Lego Serius Play: sperimentare uno strumento che può essere animativo



La riflessione su" Che tipo di comunicazione utilizzare per attivare un diverso rapporto con la terra" è stata condotta attraverso un laboratorio Lego Serius Play con formatore Giuseppe Dardes. Oltre al contenuto, è quindi stata anche occasione di riflettere su questo strumento.

Lego Serius Play è un metodo di facilitazione ormai abbastanza diffuso che si basa sul principio di "pensare con le mani" e che considera le mani un vero e proprio organo dell'intelligenza. Questo principio è declinato anche nella potenzialità creativa del crafting ossia della capacità di costruire artigianalmente. Si rifa' quindi al costruttivismo e ancora di più al costruzionismo, in base al quale la conoscenza è un processo di acquisizione della capacità di aggregare e disaggregare e governare contenuti, un po' proprio come fossero mattoncini Lego. Il pensiero concreto, in questa chiave, è una competenza da acquisire e da allenare e consiste nel sapere trasferire idee da un livello astratto (formale) ad un livello concreto, consentendo così anche a sé e ad altri manipolazioni e modifiche finalizzate. 

Il libro di Giorgio Beltrami, Lego Serius Play, pensare con le mani edito da Franco Angeli racconta come in una esperienza di presentazione dell'attività si usi suddividere i partecipanti in due gruppi. Al primo gruppo sono affidati 6 mattoncini ed il compito di riprodurre il numero massimo di papere. Il secondo gruppo viene organizzato in base al principio classico di prima progettare (su carta) i modelli e poi realizzare con i mattoncini. Nel tempo dato l'esperienza racconta come il primo gruppo (con il numero fisso e limitato di 6 mattoncini) realizzi spesso più papere e con una variabilità maggiore di modelli del secondo. L'idea di fondo è, appunto, quella che le mani "comprendono" e "pensano" spesso più velocemente del pensiero astratto. 

La decostruzione era stato uno degli elementi fondanti del nostro percorso formativo. Intercettare una modalità di procedere all'inverso ci sembrava una sfida interessante che ci ha portato all'opportunità di sperimentare lo strumento. 

Dall'esperienza con i partecipanti, dopo uno iniziale scetticismo di alcuni ("una cosa bambinesca") è emersa la valutazione che possa essere "un possibile attrezzo che mi porto a casa, nei contesti in cui mi troverò a fare animazione" e che "approfondirò questa questione di usare cose bambinesche per veicolare contenuti seri" che forse riprende il valore della "semplicità".  In particolare sono state esplorate le differenti potenzialità e applicazioni tra strumenti "malleabili" con il pongo, il dipingere o i laboratori artistici di trasformazione e un materiale "rigido" come il lego. Il rapporto con la dimensione temporale (così fortemente connotata nel metodo Lego Serius Play) è stata notata e sottolineata sia come elemento di "ansia" in alcune fasi, che come elemento di "aiuto alla focalizzazione" in altre. 

Dal punto di vista dell'approccio animativo che stiamo andando costruendo ci pare che questo strumento intercetti anche l'idea per cui esistono saperi già presenti e diffusi che non necessitano di essere consegnati ma hanno bisogno di trovare il modo di essere fatti emergere. Una delle parti più interessanti del metodo (anche grazie all'uso di un tempo incalzante e delle domande reciproche, non solo del kit di mattoncini e connessioni) è quello che porta a "fare senza pensare" e poi a cercare di spiegare il perchè di determinati elementi. Segno che esistano dei saperi appresi artigianalmente, di cui noi stessi non siamo consapevoli. E la nostra convinzione è che molti saperi di azione sociale di base oggi siano di questa natura. In questo caso non serve "formare" nel senso tradizionale di "passare un sapere ad altri". Serve animare nel senso di costruire contesti in cui questi saperi possano arrivare ad emersione e connettersi gli uni agli altri. Sia per costruire processi più articolati, che per tramandare ciò che altrimenti resta solo patrimonio personale e rischia di andare perso. 

Lego Serius Play è uno dei molteplici strumenti che possono aiutare in questo. 




Agricoltura e giustizia

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Marco Marchetti
Ad Assisi a fine marzo ci sarà The Economy of Francesco. Ci saranno 12 villaggi che parlano di futuro ed economia. Tra gli altri ce ne è uno che è: agricoltura e giustizia. A condurlo ci saranno 3 persone, una di queste è Marco Marchetti. 


Buongiorno, sono Marco Marchetti, sono professore di Agraria all’Università del Molise e agricoltore a tempo perso qui, da una 15ina di anni, cercando di coltivare relazioni di prossimità e di metterci sul solco dell’agricoltura sociale, con successi più o meno grandi, in vari tentativi fatti in passato. Stiamo cercando di mettere a punto dei sistemi che facciano tesoro del patrimonio che abbiamo trovato nel campo, arrivando a vivere qui, 25 anni fa. E adesso cercando di fare una elaborazione teorica che si presti a capire perché facciamo queste cose e provando a raccontarle per allargare il giro di chi ci supporta. Adesso siamo impegnati nella Comunità a Supporto dell’Agricoltura, cosa che ha una notevole dose di ambizione, non pienamente ancora consapevole dei partecipanti. Ma, di base, ci poniamo in una base diversa dal valore di scambio, qui parliamo di valore di uso che la terra ci propone in maniera diretta.

Adesso proviamo a mettere assieme il perché parlare di terra e di agricoltura. L’agricoltura è il rapporto tra l’uomo e la terra, è incontro tra economia e ecologia. Incontro che speriamo sia un abbraccio. Siamo in una società sconnessa dai cicli della vita della natura. Lo stile urbano ci ha sconnesso dai cicli biologici e dai cicli della terra e del cielo. Dal 2012 il 50% della popolazione mondiale vive in città. Dal 2012, per la prima volta, nella storia del pianeta. Nel 2030 il 70% della popolazione vivrà in aree urbane. E le aree urbane sono energivore, idrovore e hanno un grande impatto sul pianeta.

Se pensate a livello massmediatico, questo è ciò che si respira da 2-3 anni. Anche se spesso c’è falsa informazione o c’è una distorsione delle informazioni. Proprio per la nostra mancanza di consapevolezza dei rapporti tra umani e non umani, abbiamo l’incapacità di capire i rapporti di scala dei problemi che affrontiamo. E abbiamo fatica a capire la relazione tra i problemi che affrontiamo e l’efficienza delle soluzioni che proponiamo. In Italia l’agricoltura è malata, sicuramente. L’agricoltura è vittima e carnefice dei cambiamenti climatici. Crema, ad esempio, è luogo baricentro della situazione drammatica delle emissioni di liquami da allevamento. Ma se andiamo su scala planetaria, l’agricoltura italiana è un modello. E’ l’agricoltura che ha il maggiore incremento di prodotti biologici e di maggiore incremento di rapporto diretto con i cittadini. In Italia abbiamo paesaggi che consentono una grandissima diversità. Il sistema agroalimentare in Italia è una eccellenza. E’ vero che l’agricoltura è malata. Ma dobbiamo leggere i rapporti di scala. Non possiamo guardare ai problemi italiani con la visione dei problemi cinesi, arabi e sudamericani. Dobbiamo essere in grado di differenziare i problemi rispetto alla scala in cui li leggiamo. Se parliamo di problemi a livello locale, regionale, nazionale, continentale o mondiale. 

