Delors, tra i suoi padri fondatori).
  • E’ cambiata l’idea di politica, di democrazia. Ce lo dicevamo spesso allora (quando noi eravamo i giovani delle Acli e le attività erano divise in gruppi, il gruppo di azione politica, fatta prevalentemente dai maschi, e il gruppo di azione sociale, le femmine). Il Sorriso per la Bosnia è stata attività che ha mischiato le carte e i gruppi. E’ stata formazione alla passione politica a partire dal fare. Palestra di democrazia.
La conclusione più chiara è che, sicuramente, la presenza nei Balcani è servita a noi. Per molti aspetti. Resta sempre aperta la domanda, di se e quanto sia servita anche a “loro”. E quanto altro avremmo potuto e dovuto fare per evitare massacri e violenze. Con questo interrogativo dovremo convivere. Ma abbiamo almeno l’obbligo di mettere a frutto quanto i Balcani ci hanno insegnato.

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