Fedeli alla democrazia? Il governo per mezzo del dibattito



Ultimamente mi è capitato di leggere il libro “L’idea di giustizia” di Amartya Sen. Non è recentissimo (è del 2009) ma, come ho detto nell’ultima Direzione Nazionale Acli, vi ho trovato una pista di riflessione che mi pare utile per interpretare vari elementi di attualità. Del Paese e della nostra associazione. Il libro contiene un’analisi complessa. Io mi limito a fare sintesi di alcune parti relative ad un singolo aspetto. 

Per capire il mondo non è mai sufficiente limitarsi a registrare le nostre percezioni immediate. Per capire è sempre indispensabile riflettere. Ciò che sentiamo e ciò che riteniamo di vedere va «letto»: dobbiamo domandarci che cosa tali percezioni stiano a indicare e come sia possibile tenerne conto senza restarne sopraffatti. La sensazione di ingiustizia può costituire un segnale che ci spinge ad agire, ma la validità delle nostre conclusioni, basate su segnali percepiti, vanno sempre prima sottoposte a verifica. 

Di fronte a istanze in conflitto è necessario affidarsi al confronto razionale con se stessi e con gli altri, assai più che a quella che potremmo chiamare «tolleranza disimpegnata», con le sue comode e facili soluzioni del tipo: «Tu hai ragione nella tua comunità, io ho ragione nella mia» o semplicemente all’appello: “Cerchiamo di andare d’accordo”. Di fronte ad istanze in conflitto, ragionamento ed indagine e dialogo pubblico sono imprescindibili. 

La necessità della riflessione e del dialogo non sono finalizzate immediatamente al risultato di un emergere di una ragione unica, comune a tutti. L’utilità del processo non è compromessa dalla possibilità che permangano più assunti, in contrasto fra loro. La pluralità di posizioni ottenute non è inutile e sarà in ogni caso una pluralità differente da quella iniziale. 

Possiamo, di fronte allo stesso evento, provare un forte senso di ingiustizia, senza essere d’accordo nell’individuare la ragione prevalente a cui imputare quell’ingiustizia. Senza che il senso di ingiustizia di ciascuno sia da considerare falso, errato o strumentale. E’ una situazione faticosa da sostenere. Ma per approdare a conclusioni utili e salde, non è utile ridurre arbitrariamente la molteplicità di posizioni tra loro in potenziale conflitto ad una sola, assumendo come valido solo un unico criterio di valutazione. 

Un esempio: si tratta di decidere a quale dei tre bambini - Anne, Bob e Carla - debba essere dato un flauto per il quale stanno litigando. Anne pretende il flauto perchè è l'unica dei tre che lo sappia suonare (circostanza che gli altri riconoscono) e certo sarebbe ingiusto negare lo strumento all'unica persona che sa davvero adoperarlo. Se l'unica informazione in nostro possesso fosse questa, saremmo fortemente orientati ad assegnare il flauto alla prima bambina. 

In una scena alternativa, però, parla Bob, il quale giustifica le proprie pretese sul flauto con il fatto di essere così povero da non avere neanche un giocattolo: nel flauto troverebbe qualcosa con cui giocare (e le due bambine non negano di essere più ricche e di avere molti giocattoli con cui divertirsi). Se ascoltassimo soltanto Bob, senza sentire le bambine, avremmo tutte le ragioni per dare a lui il flauto. 

Una terza scena ci presenta Carla, che fa notare di essersi applicata per mesi e mesi, con diligenza, per costruire il flauto con le proprie mani (e gli altri confermano) e, appena terminata l'opera, "proprio allora" protesta "questi ladri di cose altrui sono venuti a portarmi via il flauto". Se non avessimo altra dichiarazione che quella di Carla, saremmo con ogni probabilità propensi a dare il flauto a lei, riconoscendo ragionevoli le sue pretese su un oggetto che ha creato con le sue mani. 

