Per una ricostruzione aclista del decennio 1969-1979 - Domenico Rosati



Per una ricostruzione aclista del decennio 1969-1979 

Domenico Rosati 


1. Far riaffiorare le informazioni sommerse

Cade quest’anno il X anniversario dell’XI Congresso Nazionale delle Acli che si svolse a Torino dal 19 al 22 giugno 1969. Fu un congresso importante nella storia delle Acli: di svolta, come si disse allora e come poi risultò nei fatti. Conviene dunque riparlarne. Ma come? 

Sul piano del metodo credo sia importante evitare due rischi: il primo è quello di “annegare” il Congresso di Torino, e ciò che rappresentò, nella rievocazione generale, per non dire generica, del contesto culturale, sociale, politico e religioso del 1969; e per stemperare così il senso di quella svolta considerandola un momento minore di una partita che, tutto sommato, si giocava e decideva altrove. L’altro rischio è quello di leggere le vicende solo attraverso le lenti deformanti di una ricostruzione esclusivamente “aclista”, con il risultato di dare al tutto un taglio intimistico e in fondo apologetico; e comunque, di presentare la vicenda Acli con un carattere di “centralità” che in effetti essa non ha avuto. E che non aveva neppure nel 1969, quando molti di noi ritenevamo che le Acli fossero il punto fermo su cui fissare la punta del compasso per tracciare il cerchio in cui rinchiudere l’universo. 

Allo sforzo per evitare i due rischi si aggiunge, per me, una complicazione da non sottovalutare: il fatto che io non sono un osservatore estraneo e distaccato rispetto a quanto accadde prima, durante e dopo il Congresso di Torino. Con l’aggravante che ritrovandomi attualmente nella posizione di Presidente delle Acli, sono naturalmente indotto a leggere i dati di quanto accadde allora alla luce di quanto si è successivamente prodotto con la tentazione, neppure tanto implicita, di “giustificarmi”. 

Naturalmente se questi scrupoli metodologici venissero fatti pesare in modo determinante si dovrebbe sospendere ogni ricerca e affidarsi, come si diceva una volta, al giudizio della storia che arriva più tardi, quando i cicli vitali sono definitivamente chiusi. Ma forse è possibile, con qualche cautela, evitare gli scogli più pericolosi e tentare un approccio ricostruttivo che non pretende affatto di dare un giudizio compiuto, ma vuole essere invece uno stimolo – se si vuole una provocazione – affinché da altre fonti d’acqua cominci a sgorgare, altre memorie si attivino, altri tasselli del mosaico possano accostarsi per consentire, a chi poi scriverà la storia completa, di lavorare su un tessuto di testimonianze il più possibile ricco e articolato. 



Per quanto mi riguarda, una testimonianza l’ho già data nel mio studio sulla questione politica delle Acli i cui ultimi capitoli prendono in esame, appunto, la vicenda che passa per il congresso di Torino e arriva fino al 1975. A quella analisi sostanzialmente posso ancora attenermi, rinviando ad essa per una maggiore comprensione del significato delle sollecitazioni su cui si impernierà il presente articolo. Non credo infatti che sia tanto importante aggiornare, a questo punto, l’itinerario delle mie personali opinioni, quanto stimolare l’espressione di opinioni, testi, documenti, atteggiamenti che altri sicuramente ebbero e che sono rimasti finora sconosciuti. 

Un episodio può bastare a sottolineare l’utilità di questa ricerca. Nel maggio 1977 ebbi un colloquio con l’allora Patriarca di Venezia Cardinale Luciani il quale, con molta semplicità, ebbe a dichiararmi che il suo atteggiamento sulle Acli mutò di segno – da positivo a negativo – nel 1969 quando alla Cei un vescovo considerato esperto in problemi del mondo del lavoro giunse ad affermare che “ormai il 70% degli aclisti è comunista”. Una asserzione – come specificai subito al mio interlocutore – che non era fondata allora come non lo sarebbe oggi. Ma tant’è: il giudizio era stato dato e a nulla valeva rimuovere quello che in termini di logica scolastica si chiamerebbe “il falso supposto”. Lo stesso cardinal Luciani ebbe poi modo di riconsiderare con grande equilibrio l’intera vicenda Acli scrivendo la prefazione di una tesi di laurea sull’argomento: una tesi di contenuto molto problematico sia sulle scelte delle Acli sia sull’atteggiamento della gerarchia ecclesiastica nei confronti di tali scelte. (Pubblicato in AS n20 del 1978). All’inizio del 1978, pochi mesi prima di diventare Papa, Mons. Luciani dichiarava che da quella lettura problematica aveva tratto giovamento e raccomandava la diffusione del libro. 