Quali sono i problemi?

L’obiettivo principale che noi riconosciamo all’agricoltura è la produzione di cibo. E la produzione di cibo è uno dei motori dei cambiamenti climatici. 

Si stima che il 25% della produzione di anidride carbonica sia dovuto ad agricolo ed indotto per il processo di produzione del cibo. Ma al tempo stesso l’agricoltura è vittima dei cambiamenti climatici. Noi pensiamo a cosa succederà se nei prossimi giorni arriverà una gelata tardiva, in un anno in cui praticamente nel nostro Paese non c’è stato inverno…

L’agricoltura ha una serie di impatti sui limiti del pianeta, che non sono più soltanto legati al riscaldamento globale. Quello è uno dei problemi che la terra sta vivendo. Altri problemi non li conosciamo con lo stesso dettaglio, ma esistono. In Antartide abbiamo raggiunto 20,7 gradi. E’ una temperatura mai raggiunta prima. A novembre era 18 gradi. Dopo 300 milioni di anni in cui l’anidride carbonica era sempre pari, in un grammo di aria c’erano sempre 315 parti per milione di anidride carbonica, oggi il valore è a 420. E’ processo che sappiamo ma che, nonostante tutte le conferenze, non stiamo riuscendo ad arrestare. Mentre c’è chi dà dei catastrofisti, nel mondo ICPC si comincia a dire che i modelli usati abbiano sottostimato la velocità di surriscaldamento e siamo già ben oltre il 1,5 gradi della Conferenza di Parigi. E’ problema, che abbastanza sappiamo.

L’agricoltura è il principale consumatore di acqua. Uno dei drammi che lega il tema cambiamento climatico alla produzione di cibo (ed il vero rischio per il futuro) è la mancanza di suolo e di acqua. Con questi trend i ghiacchiai spariscono dalle Alpi entro il 2030. Se spariscono i ghiacciai, si modifica tutto il sistema idrico. Dovremo cambiare il modello di idrocultura. 

Inquinamento da nitrati e da fosforo. Inquinamento da plastica. Avete visto le serre, con l’ottica di chi guarda il paesaggio? Il nostro paese è un grandissimo produttore biologico, magari in serra, con retroazioni che hanno grandi contraddizioni al loro interno.

La FAO dice che oggi come oggi, con l’attuale progresso raggiunto, siamo in grado di sfamare 10 miliardi di abitanti sul pianeta. Con quello che già sappiamo oggi. Anche senza le nuove tecniche di miglioramento genetico, senza mettere in campo micro-irrigazione che in gran parte del mondo non si usa ancora. Solo con ciò che oggi c’è già. Senza usare il massimo di innovazione, oggi siamo in grado di sfamare 10 miliardi di abitanti. E sulla terra siamo 7 miliardi. Questo dimostra che il nostro vero problema oggi non è la produzione, è la distribuzione

Negli ultimi 2 anni si è invertito il trend delle persone a rischio di morte per fame. Oggi siamo a 830 milioni di abitanti a rischio fame. E a 2 miliardi di obesi. Da noi, nei paesi industrializzati, non c’è quasi per nulla il rischio di morte per fame. Da noi non ci sono i poveri da una parte e gli obesi dall’altra. Da noi i poveri sono quelli che diventano obesi. Perché mangiano cibo spazzatura. A seconda delle zone, la povertà ha facce diverse. 

Cosa dovremmo fare? Cambiare la dieta. Passare ad una dieta più vegetariana. Non ho detto diventare vegetariani o diventare vegani. Ho detto passare ad una dieta più vegetariana di oggi. E adottare sistemi di agricoltura diversi. E ridurre i consumi, le perdite, gli sprechi. Anche il Green New Deal europeo lo ha confermato: “Occhio che anche nel nostro continente avanzato e del benessere, il 30% del cibo prodotto va sprecato nel percorso dal campo alla tavola”. Quello degli sprechi è un altro fronte in cui abbiamo grandi margini di miglioramento. 

Sul livello globale, c’è una cosa che accomuna tutti i paesi, ed è la sparizione progressiva degli agricoltori. Nei paesi caldi e nei paesi freddi, nei paesi ricchi e nei paesi poveri. Il trend è ovunque di abbandono delle aree rurali, di passaggio da reddito da primario a reddito da secondario o servizi. Magari il servizio è essere il raccoglitore di cartone, ma è servizio ed è in città. La generazione precedente era di contadini, la generazione attuale va in città. E’ un processo inarrestabile. Il nostro Paese è il Paese dei 1000 campanili. Da noi il processo è quello dell’abbandono delle aree interne. Il nostro è il Paese dei 1000 campanili. Oggi noi non rischiamo di accentrare solo in pochissime grandi città. Ma è comunque un trend che vede spostarsi verso la città. Il fenomeno poi si accentua con la riduzione complessiva della popolazione. C’è una urbanizzazione del territorio. A partire dalla urbanizzazione delle cose, dei fondi valle, delle pianure. Ossia delle aree maggiormente coltivabili.  In Italia abbiamo il progressivo ridursi della terra disponibile. Rispetto ad altri Paesi l’Italia ha poca pianura, ha solo il 29% di pianura disponibile. E di questo, il 70% lo usiamo per produrre proteine animali. Cosa resta per l’agricoltura? Qui c’è il nodo, delicatissimo, che riguarda le scelte dei consumatori. 

C’è un articolo sul Corriere dalla Sera di ieri che quantifica le emissioni di gas serra degli allevamenti intensivi. Il carico di emissione di gas serra da allevamento di bovini e suini nella pianura padana con liquami prodotti è equivalente a ciò che sarebbe prodotto da 60 milioni di abitanti. E’ un dato impressionante. Ma proviamo a proiettarlo su scala globale. Perché avere un ordine di grandezza è importante. Noi come italiani mediamente mangiamo tra i 60 e 70 kg pro-capite all’anno di carne. Un cinese mangia circa 23 kg. Uno statunitense mangia in media 170 kg all’anno. Il modello di riferimento delle diete proposte alla società urbana non è la dieta mediterranea. Il modello di riferimento in area urbana è il modello statunitense. La dieta mediterranea, l’agricoltura biologica… sono cose da privilegiati, vengono adottate solo dai ricchi. Nel mondo, non solo in Italia. Teniamo conto delle ripercussioni della catene di relazioni tra le cose. Noi che siamo il Paese dei tanti saperi e delle tante opportunità, dovremmo renderci conto della responsabilità etica come collettività, perché facendolo potremmo fare cose interessanti.

