Mirsada - Pace Ora - Lorenzo Cantù

Dal Diario di Lorenzo Cantù.

Introduzione di Giambattista Armelloni e Gianni Bottalico: Era l’estate 1993. La guerra nella ex-Jugoslavia infuriava creando morte e miseria. Sarebbe una semplificazione affermare che dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale e con l’istituzione della Comunità Europea, la pace abbia regnato nel vecchio continente. A poche centinaia di chilometri dai nostri confini le cose sono andate tutt’altro che in questo modo, spesso nell’indifferenza del ceto politico e di coloro che ben altro avrebbero potuto fare per evitare la degenerazione del conflitto. In tale contesto prende piede l’idea di una “marcia pacifica di interposizione” (MIR SADA, pace subito) per richiamare ai governanti, ai media e all’opinione pubblica la gravità della situazione e l’importanza di interventi pacificatori: la presenza di tanta gente, di tanti giovani, per far risuonare un chiaro e deciso no alla guerra. Si potrebbe senz’altro parlare di “diplomazia popolare”: laddove i passi ufficiali sembravano bloccati, toccava alla gente dare voce al desiderio di pace di intere nazioni. Una diplomazia popolare che che magari non sarebbe stata in grado di raggiungere obiettivi grandissimi, ma che per molti aspetti appariva come l’unica via– quella appunto della testimonianza – per uscire dallo stallo e fare qualche passo avanti.

Contributo di Giovanni Bianchi: Sarajevo doveva essere la meta finale di un inedito pellegrinaggio di pace. La spinta e la lezione? Quelle suggerite da Martini: “mettersi in mezzo”. Leggere gli uomini invece che i libri. Rischiare la vita là dove altri la rischiano. Faticare con chi fatica. È un atteggiamento propedeutico alla Speranza, che non ha nulla da spartire né con l’ottimismo delle ideologie né con quello delle psicologie.

Contributo di Tommaso Vitale: La politica era velleitaria, autoreferenziale, ripiegata su sé stessa, disattenta a ciò che accadeva fuori dalle frontiere nazionali. La società civile, e il mondo variegato dell’impegno pacifista, non erano velleitari, ma navigavano a vista. Ad ogni modo, nel mondo molteplice dell’impegno per la pace si discuteva apertamente di velleitarismo. Un’etica delle conseguenze, tutta politica, rimaneva forte. C’era tanta testimonianza, tanta ricerca di “coerenza”, ma anche un’enorme urgenza per ottenere cambiamenti palpabili. (...) Sapevamo la nostra inadeguatezza. Cercavamo di percorrere delle strade, non avevamo alcuna bussola per capire se eravamo sulla buona strada. La marcia per la pace Mir Sada è stata parte di questo travaglio. (...)  Era già successo tutto, sul piano sociale. I tempi di vita di lavoratori atipici e le carriere de-standardizzate erano già diventati terribili, affaticando le persone nel profondo. Se ne erano accorti i lavoratori, e chi come Lorenzo ascoltava quotidianamente i lavoratori. Tardavano ad accorgersene le scienze sociali, latitavano i giornalisti. Molte delle esperienze di azione collettiva avevano già perso credibilità, e l’etica veniva sempre più considerata dai cittadini ordinari come un campo per scelte individuali di consumo. Mettersi insieme per fare solidarietà con una pretesa politica non era un comportamento automatico: non lo era mai stato, e in quegli anni agli ideologi faciloni cominciava a sembrare anacronistico. Una cosa come una guerra, poi, con i suoi opachi intrecci di interessi, decisioni, azioni incontrollabili e controllo ferreo delle situazioni faceva tremare la terra sotto i piedi. Cosa fare? Su quale formula provare a influenzare i decisori? Troppo difficile, i più ripiegavano su una delega generica, un onesto stare a galla dichiarando contrarietà morale e impasse politico.

Quando alle Acli pensammo che era arrivato il momento di testimoniare con i nostri corpi una priorità per la pace subito, pensavamo alle tre fedeltà che gli aclisti negli anni hanno cercato di mantenere. Quel periodo ce ne ribadì la necessità. Un’idea alta di politica, luogo democratico di partecipazione in cui contribuire a indirizzare lo sviluppo, correggendo le strutture e i fallimenti dei mercati, con il grande obiettivo di ridurre il linguaggio delle armi, fidandosi del potere di altri mezzi, nonviolenti. La politica per costruire la pace chiede un forte coinvolgimento democratico, che solo una comunicazione diffusa può legittimare. E richiede che le intelligenze politiche e istituzionali si fidino dell’ascolto di piccoli e poveri. Senza scappare quando le cose diventano troppo, troppo difficili.

Il testo del Diario: Mir Sada.- Pace ora



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