E’ solo un esempio. Altri se ne potrebbero fare, per illuminare meglio stati d’animo e atteggiamenti che non furono ininfluenti sul corso delle vicende acliste. Ma conviene procedere con ordine. 

2 – Ambivalenza delle scelte del Congresso di Torino

Nella iconografia ufficiale delle Acli il Congresso di Torino è segnato come quello che sancisce la piena autonomia dell’organizzazione, segna la fine del collateralismo con la DC (e con ogni altro partito) e afferma il principio del voto libero personale e responsabile del lavoratore cristiano. 

In altra sede (QAS n1/76) si è messo in luce come queste acquisizioni, sulle quali pure si registrò in congresso una maggioranza schiacciante, venissero vissute da una parte del movimento come punto di arrivo (cioè come frutto maturo e definitivo di un processo avviato da tempo) e da altri come punto di partenza (cioè come la promessa di un nuovo itinerario politico per una nuova dislocazione anche politico partitica dei lavoratori cristiani). 

Questa ambivalenza c’è negli stessi antecedenti di Torino. Già nel congresso di Roma del 1966 la critica alla DC accusata di moderatismo, di involuzione, di responsabilità nel fallimento ormai pressocché consumato della politica di centro sinistra, sembrava aver raggiunto un punto di non ritorno. C’è uno scarto evidente tra la relazione congressuale di Labor, tutta imperniata sui toni critici e la sua replica al dibattito, dalla quale traspare l’evidente preoccupazione di non portare a sbocco immediato i risultati di quella critica che, pure il congresso aveva mostrato di condividere largamente. Identica situazione le Acli vivono alla vigilia delle elezioni politiche del 1969, quando il CN, pur confermando una attitudine complessivamente critica verso la politica della DC, si conclude con l’invito esplicito e univoco rivolto agli aclisti a votare per la DC, sia pur con una qualificazione – come allora si disse – esclusivamente politica, e quindi con una implicita relativizzazione del significato del voto. 

La spiegazione del Congresso di Torino va ricercata in tutta l’attività delle Acli nel corso degli anni 60: una attività che tutti riconoscono feconda e piena di promesse sul piano della ricerca culturale e della attivazione dei processi sociali. Le analisi dei convegni di studio di Vallombrosa, la capacità di interpretazione delle novità emergenti nella società italiana, la naturale ricettività nei confronti degli impulsi innovatori del Concilio, il rilancio deciso del tema dell’unità sindacale, che implica il superamento degli steccati ideologici nel rapporto con i comunisti a livello di base, le occasioni sempre più frequenti di scambio e di dialogo, è come un corpo che cresce dentro un vestito che di giorno in giorno sembra diventare più stretto. 

Da tale fenomeno di crescita nasce, in una parte delle Acli e segnatamente nel gruppo dirigente che fa capo a Labor, il bisogno dello “sbocco politico” o meglio di un “nuovo” sbocco politico che superi, in meglio, le insufficienze di quello tradizionale. E’ di questi anni – dal 1966 al 1969 – l’immagine del missile a tre stadi che Labor illustra in ogni contrada aclista: lo stadio sociale, lo stadio sindacale, lo stadio politico. Se non c’è il terzo stadio, questo è l’assunto di fondo, si entra in orbita ma non si arriva sulla luna. 