Ci sono una serie di programmi che sono da usare in maniera appropriata nella comunicazione. 821 milioni di persone che sono a rischio di fame, sono le persone per cui c’è l’obiettivo 2 degli Obiettivi del millennio. Che è fame zero. Fame Zero è anche un programma di 15 anni fa di Lula, in Brasile. In 3 anni Bolsonaro ha smontato tutto, riportando l’agricoltura tutta di nuovo sull’industriale. Per la carne da vendere a cinesi, statunitensi e europei. 

Abbiamo una serie di situazioni drammatiche. Ci sono moltissime iniziative e materiali che non girano nei grandi circuiti. 
·      Land Grabbing, il libro, di Stefano Liberti, 
·      I padroni della terra, Il Rapporto FOCSIV sull’accaparramento della terra. 
·      Soyalism. Il film. La soia, senza maledirla, sta diventando un problema. Sta diventando padrona del mondo in senso concreto. Cina, Arabi, Brasile, Usa stanno comprando terra in America latina e in Africa. Comprare la terra vuol dire che gli africani svendono la terra ai cinesi che mettono a cultura la soia e altri prodotti che portano in Cina e altrove. E per l’America latina e l’Africa è un modello di sviluppo del tutto esogeno.
·      De-forestation made in Italy. Il rapport che analizza le responsabilità dell’Italia nella deforestazione altrove. 

Un altro punto è recuperare l’agricoltura contadina in forme nuove. Non possiamo essere irrealisti. Se abbiamo detto che gli agricoltori diminuiscono, non possiamo pensare di fermare un trend mondiale inarrestabile e di invertirlo. Dobbiamo trovare il modo di riprendere in mano l’agricoltura, nonostante questo trend. 

Dobbiamo creare nuove forme di agricoltura contadina, cioè forme di agricoltura praticate dalle persone, con grandi innesti di tecnologia. Con notevoli innesti di tecnologia. Non possiamo pensare di riportare indietro l’agricoltura a quello che era. Possiamo pensare di mandarla avanti a quello che può essere. 

Le colture da esportazione vanno ad aumentare le diseguaglianze. L’agricoltura consentirebbe regimi inclusivi di pratiche economiche. Anche nel nostro paese abbiamo queste contraddizioni. Il Goal 2 del Millennio ci dice che dobbiamo porre fine alla fame.  Da noi abbiamo: una diminuzione di persone in sovrappeso, un aumento di produzione per unità di lavoro per aziende agricole (diminuiscono gli addetti, ma aumenta la resa), un aumento di quota di terreno da coltivazione biologiche sul totale delle coltivazioni. E nello stesso tempo abbiamo un aumento di emissioni clima alteranti. Si pensava che le emissioni si muovessero in connessione con il PIL, invece sono disconnesse. La realtà è più complessa del modello che usiamo per comprenderla. Non siamo in grado di prevedere quasi nulla. 

problemi prioritari quindi sono: 
-       Sparizione della specie “agricoltore” a livello globale
-       Consumo di risorse (acqua e suolo). 

Il nostro è un Paese che ha consumato più suolo degli altri Paesi, in Europa. E siamo il Paese che ha meno pianura. Quindi non solo abbiamo consumato più suolo. Ma l’abbiamo fatto sui terreni migliori per l’agricoltura. Coste, pianure, fondi valle. Il nostro paesaggio è devastato. E’ un problema nostro. Ed è un problema di scala globale. La vera scommessa del futuro non è saper produrre cibo. La vera scommessa per il futuro è avere terra ed acqua per farlo. Anche se diminuiscono gli addetti, la produzione aumenta. Di addetti ne possono bastare anche pochi. Ma serve acqua e terra per coltivare. 

Una novità è anche anche gli architetti cominciano ad occuparsi di questi temi. Anche gli architetti cominciano a vedere che il progetto di edificazione non è l’unica chance per lavorare. Gli urbanisti cominciano a iniziano a dire: dobbiamo rigenerare ciò che abbiamo, senza più costruire nulla da zero. La terra è la prima emergenza su cui lavorare, soprattutto nei paesi sviluppati. Anche la comunità cristiana non è ancora in grado di rendersene conto. Almeno nel nostro paese. 

Qualcuno comincia a capire che acqua, cibo, terra, aria, non sono una merce qualsiasi. Non sono una commodity, sono un bene comune (commons). Commodity e commons hanno stessa radice, ma hanno valore etico opposto. E’ la Laudato Si. Parla di terra, di giardino affidato, da custodire. Sono tutte riflessioni che devono aiutarci a differenziare le merci dai bene comuni. Ci sono le commodity, i commons. E poi ci sono le specialties. Su cui ci torniamo. 

C’è un detto che dice: difficilmente si campa tutta la vita senza avere bisogno del medico e dell’avvocato. Ma noi non siamo affatto consapevoli che 3 volte al giorno abbiamo bisogno di un contadino. Del contadino abbiamo bisogno di più e più spesso che di un medico o di un avvocato. Ma rischiamo di perderne consapevolezza del tutto. 

Caliamo la scala sul nostro paese. Abbiamo consapevolezza del nostro livello di approvvigionamento?
Quali sono le 3 più grandi importazioni dell’Italia (L’Italia, secondo paese manufatturiero di Europa):
-       Petrolio, gas (energia fossile)
-       Legno (80% del fabbisogno di legno)
-       Carne bovina e suina.

Quali sono gli unici 3 prodotti agricoli in cui siamo capaci di auto-approviggionamento? 
-       Pollo e uova
-       Frutta
-       Vino

Esportavamo olio, fino a prima della seconda guerra mondiale. Illuminavamo l’Europa con il nostro olio. Lampante era il nostro olio di oliva che illuminava Londra e Parigi. Oggi abbiamo 1 milione e 200 mila ettari di uliveti, di cui l’80% è in stato di abbandono. Quest’anno avremo meno del 30% del nostro fabbisogno di olio coperto dalla nostra produzione. La raccolta è faticosa e poco meccanizzabile nei nostri terreni. La redditività è bassa. Oggi conviene comprare da altrove. Piuttosto che raccogliere. L’olio che arriva da Algeria, Tunisia, Marocco non è cattivo. Non è di pessima qualità. Ma è tutto uguale. Lì ci sono 2-3 qualità. Da noi ce ne sono 400 di qualità. Io bevo l’olio di mio nonno, dici tu. Di tuo nonno, appunto. Dopo che (lunga vita) non ci sarà più tuo nonno, verrà ancora fatto quell’olio? Abbiamo cooperative di comunità che al sud lavorano sul recupero degli uliveti. In un paese così difficile e costoso per i processi agricoli, poco meccanizzabili, il punto è innestare tanta tecnologia e ritrovare qualcuno disponibile a lavorare in agricoltura. 