Ma dopo avere ascoltato le argomentazioni di tutti e tre, prendere una decisione non è facile. Per teorici di scuole diverse – utilitarismo, egualitarismo economico, liberalismo pratico – è probabile che la soluzione giusta sia lì pronta, ma se ci si ascolta cercando di comprendere, si vede quanto sia difficile liquidare come infondata ciascuna delle tre istanze, basate rispettivamente sulla realizzazione delle persona, sul contrasto alla povertà e sula legittimità di godersi i frutti del proprio lavoro. Non si tratta soltanto della diversità fra gli interessi personali dei tre bambini (che pure sussiste), ma del fatto che ciascuna delle argomentazioni fa appello a un tipo di ragione differente. 

Se la realtà si presenta a noi in questo modo, come è possibile quindi scegliere? La democrazia offre un metodo di decisione. Non l’unico, non perfetto. Ma un metodo. E’ vero che ci sono posizioni antiche che fanno identificare la democrazia con l’esito di un conteggio numerico di selezione attraverso il voto. Ma in realtà tutti i filosofi politici moderni concordano nel ritenere che la democrazia assuma significato solo in base alla capacità di alimentare partecipazione consapevole e possibilità di dare vita a confronti interattivi. La democrazia quindi può essere vista come governo per mezzo del dibattito. 

I confronti e le discussioni non sono sempre fruttuosi. Però possono esserlo. Ed in questa possibilità è racchiusa una opportunità e una responsabilità. Il dialogo appartiene alla materia stessa della giustizia e della democrazia. Ci sono buone ragioni per essere scettici di fronte all’idea di una giustizia e di una democrazia senza dibattito pubblico. Ma ci sono alcune accortezze. Non è sufficiente la libertà di espressione delle posizioni singole. E non è sempre utile ricercare e rifarsi a ciò che è astrattamente giusto promuovendo una sintesi automatica e teorica. 


Ad esempio, se stiamo cercando di scegliere tra un Picasso e un Dalí, non è di alcun aiuto fare riferimento a un’analisi (qualora fosse possibile) da cui emerge che il dipinto ideale è la Gioconda. Sarà anche un dato interessante, ma nella scelta tra un Dalí e un Picasso questa informazione non ci spinge né verso l’uno né verso l’altro. 


Anzi, lasciarci tentare dall’idea di ordinare le varie opzioni sulla base della loro vicinanza alla scelta perfetta (pensando che da un’identificazione trascendentale scaturisca indirettamente una gerarchia di alternative concrete) ci porta fuori strada. Ad esempio: una persona che preferisce il vino rosso al vino bianco, può comunque preferire il bianco puro ad una miscela dei due, anche se in senso puramente descrittivo la miscela dei due è più vicina al rosso (che è il vino preferito) rispetto al bianco. 


Cosa aiuta, allora, la democrazia? Aiuta esplicitare con la maggiore chiarezza possibile le motivazioni e le argomentazioni che spingono alle proprie azioni. Senza questo passaggio, o con una spiegazione che risponda a motivazioni puramente diplomatiche e tattiche, non si è in grado di garantire all’altro la comprensione delle proprie idee. Passaggio indispensabile in democrazia. E non si è in grado nemmeno in grado di assicurare che le persone coinvolte si convincano che giustizia è stata fatta (e questo è un aspetto che fa parte delle regole per rendere difendibili le decisioni). 

La realtà, inoltre, si presenta in modo diversa dalla pura astrazione.  In molti casi particolari può verificarsi una convergenza di ragioni eterogenee. 


Anche nel caso dei tre bambini, per esempio, può emergere che la piccola artefice del flauto, Carla, è in realtà anche la più povera o l’unica che sa come suonare lo strumento. Oppure può venire alla luce che lo stato di indigenza del bambino più povero, Bob, è talmente estremo che il bisogno di qualcosa con cui giocare potrebbe essere cruciale affinché egli conduca una vita accettabile: in questo caso l’argomento fondato sulla povertà potrebbe essere fondamentale nel pervenire a un responso secondo giustizia. 