Non era però soltanto Labor a vivere questa ricerca: non era soltanto il gruppo dirigente centrale. Il riscontro di base era (o almeno appariva) largo e significativo. E nasce proprio da questa constatazione una prima provocazione costruttiva che vorrei rivolgere direttamente ai tanti dirigenti e militanti di allora. Era o non era, a quel tempo, senso comune, sensazione diffusa, dentro le Acli, che fosse necessario un cambiamento profondo delle risposte politiche o, come allora si diceva, un “nuovo modo di fare politica”? La via democristiana – cioè il tentativo di conquista di una crescente influenza dentro il partito – era stata percorsa negli anni 50 con le iniziative di Penazzato e Pastore e sembrava ormai impraticabile, altre strade apparivano necessarie. Quanto accadeva in aree vicine sembrava renderle concretamente praticabili. Da questo contesto nasce dapprima il processo aggregativo ACPOL, cui dà vita Labor e al quale, con un arco di forze molto ridotto rispetto alla ipotesi originaria, figlia poi l’esperimento del MPL caduto alle elezioni del 1972. 

Dal 1966 al 1969 le Acli lanciano e ricevono impulsi per una strategia del cambiamento. Verso quali pianeti? Il primo pianeta è la sinistra sociale della DC che si esprime nella corrente Forze nuove. Essa non nasconde uno stato di sofferenza di fronte alla gestione moderata del partito e al blocco delle riforme. Non mancano dichiarazioni di singoli e di gruppi che rivelano una disponibilità e una propensione all’uscita. Il secondo pianeta è la sinistra sindacale CISL, quella, per intenderci, che sta conducendo una dura battaglia per imporre dentro la CISL la linea dell’unità sindacale e del superamento della discriminazione anti-comunista. Il terzo pianeta è la sinistra socialista lombardiana che si trova (è il caso di dirlo) a…. mal partito all’interno del processo di unificazione del PSI con il PSDI. 

Per quella parte di Acli che crede all’esigenza di un nuovo sbocco politico la prospettiva non è dunque irrealistica e infondata: c’è uno spazio, ci sono delle disponibilità. Una verifica concreta va fatta. Si valuta che non possono essere le Acli in quanto tali a compiere direttamente questa verifica (la loro natura è complessa: potrebbero insorgere gravi complicazioni), si preferisce liberare Labor perché compia la verifica, ma, nel contempo, si presuppone che le Acli debbano essere – formalmente o no – il primo e naturale sostegno della nuova impresa. Si innesta qui una seconda provocazione costruttiva a tutti coloro che presero la parola al Congresso di Torino, compresi quegli esponenti politici democristiani che, avendo già aderito all’ACPOL, svolsero discorsi che nell’opinione pubblica e all’interno della stessa DC vennero letti come dichiarazioni di disponibilità a sostenere nuove esperienze politiche. Tanto dovevano essere avvertite queste spinte centrifughe nella DC ( e dalla DC) che nel corso del 1969 corse con insistenza dentro le Acli la voce di una memoria che l’allora presidente del Consiglio On. Moro avrebbero inviato (è incerto se direttamente o mediante mons, Costa) a Papa Paolo VI per segnare il pericolo di una nuova aggregazione politica di cattolici, alternativa alla DC, promossa dalle Acli. La voce non trovò allora conferma, ma non venne neppure smentita. Un controllo potrebbe essere utilmente compiuto tra i carteggi in possesso della Fondazione Aldo Moro, costituita nel 1979 dopo la tragica scomparsa dello statista. 

Non ha invece bisogno di verifica l’atteggiamento pubblico assunto dall’allora Segretario della DC, on. Piccoli, all’indomani del Congresso di Torino, sia nei confronti di quelli democristiani che si erano mostrati sensibili alle tesi liberalizzatrici del congresso, sia nei confronti della gerarchia cattolica alla quale, sostanzialmente, egli sottomise il problema Acli, presentato come una “associazione di laici che operano nel senso dell’azione pastorale per la fermentazione cristiana delle realtà terrestri” con una implicita richiesta di verifica delle credenziali acliste sul piano propriamente ecclesiale. All’On Piccoli potrebbe invece utilmente domandarsi quali furono le ragioni che lo spinsero ad assumere quell’atteggiamento, che aprì un nuovo fronte polemico tra la DC e le Acli, quali furono le valutazioni che egli allora fece, quale tasso di “pericolosità” dal suo punto di vista attribuiva alla ventilata iniziativa di matrice aclista.

