Lotta per la dignità - Roberto Mordacci



Nella cultura moderna noi abbiamo, a differenza degli antichi, collegato in maniera stretta e diretta, quasi univoca: dignità e lavoro. La dignità dell’uomo moderno consiste nella sua fabbrilità, nella sua capacità di fare, nella sua capacità trasformativa, nella sua abilità di abitare il mondo in modo da sentirsene una parte attiva. Non solo giocato dal destino e dal fato ma capace di trasformarlo. In questa trasformazione risiede la capacità dell’uomo di darsi un’identità. E nel rapporto con il mondo, con la cosa, con la natura. Nel fare insieme cose che l’uomo ha un’identità. Questo si chiama lavoro.

Per i greci il lavoro è ponos. È fatica. E’ degli schiavi. Non è ciò che nobilita. Il nobile non lavora tipicamente. Per il moderno il lavoro, cioè l’operazione comune di trasformazione della natura che ci consente di vivere insieme, è la nostra dignità.

E’ per questo che le vergogne che associamo alla nostra vita sociale hanno spesso a che fare con l’incapacità o l’impossibilità di lavorare o con un lavoro non degno. Il mio ruolo sociale è legato alla mia realizzazione di me stesso attraverso il lavoro. La mia dignità è quella per cui io non ho prezzo, è quella per cui ciò che faccio io è tipico dell’umano.

E’ per questo che nella nostra cultura la percezione di essere esclusi è una percezione che corrisponde alla vergogna e l’idea del sussidio porta con sé questa idea. Porta con sé la percezione di non essere stati capaci di darsi la dignità che sta nel lavoro.

Su questo dovremo riflettere, perché ci sono questioni che mettono in discussione il nostro apparato culturale:

Il lavoro contemporaneo, il lavoro moderno (dal lavoro di fabbrica ottocentesco ai lavori più moderni) vede una crescente alienazione. Gli studi più recenti (la 4° generazione della scuola di Francoforte), mettono in luce nuove forme di alienazione. Quella che Marx chiamava alienazione, l’essere espropriato del frutto del proprio lavoro, oggi si ripresenta in maniera molto forte, ad esempio come mancato riconoscimento di lavori non riconosciuti come tali. La cura della famiglia, la cura dell’altro. Non hanno la stessa dignità del lavoro produttivo. C’è una mancanza di consapevolezza del fatto che la società sta insieme anche per questo tipo di lavori. C’è un lavoro sociale a cui non viene riconosciuta la dignità del produrre. È una alienazione molto profonda. Gran parte del nostro vivere, non essendo rubricata sotto la forma economica del lavoro, non viene riconosciuta come lavoro…

C’è un’altra forma di alienazione (altri autori, sempre della 4° generazione della scuola francofortese) hanno messo a tema il fatto che il mondo contemporaneo è attraversato da una forma molteplice di accelerazioni continue. Accelerazioni dei processi tecnologici, che vanno più veloci di quanto noi non riusciamo ad apprendere. Accelerazioni dei processi economici, che vanno più veloci di quanto noi non riusciamo a governare. Accelerazioni relazionali: nell’arco di una vita le persone intrecciano una quantità di relazioni molto più ampia del passato e le reti di relazioni cambiano con molta più frequenza del passato. Queste accelerazioni comportano una forma profonda di alienazione. Non riusciamo più a riconoscerci in ciò che facciamo, perché ciò che facciamo ci sfugge via. Il tempo guizza via e guizzano via le relazioni, il nostro modo di stare nel mondo… si cambia lavoro, si cambiano luoghi, non riusciamo a star dietro, non riusciamo ad aggiornarci ad una velocità maggiore di quella a cui ci siamo già aggiornati… restiamo indietro… questo movimento parossistico ci rende subito inadeguati e subito alienati rispetto alla nostra esistenza. Quindi, il lavoro, che dovrebbe essere fonte di dignità, è fonte di alienazione. Quindi, il lavoro che dovrebbe essere fonte di identità, diventa perdita di identità e perdita di identificazione con noi stessi.

C’è poi un ulteriore fenomeno. La direzione verso cui va galoppando la nostra società contemporanea va verso una società in cui c’è sempre meno lavoro. Va verso una società senza lavoro. C’è un paradossale rovesciamento di ciò che accade tra antichità e moderno. Nell’antichità il segno di nobiltà è il non lavoro. Nella modernità il lavoro diventa il privilegio di pochi, diventa ciò che non c’è. Industria 4.0, automazione, disintermediazione… (il lavoro di molti è lavoro di intermediazione). E’ un fenomeno molto preoccupante e non c’è abbastanza consapevolezza.

Dobbiamo domandarci se il lavoro fabbrile costituisca l’unica e sola fonte di dignità del nostro vivere sociale. Perché questo lavoro ci sarà sempre di meno, ci sarà sempre più sottratto dalle macchine. Ma non dobbiamo averne nostalgia. Ci sono parti del lavoro che da sempre proviamo a sottrarre all’uomo e che proviamo a sostituire con altri mezzi (prima animali e poi meccanici ora tecnologici). Nessuno pensa che nel lavoro servile stia la dignità. Perché nel lavoro servile è tolta la partecipazione, è tolta la personalità.

