dicembre 2012
Sono
le 6 di mattina. Pietro (4 anni e mezzo) si sveglia e chiama nel suo
letto per un po' di coccole e chiacchiere. Si parla di tutto,
ridendo, ma io in testa (e in pancia) ho quanto è appena accaduto
negli Stati Uniti. Gianni Riotta su twitter chiede “Molti
bambini chiederanno domani ai genitori, anche in Italia, cosa è
successo a Newtown a loro coetanei: qual è la risposta giusta da
dare?”
e io, da mamma, ho in mente che non lo so. Ma questo pensiero si
incrocia con il “si
educa in mutande”
di don Gino Rigoldi parecchi anni fa'. In
mutande, cioè nella vita quotidiana, nella normalità delle cose che
succedono, nei fatti e nei comportamenti, più che nelle parole. Ma
in mutande anche “senza coperture, nudi, in imbarazzo, scoperti”.
E
allora inizio “Sai
Pietro, è successa una cosa terribile in America. Un ragazzo è
entrato in una scuola con le pistole e ha sparato a tanti bambini e
maestre”.
E quel che ne segue è una serie di scambi disordinati. Come spesso
capita con i bimbi. Che hanno la capacità di inseguire pensieri
carsici. In cui le domande “serie” si alternano ad altro. Me ne
sono appuntata qualcuna. Si parte con:
Pietro:
ma come si chiamano quei bambini?
Mamma:
non lo so.
Pietro:
perche' non l'hai chiesto? Mi interessa.
Pietro:
e come si chiama il ragazzo con la pistola?
Mamma:
non mi ricordo.
Pietro:
non ti ricordi perche' ti fa' paura?
Pietro:
però è così terribile che io non me lo so nemmeno immaginare di
che colore era la scuola. Ma... l'America è lontana?
E
subito capisco che la conversazione non la sto guidando io. Io ho
dato il là. Ma è lui che riesce a dar voce a quel che io nemmeno so
di pensare. Poi (dopo aver parlato di ginnastica, della gara di
nuoto, del pongo...) a freddo esordisce:
Pietro:
io mi ricordo una cosa terribile. Una volta in motorino ti e' caduto
il telefono e l'hai perso.
Mamma:
ma non e' una cosa terribile, pero'. E poi un signore me l'ha ridato.
Pietro:
perdere il telefono e' una cosa terribile piccola. Il signore che la
ritrova e' una cosa felice piccola. Il ragazzo con la pistola nella
scuola e' una cosa terribile grande. Poi viene una cosa felice
grande.
Per
un attimo ho pensato che non riuscisse a realizzare la tragedia. Che
confondesse cose gravi con banalità. Poi ho realizzato che stava
guardando all'essenziale. Al bisogno, di fronte alla tragedia, di
guardare oltre, di avere un lieto fine. Una consolazione. E il fatto
che “poi viene una cosa felice grande” non era una domanda. Ma
un'affermazione. Una certezza. Una fede.
Pietro:
pero' non ho capito una cosa.
Mamma:
cosa?
Pietro:
perche' quel ragazzo ha sparato ai bambini e alle maestre?
Ma
anche la fede non elimina la domanda di senso. Che puntualmente
arriva. Domanda a cui non ho saputo rispondere. Ho detto “Non lo
so”. Ma poi ho aggiunto qualcosa relativa al fatto che forse il
ragazzo stava male, che si era sbagliato, che non voleva ma...
Pietro:
(preoccupato) ma, se era malato.... è così la regola? Che se mi
viene la febbre poi magari un giorno sparo ai bambini?
Ed
io ho pensato che i bambini sono più onesti e coraggiosi di noi. Che
cerchiamo scorciatoie per spiegare il male e rinchiuderlo in una
scatola, fuori da noi. In questa situazione come in molte altre
tragedie simili parte tutto il dibattito sulla sanità mentale. Ma la
domanda vera l'ha fatta Pietro: chi può difenderci dal male che è
dentro di noi? Che sicurezza abbiamo di non diventare noi “i
cattivi”?
Mamma
(vedendo Pietro pensieroso): cosa stai pensando?
Pietro:
che e' meglio che non ci sono le pistole vere che poi i ragazzi
grandi le prendono. Se c'erano quelle con l'acqua come la nostra si
arrabbiavano che erano bagnati ma poi si asciugavano col phon.
Sembra
una banalità letta così. Ma il dibattito sul controllo del
commercio delle armi è tutt'altro che chiuso. E anche dopo questa
tragedia c'è stato chi ha proposto di armare maestre e catechiste.
“Loro
non hanno paura di chiedere” mi dice un amico papà “siamo noi
che abbiamo paura di rispondere”. “Gia” rispondo io “E quando
abbiamo il coraggio di far vedere che non abbiamo risposte le trovano
loro. Anche per noi. Noi ci mettiamo lo stare abbracciati mentre ne
parliamo. E forse l'aver seminato qui e là qualcosa, prima”.