L’altra parte delle Acli, quella che considerava il Congresso di Torino come un punto di arrivo, riteneva comunque di poter convergere senza difficoltà sulle tesi finali del congresso (fine del collateralismo, voto libero) anche perché esse, lasciando intatta la libertà di militanza partitica, permettevano di esaltare quello che poi sarebbe stato il ruolo educativo e sociale delle Acli, con una accentuazione cioè del momento pre-politico nel quale si sarebbe dovuto riversare il massimo delle energie acliste, senza preoccupazioni di supporto a questa o quella agenzia politica, vecchia o nuova che fosse. Questa posizione, per la verità, fu esposta da tutta la maggioranza di Torino perché rappresentava la linea di mediazione del congresso, quella su cui era avvenuta l’unificazione del massiccio consenso sulla mozione finale. E’ perciò difficile stabilire, persino a posteriori, quali fossero gli esponenti della teoria dello sbocco politico e quali quelli dell’accentuazione sociale delle Acli. Anche perché il “dopo Torino” presentò numerosi equivoci. Prima, durante e dopo il congresso, insomma, vi fu comunque dentro le Acli una grossa area attendista che, nella sostanza, approvava, comunque non dissentiva, sosteneva ma fino ad un certo punto di compromettersi in modo irreversibile. Da una situazione del genere deriva anche la sorpresa del risultato elettorale MPL delle elezioni 1972. Sorpresa naturalmente solo per quanti avevano ritenuto di poter leggere in modo univoco le opzioni congressuali di Torino.

A Torino infine una minoranza esigua ma polemica che dette battaglia su due fronti: un fronte politico (tesi Borrini) che accettava tutte le acquisizioni di autonomia, di fine del collateralismo e di voto libero, ma sosteneva che le Acli come tali dovessero compiere in ogni occasione elettorale “una scelta, una sola scelta”. Un fronte ecclesiale (tesi Bersani) che cominciava a formulare una obiezione più radicale di “snaturamento” dell’organizzazione per effetto della accelerazione politica che il congresso le imprimeva; snaturamento rispetto alle finalità consacrate nelle formule di uno statuto che la prassi aveva comunque abbondantemente superato. Questi due tronconi usciranno dalle Acli in momenti diversi per riunificarsi poi nell’MCL. 

La maggioranza ebbe per la verità un atteggiamento di sufficienza e di “superiorità” nei confronti di questa minoranza della quale colse, probabilmente, soltanto i dati della consistenza numerica e della gracilità culturale, trascurando (e lo si dovette constatare successivamente) le forti capacità di relazione politica ed ecclesiastica che essa mostrò di avere. Capacità che non furono certamente estranee alla formazione del giudizio negativo sulle Acli da parte della CEI ed in particolare di Paolo VI, così come non furono certamente estranee all’accreditamento ecclesiastico di una prospettiva di successo che in effetti la scissione non aveva. 

Su questi aspetti della vicenda si dovrà tornare quando si esamineranno i problemi propriamente ecclesiali del processo aperto con il congresso di Torino. Ma è indubbio che risulterebbero oltre modo arricchenti ai fini di una corretta ricostruzione storica almeno due testimonianze: quella di mons. Pangrazio, allora segretario CEI e soprattutto quella di Card. Giovanni Battista Bonelli, allora Sostituto Segreteria di Stato, il quale ultimo ebbe un ruolo determinante nella sua funzione di tramite tra il Papa e le vicende in atto nelle Acli, compresa la genesi e l’attuazione della scissione. 