Dal dopo guerra ad oggi abbiamo raddoppiato la superficie forestale. Gli insediamenti urbani aumentano. Le foreste crescono. L’agricoltura, nel mezzo, crolla progressivamente di anno in anno. Nel 2018 abbiamo simbolicamente segnato la data in cui, in Italia, le superfici forestali hanno superato i terreni agricoli. Foresta è positiva, dici tu. Ma foresta è terreno agricolo abbandonato. Aumenta la foresta. Aumentano gli animali selvatici, con le rispettive emissioni di ossigeno. Diminuisce l’agricoltura. Io, cittadino urbano, aumento il mio fabbisogno di carne, aumento il mio livello di import di carne e magari creo il prodotto di cui ho bisogno in maniera iniqua in altre parti del mondo. Facendo così non è un vantaggio per nessuno. Con una mossa ho fatto 3 danni. Ho perso la conoscenza di anni di storia, ho perso il valore del mio territorio, ho fatto danni al pianeta e ho fatto danni dove vado a produrre. E’ un sistema lost lost. 

Come comunità scientifica stiamo lavorando ad un manifesto per il paesaggio agrario e forestale
Il paese descritto nei sonetti di Petrarca non c’è più. Restano solo delle tracce. Serve qualcosa di nuovo. Molta tecnologia e recupero di manodopera disponibile. Chiunque voglia farlo, che sia benvenuto. Se no, quando il nonno morirà, l’olio lo compreremo al supermercato. Anche l’olio. Oltre a tutto il resto. 

Proviamo a vedere l’agricoltura nella grande stampa e nei social.  Ognuno prende l’agricoltura e la tira dalla sua parte, mettendoci dentro di tutto: agricoltura eroica, fuori terra, sinergica, itinerante, avanzata, estrattiva, solidale, locale, biologica, organica… non è facile dire di cosa stiamo parlando. Ognuno tira dalla sua parte. Il positivo è che c’è grande fermento. E su questo possiamo contare molto. Perché quando c’è fermento qualcosa emerge. 

Luigino Bruni, su Avvenire di 3 anni fa, ha scritto una cosa: non è possibile che solo ciò che passa per il mercato possa essere considerato di valore, ai fini della qualità della vita. Possibile che ai nostri agricoltori non riusciamo a riconoscere il valore che hanno? Che non è solo valore di produttori di cibo, ma anche di custodi di meraviglie, di presidio del territorio e di custodi del paesaggio? Purtroppo ad oggi il territorio ed il paesaggio fanno parte di utilità che sono considerate solo estetiche e che non vengono valorizzate, perché non passano attraverso il mercato. La CSA (Comunità a supporto dell’Agricoltura) vuole fare questo: vuole riconoscere valore al contadino e all’agricoltura, senza passare dal mercato, puntando al valore d’uso e non al valore del mercato. 

La sfida è pensare all’agricoltura non solo come sistema primario di produzione di cibo, ma riconoscere agli agricoltori altri ruoli. Vuol dire dare riconoscimento sociale all’agricoltura. I contadini oggi sono stati deprivati di un riconoscimento sociale. Per fortuna ora si assiste ad una certa inversione di tendenza: Gas, Gat, Csa… 

Salvaguardare i saperi tradizionali. Salvaguardare la biodiversità (ci sono 10 varietà di olio, tra Spagna e NordAfrica, ce ne sono 400 da noi). La sfida del vino la stiamo vincendo, come facciamo? Valorizziamo il fatto che da noi ci sono 280 vigneti diversi. I francesi più di 20-30 non ne hanno. I francesi fanno un vino meraviglioso. Ma non hanno le potenzialità che abbiano noi. Questo vale per il vino. Ma anche per molto altro. Vale per le mele. Vale per i legumi…

Come si salvaguardano i saperi tradizionali? Sostenendo le specialty. Sostenendo ciò che è distintivo. Pensate a Slow food. Slow Food ha portato questo processo, che lavora sulla distintività, su scala globale. Allora va bene la quinua, ma la quinua di Cuneo, fatta in modo locale, quella che gli ha passato suo nonno. 

Ieri ero a Reggio Calabria, sono arrivati gli inglesi, gli olandesi... Hanno iniziato a comprare. E’ iniziato nel Chianti, sono arrivati in Aspromonte. Quello che mi fa rabbia è che noi chiudiamo le esperienze. Questo è inaccettabile. Ma che arrivino anche inglesi, gli olandesi, se comprano per coltivare e preservare il territorio, va bene. Come si salva l’agricoltura: dignità, riconoscimento sociale e possibilità di sopravvivere. Quindi: giusto prezzo. 

Il pomodoro è un esempio drammatico di questo. Tutti i supermercati, tranne la Coop, fino a 3 anni fa, facevano la doppia asta. Dopo aver fatto il contratto agli agricoltori, selezionavano i grandi gruppi e chiedevano un ulteriore ribasso. Per fortuna questa è una pratica che è stata bloccata 2 anni fa. Questo da noi. A Parma, a Foggia a Caserta… Pensate a cosa possono fare altrove. Inizia qualche esperienza diversa, adesso. Mutti, che è un grande produttore, sta mettendo in piedi un grandissimo consorzio cooperativo, provando a riportare in Italia la produzione che faceva in Cina. Ci sono segnali che possono essere interessanti. 

Sono ragionamenti simili a quelli del Commercio equo e solidale. Che è partito prima, molti anni fa, su basi etiche, non sanitarie o tecniche. Si parlano questi mondi? Non troppo. Un po’ oggi, di fronte alla crisi delle botteghe…

In USA è ancora peggio. Trump ha vinto con i petrolieri, gli evangelici e i produttori agricoli. Ha rimesso i sussidi. Magari il mais finisce sul bio-etanolo. E’ una contraddizione in termini, sussidi per una agricoltura, non per il cibo. Ma Trump ha vinto in quel modo. Con sussidi distorsivi. Se io incentivo la produzione di qualcuno che fa qualcosa solo per convenienza del sussidio, non ho né favorito il libero mercato, né agevolato scelte di tipo ecologico. E’ solo una distorsione. 

Se è vero il trend storico detto, urbanesimo e urbanizzazione inarrestabile, dobbiamo ripensare al rapporto città/campagna. La CSA dice: facciamo cittadini coltivatori. 

Altra cosa su cui non abbiamo consapevolezze. Il Green new deal promette bene, se avranno spazio per lavorare, ci sono 1000 miliardi per i prossimi 7anni. Non solo nell’est Europa. Pare che stia partendo un’idea di prodotti deforestation free. Guardate il doc deforestation made in italy. C’è una responsabilità delle imprese italiane e dei consumatori italiani in ciò che sta avvenendo nei paesi tropicali. Carne bovina, carne suina, legno e pelle per altra moda. Ci sono distorsioni. Ma noi non ce ne accorgiamo. 