Ma, se del lavoro possiamo sempre meno fidarci. Se possiamo sempre meno affidarci al lavoro per avere il nostro riconoscimento sociale, dove lo andremo a cercare? Una delle risposte (che è ciò che sempre più accade oggi) è il rifugio nel privato. Il rifugio nella dimensione per cui la mia dignità consiste nel mio hobby, nella mia relazione sociale, di gruppo, di piccola comunità, di appartenenze ideologiche (non più politiche perché della politica c’è poca frequenza…). Il rifugio in quelle appartenenze che sono estranee alla contribuzione sociale. Molti nella nostra società si rifugiano in una forma di dignità che è privata. Accettano di lavorare come macchine, accettano di subire quello che accade al lavoro senza troppo disperarsi e senza troppo lottare, e cercano altrove la propria dignità e identità.

La mia impressione è che questo sia una grande inganno. E’ quello che cercano di farci passare sopra la testa. Togliendo il controllo del lavoro alle persone e alla comunità e cercando di esautorare la popolazione e noi stessi da un processo che ormai è impersonale e che sempre più fa a meno delle persone. In questo modo non usciremo dalla vergogna. Perché quel privato non si collega alla nostra vita comunitaria, alla nostra vita sociale, non si collega alla condivisione, alla produttività creativa.

Mi sono dedicato al tema dell’utopia. Tommaso Moro ci consegna una utopia in cui non si lavora più d 6 ore, in cui la convivialità è lo scopo della convivenza. C’è condivisione del cibo, del lavoro, della cultura. Tutti condividono una lezione tenuta dai dotti, prima di andare al lavoro. Ma i dotti sono parte della comunità lavorativa. L’idea è quella di una comunità che condivide il buon vivere, non che produce qualcosa per altri. Una comunità che condivide un obiettivo. Non che lavora per un obiettivo che dovrebbe arrivare dopo, da fuori, non si sa bene come.

L’Utopia può essere di ispirazione. Ma qui, prima di arrivare a quello, occorre un atro passo. Lo provo a dire in modo un po’ provocatorio. Siamo abituati a pensare, per la cultura moderna (Kant) che il rispetto è fondato sulla dignità. Noi dobbiamo avere rispetto l’uno per l’altro perché ciascuno ha una dignità. Ciascuno di noi ha una dignità come status connaturato alla condizione umana. Tutti sono uguali, in quanto esseri umani. Quindi tutti hanno dignità di esseri umani e quindi tutti meritano rispetto.

La parola dignità in realtà ha una storia più complessa. La parola dignità in realtà inizia con un significato gerarchico. L’uomo è nel rango più elevato della creazione. La dignità dell’uomo è nello stare sopra. I dignitari sono coloro che hanno maggiore dignità perché sono più vicini al re. La parola dignità è una parola in origine gerarchica.

Quello che è avvenuto è che nell’età moderna si è assottigliata la differenza delle dignità tra chi sta in alto e chi sta in basso. I privilegi dei dignitari sono diminuiti, sono aumentati i diritti di chi sta in basso e si è portata l’idea della dignità come equiparata a tutti gli esseri umani. Ma questo non è accaduto naturalmente. Questo è stato una conquista, una pretesa, una lotta. Questo mi fa dire che il rapporto tra rispetto e dignità è il contrario di ciò che pensiamo. Non è vero che la dignità si fonda sul rispetto. E’ la dignità che viene generata dalle pratiche di rispetto. Se c’è la pratica di rispetto, allora si consente alle persone di vivere e di essere guardate come uguali. Se c’è la pratica di rispetto, si consente alle persone di riconoscere se stessi nella relazione. La pratica del rispetto non è una pratica da intendersi in modo morale. Non si rispettano le persone come si rispettano gli orti o i giardini. Il rispetto è una relazione di potere. 

Anche la parola rispetto ha la stessa storia della parola dignità. La parola rispetto indica quella posizione, quel sentimento, che riconosce un potere davanti a sé e dentro di sé. Proviamo a pensarla attraverso questa espressione: noi usiamo il termine rispetto anche nei confronti, ad esempio, della natura, degli animali, della struttura gerarchica delle società… il rispetto ha a che fare con il riconoscimento che di fronte a me c’è un potere che non è totalmente nelle mie mani. La libertà dell’altro condiziona la mia, ma la mia condiziona la sua. 

Il potere dell’orso che ho davanti, (per citare il film Revenant) è il potere della vita che non vuole sottomettersi. Che non ci sta a subire l’aggressione. Che reagisce e della quale devo avere rispetto, perché devo riconoscere quanto è forte lui, per potermi salvare. Per poter tentare di dominare, se voglio dominarlo o almeno ad arrivare a non essere ucciso. Per non arrivare all’annientamento reciproco.