3. Il dopo torino: speranze, timori, fallimenti

Con il congresso di Torino crescono attorno alle Acli attese e timori. Le attese di chi spera in un cambiamento profondo, i timori di chi vuole mantenere lo status quo. Resta ancora attorno alle Acli quell’alone di ambiguità, di incertezza, di interdeterminatezza, che ha fatto storicamente la fortuna e il dramma di questa organizzazione. Comunque c’è nell’opinione pubblica e nelle centrali del potere la convinzione che le Acli siano una cosa importante e che quindi i loro orientamenti abbiano un peso, un influsso, una reale riscontro nell’atteggiamento della masse dei lavoratori cristiani. 

Conferma di questa affermazione si ha, sul versante ecclesiale, con la lettera di Card. Poma, Presidente CEI, a Gabaglio (marzo 1970), che manifesta, appunto, una viva preoccupazione della gerarchia cattolica per i pericoli di snaturamento della funzione formativa delle Acli e di devianza culturale con inquinamenti di carattere marxista. Preoccupazioni poi aggravate dalla formulazione dell’”ipotesi socialista” avvenuta nell’agosto 1970 e dalla costituzione del MPL che anche per il venire meno degli apporti dei pianeti precedentemente ritenuti disponibili, veniva sempre più fatto coincidere con l’area aclista propriamente detta, anche se i risultati elettorali del 1972 dovevano incaricarsi di dimostrare che neppure con questa area vi era una coincidenza effettiva e totale. 

Il risultato del 1972 è comunque la chiave più giusta per comprendere la portata della crisi che colpì le Acli. Che ciò fosse legittimo o no, le potenzialità politiche delle Acli vennero in quella circostanza misurate da chi aveva intenzione a farlo, sul metro del deludentissimo risultato ottenuto dall’MPL. La sconfitta di questo diventò politicamente la sconfitta delle Acli. Le intenzioni degli uomini restavano fuori discussione, ma il dato fu questo e lo si riscontrò subito quando dopo l’esito elettorale vennero presentate per l’incasso tutte le cambiali ritenute fino a quel momento in sospeso. 

A partire dalla primavera del 1972 la capacità delle Acli di essere – per amici e avversari – polo generatore di attesa o di timore, subisce un crollo verticale. La sconfitta della linea dello sbocco politico è totale e irrimediabile. Chi ha parlato di nuova domanda politica – e tutti ne abbiamo parlato – si trova tra le mani un disastro: o la nuova domanda politica non esisteva, o, se esisteva, si era tranquillamente appagata delle risposte tradizionali. 

Nell’immediato i protagonisti non ebbero coscienza della portata della sconfitta e delle conseguenze che essa avrebbe fatto pesare, ancora a lungo, sulle Acli, sul loro gruppo dirigente, sulla loro credibilità complessiva, sulla loro capacità di fare opinione. Né bastavano le distinzioni formali, le proclamazioni di autonomia e anche le prese di distanza, precedenti o successive, rispetto all’MPL. 

Se non si mette a fuoco questo crocevia nella vicenda delle Acli, è impensabile ricostruire con una qualche assennatezza le vicende del decennale trascorso. Un movimento di massa accreditato di una forte caratura culturale, sociale e politica, si era fatto misurare in un voto politico e rivelava una inconsistenza paurosa rispetto alle attese e/o ai timori suscitati. 

Su questo capitolo della storia aclista si è scritto per un verso troppo, specie nella polemica interna delle componenti che hanno segnato la vita dell’organizzazione fino al Congresso di Firenze del 1975, per un altro verso si è scritto troppo poco, almeno in termini di ricostruzione attendibile per l’uso degli storici. 

E’ allora bene porre alcuni quesiti perché quanti se ne sentano coinvolti possano rispondere in modo da concorrere ad un ricostruzione storica il più possibile completa. 

In particolare si può chiedere a Livio Labor se, nell’itinerario di progressivo impoverimento dell’ipotesi iniziale dell’MPL, per il venire meno dei rapporti della sinistra democristiana, della sinistra sindacale e della sinistra socialista, egli non avesse avuto la percezione delle dimensioni irreparabili dell’insuccesso e se non avesse pensato he, al di là di ogni precauzione e distinzione, di ruoli e di persone, ciò avrebbe avuto un effetto del tutto negativo sulle Acli. 

