Andare a Leopoli: Non è Mirsada (2 di 5)




Non è Mirsada 

 

A poco più di 20 anni ero, con le Acli, alla seconda Mirsada (pace ora), in Bosnia. Sono grata a quell'esperienza, anche se allora l'ho vissuta come un fallimento ed a 20 anni non avevo ancora imparato l'enorme valore dei fallimenti.  Mi sono domandata mille volte se, nei panni di una adulta più adulta, sarei riuscita ad assumermi la responsabilità di farla quella Mirsada, assieme al gruppo di giovani che allora eravamo noi. 

 

Le missioni di oggi in Ucraina (sia la carovana che la nostra) non sono state Mirsada. Non hanno cercato di fermare la guerra ponendosi in mezzo alle parti. Non sarebbe nemmeno stato possibile. Questa guerra non è quella. E' una guerra che, pur essendo sulla linea di confine tra due mondi, si gioca, fisicamente, su un solo terreno, che è quello Ucraino. Con lo scontro sull’interpretazione. Ma non è nemmeno quello il punto. Non c'è interposizione fisica possibile in questo momento lì, perché noi non siamo altro da questa guerra, ne siamo già parte. Il rischio di colpire un “noi” non è deterrente, è miccia. Ma qualcosa deve pur esserci. Intanto c’è la possibilità di esprimere vicinanza a chi c'è. Condividere, per un poco.  Certo che, con il senno di poi, forse se avessimo compreso meglio, allora, la connessione tra quanto stava accadendo e il disfacimento di un equilibrio di sistema, avremmo potuto leggere meglio l'oggi. Invece allora passava l'idea dei Balcani come una terra selvaggia, in cui vivevano persone con istinti bellicosi che muovevano guerre fratricide. E anche chi, come noi, provava a pensare altro, arrivava al massimo a vedere gli effetti della velocità di disfacimento del sistema Jugoslavo e le ambiguità nella costruzione dell’Europa. Non vedeva il collegamento con il crollo del muro e la fine dell'esperienza sovietica.

 

Pericolo 

 

La Farnesina sconsigliava il viaggio. L'Ucraina non lo vietava. La cosa più pericolosa da fare è restare fermi. C'era scritto su una nostra maglietta di Terre e Libertà. Ci sono volte in cui si sente di più il pericolo di restare immobili, di fronte a ciò che accade, di quanto non si senta il pericolo di andare in un Paese in guerra, su un furgone che attraversa l'Europa. 

 

L'Ucraina é un paese enorme (quasi 600.000 kmq). Noi siamo arrivati solo a Leopoli. A Lviv, come si dice in ucraino. 70 km dal confine con la Polonia. Siamo decisamente stati in un Paese in guerra. Ma non siamo stati nei luoghi in cui la guerra mostra la sua maggiore atrocità. Siamo stati in luoghi in cui la guerra arriva nelle teste e negli effetti secondari. Luoghi in cui la guerra c'è, ma assume un'altra forma, luoghi in cui la tensione convive con la vita. Quasi tutto è apparentemente "normale". Ma la "normalità" gira attorno alla presenza della guerra. Le vetrine dei negozi, i cartelloni pubblicitari, gli artisti di strada, i discorsi della gente, il numero di abitanti che cresce, i bisogni nuovi a cui rispondere, i lavori che cambiano…E poi, a tratti, non la guerra ma il senso di precarietà prende il sopravvento. Le sirene che escono anche dai telefoni, le facce che si irrigidiscono un poco, il controllo della mappa, il calcolo approssimativo e veloce delle probabilità: mappa con allerta larga, probabilità bassa, si continua; mappa con allerta stretta, probabilità alta, si interrompe. Siamo stati nemmeno una giornata e con la sirena che suonava abbiamo finito un incontro e siamo partiti in macchina uscendo dalla città. Chi vive lì non può che allentare la presa del senso di pericolo, ogni tanto, continuando a fare ciò che faceva. Come con le scosse di assestamento di uno sciame sismico, diceva qualcuno in furgone, non senza sottolineare le differenze. Le prime volte scendi le scale di corsa allarmato. Poi via via sempre meno. Sono quelle le scosse che spesso fanno più vittime. Eppure è così. Non siamo progettati per stare in stato di allerta perenne. Siamo progettati per vivere. Anche se non sai cosa sarà domani e non sai se il rilassamento sarà rischioso. Starci una giornata ha una dimensione di pericolo fattibile, per una cosa che ha senso, come portare un aiuto o rinsaldare un legame. Vivere in questa tensione perenne deve essere qualcosa di estremamente logorante da molti punti di vista. 

 

 

 

Pragmatici esercizi di umanità, spostamenti e trasformazioni.

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