L’idea della giustizia, insomma, può coprire scenari molto diversi. D’altro canto, le diverse parti che compongono le ragioni di ciascuno, sottoposte al vaglio della critica collettiva, producono brandelli di ordinamenti superstiti che, messi assieme, vanno a costituire la base di un ordinamento parziale, sul quale poggerà la scelta collettiva di quella comunità. La base di un ordinamento parziale è costituita dalla convergenza di conclusioni raggiunte mediamente ragionamenti pubblici. Non necessita di una coincidenza tra le preferenze personali dei vari individui, né necessitano il mero rinunciare di una parte a vantaggio dell’altra. Necessita invece l’esplicitazione, il più possibile chiara, della preferenza personale dei vari individui e delle ragioni che sottendono a quella preferenza. Ragioni che possono fare riferimento a criteri diversi da quelli che noi ci aspetteremmo o che desidereremmo.

E se il conflitto ci sembra insanabile o se non sussistono differenze su cui negoziare, può ancora essere efficace la democrazia? Perché è necessario un confronto in questi casi? La risposta di Amartya Sen mi pare sia che raggiungere un accordo dopo aver avuto la possibilità di esprimere liberamente, profondamente e pubblicamente le proprie ragioni non è la stessa cosa che presumere di maturare a priori tutti le stesse decisioni e le stesse aspirazioni. Così come non è la stessa cosa il fatto che l’accordo assuma la forma di un impegno cui ciascuno liberamente si obbliga o meno. Il processo per arrivare liberamente ad un accordo passa dalla comunicazione pubbliche delle proprie ragioni e dalla comprensione delle ragioni altrui. E dall’azione, anche creativa, di sintesi e rielaborazione finale. Questo processo è parte integrante del processo democratico ed il credere nella democrazia porta a credere che il processo di dibattito pubblico possa influenzare le decisioni dei singoli, al punto da dare luogo ad un accordo diverso, tra posizioni diverse, rispetto a quelle per cui ciascuno opterebbe se procedesse da solo. 

Gli accordi raggiunti tramite discussione pubblica non implicano di convenire tutti su un’unica proposta finale.  Nè implicano che la scelta finale sia ritenuta da tutti l’unica cosa giusta. Il processo elettivo in sé non è antitetico all’idea di democrazia per mezzo del dibattito. Ne costituisce una parte. Ciò che emerge dal processo, anche quando la decisione finale è assunta in base a sintesi elettiva, non implica che tutti convengano sulla medesima soluzione, ma  implica il fatto che per tutti quella emersa sia una decisione plausibilmente giusta, o almeno non palesemente ingiusta. Un buon accordo, frutto di una seria discussione pubblica, infatti, è pienamente compatibile con il ricorso al voto, con la consapevolezza di una buona dose di incompletezza e con la presenza non marginale di conflitti irrisolti. L’accordo che emerge da una riflessione pubblica strutturata è utile anche quando è parziale e pur nella parzialità, se è maturato attraverso un processo democratico serio, costituisce la base su cui costruire accordi più ampi futuri. 

La maggioranza dei sostenitori della democrazia non ha saputo dimostrare finora in modo esplicito che la democrazia promuove in se stessa lo sviluppo e il miglioramento del benessere sociale. La tendenza è stata, semmai, quella di inquadrare l’una e l’altro come obiettivi buoni ma nettamente distinti e per lo più indipendenti. Dal canto loro, i detrattori della democrazia si sono invece affannati a indicare le consistenti tensioni che a loro avviso sussistono tra democrazia e sviluppo. 

Tutto sta a capire, oggi, se noi siamo realmente sostenitori della democrazia o se in realtà siamo affezionati all'idea democratica ma, sotto sotto, siamo anche noi convinti che i detrattori abbiano ragione. 

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