Al gruppo dirigente che nelle Acli assunse l’eredità di Labor, in particolare a Emilio Gabaglio, si può domandare se la percezione, che esso indubbiamente ebbe, del declino della probabilità di riuscita dell’MPL, non dovesse spingerlo ad accentuare le distinzioni nei confronti di questo movimento piuttosto che spingere per un processo di oggettiva identificazione che, venendo meno il MPL, sarebbe stato pagato solo dalle Acli. Tanto più che tale processo veniva sostenuto con una impostazione fortemente ideologizzata come quella legata alla “ipotesi socialista”. 

All’interno di questo gruppo dirigente chi scrive deve, a questo punto, fare necessariamente un cenno autocritico: la percezione del declino della prospettiva MPL la ebbi in modo preciso e tempestivo ma un senso di solidarietà vissuta in termini emotivi mi impedì di tradurre questa percezione in una battaglia politica. Credo di non essere stato il solo a vivere questa contraddizione. 

Un terzo quesito potrebbe essere rivolto all’ON Carlo Donat Cattin, allora ministro del lavoro e leader della sinistra democristiana di Forze Nuove, il quale all’indomani del tracollo MPL esercitò un pesante intervento sulle Acli, in particolare chiedendo un cambio di Presidente. Un intervento dall’esterno così massiccio e così traumatico su una organizzazione come le Acli non ha rischiato di infliggere un colpo senza rimedio alla dialettica sociale indebolendo un punto di riferimento di importanza vitale non solo per l’area cattolica, ma anche per la stessa “sinistra democristiana”? 

4. Lo sforzo per ritrovare uno spessore comune

Chi rimase a fare le Acli ebbe una sensazione di precarietà, di instabilità, che durò a lungo. Le divisioni interne che pure nascevano da legittime differenziazioni sui modi di intendere l’organizzazione, l’accerchiamento esterno, la perdita di quotazioni sul mercato dell’opinione, una situazione dura per tutti, specie per quelli che avevano conosciuto dentro l’organizzazione altre stagioni di prestigio e di considerazione, le crescenti difficoltà organizzative ed economiche.

Guardando indietro agli anni che vanno dalla metà del 1971 (deplorazione del Papa Paolo VI) alla metà del 1973, si ha l’impressione di un movimento che cerchi disperatamente di salvarsi sulla base di tentativi multidirezionali: 

- La creazione di una maggioranza cosiddetta di centro-destra che emargina all’opposizione una sinistra, nella quale è importante si situi, insieme con lo “storico” Brenna, anche l’ex presidente Gabaglio. 

- La votazione a maggioranza in CN di un documento sui rapporti ecclesiali, cui ci si affida per un ripristino di relazioni di buon vicinato con l’episcopato italiano sul quale, non meno che sulle Acli, si fa sentire il peso della deplorazione di Paolo VI e che appare incerto, tra una residua predilezione per le Acli (in alcune realtà provinciali neppure troppo cambiate) e una risposta da dare alle insistenze centrali perché sia promosso il neonato MCL.

Quando riprende una vita? – non dico ancora una vitalità – delle Acli chiamate ancora una volta (la prima fu nel 1948 quando si dissanguarono per sostenere il sindacato democratico nato dalla scissione della CGIL) a superare se stesse mediante una nuova incarnazione? 

La risposta è opinabile. A mio avviso (e almeno per la mia esperienza personale) la ripresa avviene dopo il convegno sulle classi sociali (Rimini, autunno 1973). Il gruppo dirigente che si è raccolto in strettissima solidarietà attorno alla presidenza Carboni comprende che dalle secche della crisi non si esce se non si ha il coraggio di riaprire la pagina della ricerca e dell’approfondimento culturale, il che significa, nella situazione data, il coraggio di rimettere in discussione le esasperazioni ideologiche con le quali si era dato seguito, nella ricerca delle Acli, al congresso di Torino. 