Esempio: noi produciamo 40 milioni di prosciutti all’anno. Ma abbiamo 8 milioni di suini. Quanto fa 8 milioni di suini? Fa 16 milioni di prosciutti. Se tutti finiscono in prosciutto.  Da dove vengono gli altri per arrivare a 40 milioni? Vengono da maiali allevati altrove. Soprattutto in Germania (ex est) Polonia e Danimarca. Quale è l’alimentazione principale di questi suini? Al 90% è soia amazzonica. Ma il prosciutto è un prodotto tipico locale italiano, diciamo noi. Si, ma questi non sono maiali italiani. Esempio: Bresaola, il 95% è fatta con zebu amazzonici. Rigamonti, se guardate il sito, è un sito che parla solo di sostenibilità. Ma non ti dice da dove viene la sua carne. E’ il fenomeno del porco pulito. 

I maiali hanno tutti l’etichetta. E’ tutto legale. Tutti hanno un orecchino, con il nome, il produttore. Sono etichettati alla nascita. Ci sono tutti i codici. I percorsi si sanno. La soia parte dall’Amazzonia, l’Amazzonia viene deforestata, vengono mandati via gli indigeni. Il fazendero mette sulla nave la sua soia e questa arriva a Rotterdam, lì in un mangimificio tedesco viene trasformata, arriva a Lipsia, lì ci sono allevamenti intensivi da 70.000 suini l’uno. Fanno maiali a ritmi vertiginosi, in 12 mesi li hanno cresciuti. Li portano a Mantova, Reggio Emilia, Modena. Lì vengono macellati e trasformati in prosciutti. I prosciutti, per più della metà, ripartono e vanno in tutto il mondo. Qualcuno torna in anche in Germania e a San Paolo.

La bresaola: lo zebù parte dalla Amazzonia, da allevamento estensivo, spesso con macellazione illegale (perché arrivano direttamente macellati), poi arriva qui e ricomincia il giro. La bresaola è un caso eclatante. Come per la pelle. All’inizio tanti marchi non volevano nemmeno dare accesso per le informazioni. Per i pellami ci sono 2 distretti: Prato e provincia di Vicenza. Sono posti molto inquinati e inquinanti. All’inizio, quando abbiamo contattato l’associazione dei produttori di pelli ci hanno detto che loro sono molto sostenibili, perché valorizzano un rifiuto speciale. La pelle è un rifiuto speciale. Se ti muore un animale per strada, la pelle deve essere conferite in discarica specializzata. Quindi tecnicamente è vero, loro trattano rifiuti speciali. Ma non volevano farci entrare. Da dove viene? Non interessa. Raccontano che lavorano con coloranti naturali…etc  ma dell’origine primaria di ciò che lavorano non si interessano. 

Marchi: 
-       IGP dice che è un sapere di questo luogo. Che è stato trasformato lì. 
-       DOP e DOC dice che la materia prima è del Paese.

L’agricoltura è malata. Si, ma noi sappiamo fare agricoltura bene e in forme integrate, biologiche e a basso impatto. Dobbiamo evitare oscurantismi reciproci tra biologico e non biologico. Ma lavorare usando la tecnologia, il miglioramento genetico (che non è geneticamente modificato), gli aspetti sociali nuovi. Possiamo mettere tante cose nel modo di fare agricoltura. C’è una agricoltura urbana e periurbana che è un movimento che cresce. Con forme anche diverse. 

L’ultima proposta dell’ENEA è: abbiamo consumato troppo territorio, abbiamo costruito capannoni con la legge Tremonti e magari non li abbiamo usati. A decine di migliaia. Facciamo lì dentro culture igroponiche a ciclo continuo. Vanno di moda. Poi magari usi energia, luce etc… come le vertical farming. Vanno di moda in tante parti di mondo. Si diffonderanno. 

Orti urbani, orti sui terrazzi (che è anche contenimento di calore). Sono tutte nuove forme. Che si
stanno diffondendo. Anche da promuovere. 

Ma l’agricoltura in area urbana, non ha problemi di inquinamento? Dipende dove. Se lo metti su un sito contaminato, si. Ma se parli di polveri sottili quello lo prendi respirando, più che mangiando. 

Val di non, piena di piccoli agricoltori, consorziati, è luogo molto inquinato. Ha inquinamento proprio perché ci sono i piccoli agricoltori?  No, ha inquinamento perché il metodo di coltivazione usato finora è stato inquinante. Come si fa ad insegnare che si deve cambiare? Si punta su qualità e non su quantità. Dopo di che, il disciplinare della Melinda è 1000 volte meglio della Mela fuji della Cina. 
Il disciplinare della Melinda è 10.000 volte meglio del non disciplinare di altrove. Ma in questi giorni stanno facendo un incontro a Malè. Per fare un nuovo disciplinare di produzione. Perché in val di non tutto passa dal consorzio. Il consorzio ti dice: fai questi trattamenti, in questi giorni, e mi dai ciò che hai prodotto, io lo vendo. Io ho tanti amici in val di non che dicono: chi me lo fa fare di mettermi in proprio? Di correre il rischio? 

L’inquinamento di questo tipo è un inquinamento di persone che hanno fatto scelte che non erano contro la legge. Quindi il problema è politico. In Val di Non adesso si stanno accorgendo che non stanno bene, come persone, come cittadini. E sta nascendo il comitato No Melinda. 

E’ più importante il diritto alla salute o il diritto al lavoro (agricolo in questo caso)? Siccome sono conciliabili, dico che metterli in contraddizioni è pericoloso. La politica è quella che deve costruire l’equilibrio tra i due diritti. Non può essere una scelta tra i due.

Vengo da un mese in Sud America. Ho visto cose inenarrabili in agricoltura. In rapporto a ciò che ho visto, il nostro paese ha l’agricoltura più sostenibile del mondo ed è il paese più controllato al mondo. Per questo sappiamo della Val di non, sappiamo dei liquami di Crema, sappiamo della plastica dei pomodori del supermercato che vengono da Ragusa…Ma sappiamo che siamo in un paese che per cultura ed economia deve lavorarci sopra su queste cose. Per diventare un Paese laboratorio di buone pratiche. Deve farlo per cultura, per ambiente e per economia. 

Se il consumatore fosse disposto a pagare di più per un prodotto sostenibile…Questo è quello che dobbiamo fare noi. Essere responsabili di quello che compriamo. Se si mette in etichetta è una scelta. Io possono dire: se non c’è questo e questo, io non lo compro. Sono uno. Siamo due. Aggiornamenti sociali di gennaio. C’è un articolo: Oltre il biologico. Il biologico ha fatto la sua bellissima performance anche in termini educativi. Ma adesso serve andare oltre il biologico. 