Il rapporto di potere con la natura è il rapporto con le forze naturali è Il rapporto con la vita stessa. Il rapporto di potere tra esseri umani è il rapporto tra le libertà. Non avremo dignità e non ci sarà un lavoro degno finchè non pretenderemo il rispetto, finchè non ci sarà lotta per ottenerlo. Il lavoro privato di dignità, che non è riconosciuto, che è impoverito, il lavoro di alienazione…resteranno tali finchè non pretenderemo rispetto e non lotteremo per questo. Il lavoro mal retribuito, non riconociuto, impoverito nella relazione resteranno tali se non ci sarà lotta....

Una delle forme di alienazione è quella in cui non sono coinvolto nella comprensione dei flussi e processi nei quali mi torvo e degli scopi che stiamo perseguendo. Non ha senso che io lavori in una organizzazione in cui il mio compito è parcellizzato al punto che io non riesco a vedere l’insieme. Una organizzazione in cui mi è chiesta una prestazione e non devo occuparmi di ciò che avviene nell’insieme. Questa è alienazione. Io posso riconoscere la dignità del lavoro se riconosco lo scopo e se sono nella condizione di poter condividere gli scopi.

Questo fa parte del giusto riconoscimento del fatto che ogni ruolo è decisivo per il raggiungimento del risultato. Questo non si ottiene senza pretendere il rispetto. La dignità del lavoro sarà ciò che noi otterremmo tramite giusta rivendicazione. Dove la rivendicazione è economica ma anche sociale e culturale. Rivendicazione culturale per cui il lavoro è un’operazione sociale che solo una comunità umana, solo una comunità civile può compiere, per abitare questo pianeta e questo posto. Posto che ci elargisce molti doni ma che non ci lascia vivere solo di ciò che troviamo per strada.

È in questo che c’è una sfida. La sfida è quella che riporta alla parola che nel vostro manifesto chiamate dignità e che nel mio linguaggio io traduco con rispetto. È il rispetto che pretendo e ottengo quello che genera la mia dignità. E’ il rispetto per cui lotto quello che genera la dignità e la libertà dell’altro e che ci pone all’interno di operazioni comuni e scopi comuni.

Nel vostro manifesto la parola dignità/rispetto si congiungono al tema del lavoro attraverso la speranza. Io proporrei di affiancare alla parola speranza un’altra parola che è lotta. La speranza e la dignità non ci verranno graziosamente donati. Non arriveranno da sole. Se non si lotta. Se non si mostra l’onore. Se non si mostra il potere che abbiamo, in quanto partecipiamo all’attività comune, la dignità non sarà riconosciuta. E questo vale per il lavoro e anche per ciò che oggi non è riconosciuto come lavoro.

Tutto questo deve portarci ad una pretesa. La pretesa che i lavori siano pienamente riconosciuti come parte del tessuto sociale, come fondamento della realtà sociale. E che, in particolare, lo siano alcuni lavori di cura oggi non riconosciuti. Perché sono fondamentali per la società ancora più di certi lavori economicamente efficaci ma che hanno significato meno rilevante per il senso del vivere insieme.

Dal punto di vista delle scelte operative ci sono diverse ricette. Molte proposte hanno a che fare con la trasformazione del mondo del lavoro. Dell’Equilibrio tra non lavoro, lavoro e patrimoni. Una di queste proposte (movimento accelerazionista) dice: pretendi la piena automazione. Pretendi la giornata di 4 ore. Dove il tuo ruolo è ruolo umano e non meccanico. E pretendi che la tua posizione, la tua partecipazione alla vita sociale sia riconosciuta anche economicamente come tale. Questi autori sostengono con altri cose come il Reddito di base (non il reddito di cittadinanza, che è legato al lavoro). Universale e incondizionato. Se i lavori lo fanno le macchine, non troveremo lavoro. Andranno tassati quelli che hanno le macchine, per consentire gli altri di avere una base per fare cose umane. Ci sarà sempre un aspetto di lavoro ma va allargata il senso e la concezione di lavoro. E’ lavoro sociale e lavoro produttivo la relazione, la comunicazione, la comunità. Se non cambiamo la condizione del lavoro siamo destinati a declinare.

Non sono sicuro che siano praticabili. Molti dicono che sono impossibile. La mia proposta è iniziare a pensarci per frammenti. In alcune circostanze è ben tempo di slegare il riconoscimento sociale dal lavoro fabbrile. Allargare la concezione del lavoro verso condivisione di attività sociali che facciamo e che non sono riconosciute.

Questo allargamento è che proviamo a pensare il lavoro nella proiezione non di ciò che ci dà dignità ma di ciò in cui noi pratichiamo il rispetto attivo che è quello di curarsi di noi e dell’altro, che crea la nostra dignità. Che non dipende dal produrre. Ma dipende da questa cura attiva che io chiamo rispetto.

Pragmatici esercizi di umanità, spostamenti e trasformazioni.

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