Cosa possiamo fare? Restituire valore al cibo e dare il giusto compenso ai produttori. Non solo in Italia per il primario, ma anche per le esternalità che dicevo prima. Presidio territorio e custodia del paesaggio. Senza arrivare al vertical farming, che è tecnocrazia applicata ad agricoltura. Quella è l’idea che basta u grande input energetico e che la terra non serve più… Quello che dobbiamo fare è sostenere le alternative: km 0 vero, gas, csa, cittadini coltivatori… tutto ciò che va in questa direzione…

Comunicare il valore del rapporto con la terra

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Nella sede di Semi di Comunità, dopo aver ascoltato la lezione di Marco Marchetti su Agricoltura e Giustizia, dopo aver visitato il campo e sentito il racconto dell'esperienza della CSA con Saverio, dopo aver mangiato assieme nella grande sala con camino, abbiamo dedicato il pomeriggio ad una attività diversa lavorando attorno all'attivazione di processi di sviluppo di comunità a partire dall'agricoltura. Domandandoci: come sensibilizzare all'importanza del legame con la terra? 
Dardes: Quello che vi chiedo di fare ora, è costruire un modello, con gli elementi dei Lego che abbiamo, che rappresenti il tuo valore rispetto al rapporto con la terra. Quale è il valore che hai nel rapporto con la terra? Il valore che hai perché l’hai maturato con la vita. Il valore che hai perché questa mattina ti ha permesso di ripensare… In 5 minuti... 
Dardes: Adesso, a partire dai vostri modelli, vi chiedo di costruire un modello condiviso di comunicazione dell’importanza del rapporto con la terra. 
I gruppi presentano il modelli (fisicamente realizzati) e li illustrano: 
Gruppo 1: 
-       Comunicazione del valore della terra (prato verde)
-       Condivisione di conoscenze e tempo sulla tematica (orologio) 
-       Ripreso i ritmi della natura (albero e fiore) 
I nostri valori erano la semplicità (si vede che non abbiamo messo dentro niente di troppo elaborato). In una condizione di sobrietà. La generatività è il valore creato dalla condivisione dei nostri. E viene data dal lavoro. E’ un tipo di lavoro che rispetta i tempi della natura e che diffonde consapevolezza. Ma sappiamo che questo non basta. Occorre innaffiare il seme e questo chiede condivisione, chiede tempo, chiede pazienza e attesa. 
Attorno a noi ci sono altri, che condividono il contesto perché lo abitano e che potenzialmente possono diventare membri del gruppo. La speranza è quella. Noi facciamo esperienza per capire. E facciamo esperienza con altri per comunicare. Mangiamo insieme. Siamo anche ricreativi. Facciamo anche esperienza. Siamo anche ricreativi. Siamo anche amici tra noi, perché questo comunica. 

Gruppo 2: 
Noi siamo partiti dal modello attuale, poi abbiamo aggiunto il mondo nero (che è il rischio che peggiori). Il mondo nero e il mondo verde sono lo stesso mondo. Ma in base alla strada che intraprendi può essere l’uno o l’altro. L’elemento centrale è la scelta. Abbiamo messo questi due portali che indicano la scelta. Ci sono tante strade. Ognuno deve scegliere e sapere che in base alle scelte ne deriva il mondo che si vuole. Da un lato è tutto desertificato. Ci sono anche i dinosauri, il ritorno alla preistoria. E ci sono i morti. Dall’altro lato inizia il verde. E c’è la macchina (che è elettrica). La tecnologia nel futuro buono, non sparisce, ma è di diverso segno. 
 La nostra comunicazione è: siamo arrivati ad un bivio e bisogna scegliere. E’ tempo di decidere. Da una parte c’è un mondo che muore, dall’altra un mondo che nasce. Noi non possiamo obbligare nessuno ad andare da una parte o dall'altra. Ma possiamo ricordare a tutti che c’è una scelta da fare. 
Dalle riflessioni su questi due modelli iniziali emerge che: 
  • Non può esserci un solo modello, ne servono tanti. Perchè ogni persona ha bisogno di essere attivata in modo diverso. Per uno può essere la conferenza, per un altro un video di cosa succede, per un altro una testimonianza, per un altro l’esperienza di andare a pulire la spiaggia. Il punto è capire cosa proporre per ciascuno. 
  • L’animatore è colui che sceglie che cerca di capire di che tipo di attivazione ha bisogno quella comunità. Che cerca di capire cosa può funzionare per quel contesto. Il punto è non continuare a fare sempre la stessa cosa (convegno + testimonianza) e pensare che tutto succeda a partire da lì. Nella stessa comunità probabilmente servono stimoli diversi per persone diverse. 
  • La parte comunicativa è importante. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ed è un mare inquinato. La parte comunicativa è importante ma noi siamo già al bivio. E questo va tenuto presente. Non si può continuare a comunicare e basta. Magari 20 anni fa andava bene. Adesso l'urgenza non può essere comunicare, ma semmai fare, con attenzione a come si racconta e valorizza ciò che si fa. 
  • Ci siamo focalizzati sui contenuti (valori) e sulle motivazioni (responsabilità) e sui canali (verbali, intellettuali, emotivi...). Ma c'è bisogno di tenere conto anche della relazione che si costruisce tra chi propone e chi si vuole attivare. La relazione è una parte non indifferente del processo  
Gli attivatori sono persone il cui obiettivo non è far passare un contenuto, ma attivare attorno a questo contenuto.  
  • L’esempio è considerato un buon attivatore. Però poi porta anche a continuare a raccontare quello che si fa. Che è un po’ mania di protagonismo, non è che attiva tanto… C'è differenza tra esempio (che faccio io) ed esperienza (che facciamo assieme). Nel primo io ci tengo a farti vedere come sono bravo. Nel senso io (magari più nell'ombra) allestisco e preparo il contesto affinchè tu possa sperimentare. E mi affianco, in una relazione con te, durante l'esperienza.
  • Un elemento che spesso manca, anche alle Acli, è la dimensione della felicità. Ed è un elemento importante, nel motivare ad una scelta. 

Semi di comunità (Comunità di supporto all'agricoltura)



Comunità di supporto all’agricoltura: 
Modello nato negli anni 70 in Giappone. Poi esportato in America, Canada e poi nord Europa, Germania, Francia. In Germania ci sono circa 180 esperienze. In Italia è un movimento giovanissimo. La prima CSA in Italia è nata 7 anni fa. Non c’è ancora una associazione nazionale. Siamo una rete informale di realtà che si stanno parlando e stanno cercando di mettere in pratica ciò che sono le buone pratiche di una CSA. Finora abbiamo fatto 3 riunioni nazionali in cui prima di tutto ci conosciamo. Siamo una 20ina di realtà che stanno già lavorando. E una 40ina che si stanno affacciando per vedere come possono diventare CSA. Dal punto di vista formale ci possono essere vari modi di fare CSA. Noi abbiamo ideato una cooperativa di produzione e consumo. Ma può essere un’associazione, una azienda affiliata a una rete di persone… E’ una maglia larga, con alcuni capi saldi. 

Semi di comunità: comunità a supporto all’agricoltura. 
Proviamo a fare economia di prossimità. Con approccio ecologico e circolare. Ad esempio, noi usiamo manichette di micro-irrigazione. Uso delle manichette è già ridurre lo spreco. Costa di più strumento e devi recuperare la plastica. Ma è una idea di economia verde che sia oltre la sostenibilità. Mettendoci dentro la consapevolezza. La responsabilità. L’idea di fondo sono tutte le declinazioni delle forme possibili di economia. Altra economia, nuova economia, economia sostenibile, economia circolare, economia solidale, economia di trasformazione, economia di prossimità… 

Condivisione del rischio. Patto solidale tra chi ha le capacità tecniche di produrre e chi mangia il prodotto. Questo è un caposaldo. E’ un esperimento sociale, bisogna inventarsi in modi. Cerca di fare produzione etica, produzione che dia un giusto compenso a chi ci lavora dentro. Che non utilizzi chimica. Noi nati l’anno scorso, gennaio dell’anno scorso. Iniziato a coltivare i campi il 15 marzo dell’anno scorso. Iniziamo il secondo anno. Sabato se va bene seminiamo le nostre prime patate. Se va bene il tempo. Siamo nati anno scorso. Eravamo 50 soci all’inizio. Dove abbiamo deciso di partire un po’ alla Brancaleone. Facendo scommessa. Dobbiamo acquisire altri soci. Ad oggi 170. Ci diamo da mangiare per 95 famiglie. Entro fine marzo aumentiamo per produzione dei campi. Abbiamo capacità di produzione più alta quindi possiamo ampliare i numeri. 

Fedeli alla democrazia? Il governo per mezzo del dibattito



Ultimamente mi è capitato di leggere il libro “L’idea di giustizia” di Amartya Sen. Non è recentissimo (è del 2009) ma, come ho detto nell’ultima Direzione Nazionale Acli, vi ho trovato una pista di riflessione che mi pare utile per interpretare vari elementi di attualità. Del Paese e della nostra associazione. Il libro contiene un’analisi complessa. Io mi limito a fare sintesi di alcune parti relative ad un singolo aspetto. 

Per capire il mondo non è mai sufficiente limitarsi a registrare le nostre percezioni immediate. Per capire è sempre indispensabile riflettere. Ciò che sentiamo e ciò che riteniamo di vedere va «letto»: dobbiamo domandarci che cosa tali percezioni stiano a indicare e come sia possibile tenerne conto senza restarne sopraffatti. La sensazione di ingiustizia può costituire un segnale che ci spinge ad agire, ma la validità delle nostre conclusioni, basate su segnali percepiti, vanno sempre prima sottoposte a verifica. 

Di fronte a istanze in conflitto è necessario affidarsi al confronto razionale con se stessi e con gli altri, assai più che a quella che potremmo chiamare «tolleranza disimpegnata», con le sue comode e facili soluzioni del tipo: «Tu hai ragione nella tua comunità, io ho ragione nella mia» o semplicemente all’appello: “Cerchiamo di andare d’accordo”. Di fronte ad istanze in conflitto, ragionamento ed indagine e dialogo pubblico sono imprescindibili. 

La necessità della riflessione e del dialogo non sono finalizzate immediatamente al risultato di un emergere di una ragione unica, comune a tutti. L’utilità del processo non è compromessa dalla possibilità che permangano più assunti, in contrasto fra loro. La pluralità di posizioni ottenute non è inutile e sarà in ogni caso una pluralità differente da quella iniziale. 

Possiamo, di fronte allo stesso evento, provare un forte senso di ingiustizia, senza essere d’accordo nell’individuare la ragione prevalente a cui imputare quell’ingiustizia. Senza che il senso di ingiustizia di ciascuno sia da considerare falso, errato o strumentale. E’ una situazione faticosa da sostenere. Ma per approdare a conclusioni utili e salde, non è utile ridurre arbitrariamente la molteplicità di posizioni tra loro in potenziale conflitto ad una sola, assumendo come valido solo un unico criterio di valutazione. 

Un esempio: si tratta di decidere a quale dei tre bambini - Anne, Bob e Carla - debba essere dato un flauto per il quale stanno litigando. Anne pretende il flauto perchè è l'unica dei tre che lo sappia suonare (circostanza che gli altri riconoscono) e certo sarebbe ingiusto negare lo strumento all'unica persona che sa davvero adoperarlo. Se l'unica informazione in nostro possesso fosse questa, saremmo fortemente orientati ad assegnare il flauto alla prima bambina. 

In una scena alternativa, però, parla Bob, il quale giustifica le proprie pretese sul flauto con il fatto di essere così povero da non avere neanche un giocattolo: nel flauto troverebbe qualcosa con cui giocare (e le due bambine non negano di essere più ricche e di avere molti giocattoli con cui divertirsi). Se ascoltassimo soltanto Bob, senza sentire le bambine, avremmo tutte le ragioni per dare a lui il flauto. 

Una terza scena ci presenta Carla, che fa notare di essersi applicata per mesi e mesi, con diligenza, per costruire il flauto con le proprie mani (e gli altri confermano) e, appena terminata l'opera, "proprio allora" protesta "questi ladri di cose altrui sono venuti a portarmi via il flauto". Se non avessimo altra dichiarazione che quella di Carla, saremmo con ogni probabilità propensi a dare il flauto a lei, riconoscendo ragionevoli le sue pretese su un oggetto che ha creato con le sue mani. 

Ma dopo avere ascoltato le argomentazioni di tutti e tre, prendere una decisione non è facile. Per teorici di scuole diverse – utilitarismo, egualitarismo economico, liberalismo pratico – è probabile che la soluzione giusta sia lì pronta, ma se ci si ascolta cercando di comprendere, si vede quanto sia difficile liquidare come infondata ciascuna delle tre istanze, basate rispettivamente sulla realizzazione delle persona, sul contrasto alla povertà e sula legittimità di godersi i frutti del proprio lavoro. Non si tratta soltanto della diversità fra gli interessi personali dei tre bambini (che pure sussiste), ma del fatto che ciascuna delle argomentazioni fa appello a un tipo di ragione differente. 

Se la realtà si presenta a noi in questo modo, come è possibile quindi scegliere? La democrazia offre un metodo di decisione. Non l’unico, non perfetto. Ma un metodo. E’ vero che ci sono posizioni antiche che fanno identificare la democrazia con l’esito di un conteggio numerico di selezione attraverso il voto. Ma in realtà tutti i filosofi politici moderni concordano nel ritenere che la democrazia assuma significato solo in base alla capacità di alimentare partecipazione consapevole e possibilità di dare vita a confronti interattivi. La democrazia quindi può essere vista come governo per mezzo del dibattito. 

I confronti e le discussioni non sono sempre fruttuosi. Però possono esserlo. Ed in questa possibilità è racchiusa una opportunità e una responsabilità. Il dialogo appartiene alla materia stessa della giustizia e della democrazia. Ci sono buone ragioni per essere scettici di fronte all’idea di una giustizia e di una democrazia senza dibattito pubblico. Ma ci sono alcune accortezze. Non è sufficiente la libertà di espressione delle posizioni singole. E non è sempre utile ricercare e rifarsi a ciò che è astrattamente giusto promuovendo una sintesi automatica e teorica. 


Ad esempio, se stiamo cercando di scegliere tra un Picasso e un Dalí, non è di alcun aiuto fare riferimento a un’analisi (qualora fosse possibile) da cui emerge che il dipinto ideale è la Gioconda. Sarà anche un dato interessante, ma nella scelta tra un Dalí e un Picasso questa informazione non ci spinge né verso l’uno né verso l’altro. 


Anzi, lasciarci tentare dall’idea di ordinare le varie opzioni sulla base della loro vicinanza alla scelta perfetta (pensando che da un’identificazione trascendentale scaturisca indirettamente una gerarchia di alternative concrete) ci porta fuori strada. Ad esempio: una persona che preferisce il vino rosso al vino bianco, può comunque preferire il bianco puro ad una miscela dei due, anche se in senso puramente descrittivo la miscela dei due è più vicina al rosso (che è il vino preferito) rispetto al bianco. 


Cosa aiuta, allora, la democrazia? Aiuta esplicitare con la maggiore chiarezza possibile le motivazioni e le argomentazioni che spingono alle proprie azioni. Senza questo passaggio, o con una spiegazione che risponda a motivazioni puramente diplomatiche e tattiche, non si è in grado di garantire all’altro la comprensione delle proprie idee. Passaggio indispensabile in democrazia. E non si è in grado nemmeno in grado di assicurare che le persone coinvolte si convincano che giustizia è stata fatta (e questo è un aspetto che fa parte delle regole per rendere difendibili le decisioni). 

La realtà, inoltre, si presenta in modo diversa dalla pura astrazione.  In molti casi particolari può verificarsi una convergenza di ragioni eterogenee. 


Anche nel caso dei tre bambini, per esempio, può emergere che la piccola artefice del flauto, Carla, è in realtà anche la più povera o l’unica che sa come suonare lo strumento. Oppure può venire alla luce che lo stato di indigenza del bambino più povero, Bob, è talmente estremo che il bisogno di qualcosa con cui giocare potrebbe essere cruciale affinché egli conduca una vita accettabile: in questo caso l’argomento fondato sulla povertà potrebbe essere fondamentale nel pervenire a un responso secondo giustizia. 

L’idea della giustizia, insomma, può coprire scenari molto diversi. D’altro canto, le diverse parti che compongono le ragioni di ciascuno, sottoposte al vaglio della critica collettiva, producono brandelli di ordinamenti superstiti che, messi assieme, vanno a costituire la base di un ordinamento parziale, sul quale poggerà la scelta collettiva di quella comunità. La base di un ordinamento parziale è costituita dalla convergenza di conclusioni raggiunte mediamente ragionamenti pubblici. Non necessita di una coincidenza tra le preferenze personali dei vari individui, né necessitano il mero rinunciare di una parte a vantaggio dell’altra. Necessita invece l’esplicitazione, il più possibile chiara, della preferenza personale dei vari individui e delle ragioni che sottendono a quella preferenza. Ragioni che possono fare riferimento a criteri diversi da quelli che noi ci aspetteremmo o che desidereremmo.

E se il conflitto ci sembra insanabile o se non sussistono differenze su cui negoziare, può ancora essere efficace la democrazia? Perché è necessario un confronto in questi casi? La risposta di Amartya Sen mi pare sia che raggiungere un accordo dopo aver avuto la possibilità di esprimere liberamente, profondamente e pubblicamente le proprie ragioni non è la stessa cosa che presumere di maturare a priori tutti le stesse decisioni e le stesse aspirazioni. Così come non è la stessa cosa il fatto che l’accordo assuma la forma di un impegno cui ciascuno liberamente si obbliga o meno. Il processo per arrivare liberamente ad un accordo passa dalla comunicazione pubbliche delle proprie ragioni e dalla comprensione delle ragioni altrui. E dall’azione, anche creativa, di sintesi e rielaborazione finale. Questo processo è parte integrante del processo democratico ed il credere nella democrazia porta a credere che il processo di dibattito pubblico possa influenzare le decisioni dei singoli, al punto da dare luogo ad un accordo diverso, tra posizioni diverse, rispetto a quelle per cui ciascuno opterebbe se procedesse da solo. 

Gli accordi raggiunti tramite discussione pubblica non implicano di convenire tutti su un’unica proposta finale.  Nè implicano che la scelta finale sia ritenuta da tutti l’unica cosa giusta. Il processo elettivo in sé non è antitetico all’idea di democrazia per mezzo del dibattito. Ne costituisce una parte. Ciò che emerge dal processo, anche quando la decisione finale è assunta in base a sintesi elettiva, non implica che tutti convengano sulla medesima soluzione, ma  implica il fatto che per tutti quella emersa sia una decisione plausibilmente giusta, o almeno non palesemente ingiusta. Un buon accordo, frutto di una seria discussione pubblica, infatti, è pienamente compatibile con il ricorso al voto, con la consapevolezza di una buona dose di incompletezza e con la presenza non marginale di conflitti irrisolti. L’accordo che emerge da una riflessione pubblica strutturata è utile anche quando è parziale e pur nella parzialità, se è maturato attraverso un processo democratico serio, costituisce la base su cui costruire accordi più ampi futuri. 

La maggioranza dei sostenitori della democrazia non ha saputo dimostrare finora in modo esplicito che la democrazia promuove in se stessa lo sviluppo e il miglioramento del benessere sociale. La tendenza è stata, semmai, quella di inquadrare l’una e l’altro come obiettivi buoni ma nettamente distinti e per lo più indipendenti. Dal canto loro, i detrattori della democrazia si sono invece affannati a indicare le consistenti tensioni che a loro avviso sussistono tra democrazia e sviluppo. 

Tutto sta a capire, oggi, se noi siamo realmente sostenitori della democrazia o se in realtà siamo affezionati all'idea democratica ma, sotto sotto, siamo anche noi convinti che i detrattori abbiano ragione. 

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