Bisognava cioè rimettere in discussione il Convegno di Vallombrosa 1970 non tanto per la conclusione della famosa “ipotesi socialista” quanto per la insufficienza e lo schematismo dell’analisi sociale e politica su cui quella ipotesi si era fondata e per le estrapolazioni ideologiche che ne erano derivate. In questo senso il convegno di Rimini 1973, soprattutto per gli apporti che vennero da studiosi come Ardiò, Sylos Labibi e Gorrieri, potrà dare fondamento ad una piattaforma culturale delle Acli liberata da una visione manichea della lotta politica intesa come scontro irreparabile classe contro classe, e ciò non per ricadere nelle secche di in un interclassismo acritico, ma per avvicinare in termini storici alcuni obiettivi di riforma mediante un consenso democratico capace di sconfiggere le resistenze conservatrici. 

Per quel che può valere la mia testimonianza – la testimonianza di uno che c’era e che ebbe qualche responsabilità nella conduzione culturale delle Acli di questo periodo – il punto di ripresa è Rimini 1973. E’ infatti in quella occasione che, sia pure in una dialettica che appariva all’esterno irriducibile, i gruppi interni delle Acli ritrovavano il gusto del confronto e del dibattito per comunicare tra di loro e non per separarsi ulteriormente. E questo avviene perché si trovano in presenza di una ipotesi culturale e politica discutibile quanto si vuole ma concretamente esistente. 

In questa fase ognuno gioca la sua parte. La destra funziona da argine verso le emorragie scissionistiche, la sinistra “copre” verso i settori più avanzati dell’ambito politico e sindacale, il centro si fa carico del duro onore della gestione, della proposta, della ricomposizione. 

Aver toccato con mano i guasti cui conduce l’esasperazione delle lacerazioni, come avviene nel corso della vicenda del referendum abrogativo del divorzio (Maggio 1974) facilita la ricerca della soluzione unitaria di gestione, che matura al congresso di Firenze 1975. 

Questa decisione non è gradita a quanti dentro e fuori dalla Acli hanno sposato lo slogan della “chiarezza”. Per la verità questa soluzione unitaria non è molto più di un compromesso. E tuttavia rappresenta il massimo di risposta chiara ad una situazione complessa di un movimento sempre complesso e problematico che si rimette alla ricerca di una identità attuale capace di rispondere alle domande che vengono dalla società e dalla Chiesa. Con un corollario decisivo: che si mette in grado di farlo operando non per segmenti separati, ma con uno sforzo di convergenza che tende all’unità e alla ricomposizione dell’omogeneità di uno spessore aclista su cui riprendere e progredire. 

5. Valutazioni conclusive e interrogativi aperti

Lo scopo delle note che precedono è, come si è già detto, solo quello di stimolare la ricerca e l’accumulo di materiali su una fase storica delle Acli che non può essere messa tra parentesi o peggio scartata via un inaccettabile “Heri dicebamus”. Penso che i numerosi studi compiuto o in corso di svolgimento sulla vicenda complessiva delle Acli abbiano già messo in luce la contraddittorietà e la complessità di loro scelte e comportamenti specie in questa fase. Ma la conclusione da trarre non è quella della “rimozione” della storia; è piuttosto quella della rilettura della storia, con occhio più sereno e spirito più penetrante. Tale è l’invito che ho voluto qui rivolgere in più direzioni, anche chiamando in causa per nome e cognome testimoni diretti delle vicende evocate. Altri non sono nominati o perché hanno già scritto (come P. Aurelio Boschini) o perché hanno annunciato di voler scrivere, come mons. Cesare Pagani,  che fu assistente delle Acli fino al momento in cui, tolto il “consenso” scomparve dalle Acli la  figura dell’Assistente. Ma l’invito è rivolto a tutti, senza eccezioni, anche un piccolo contributo può aiutare a ricomporre la verità. 

Restano aperti gli interrogativi che la vicenda 1969-1979 ha posto. Lo spartiacque del 1972, segnando la sconfitta della linea dello sbocco politico, ha compromesso senza rimedio anche quella del ruolo educativo e sociale delle Acli? Se fosse vero quanto ha sostenuto Gabriele Gherardi (amici e compagni – ed. Coines 1976) avendo le Acli contribuito a realizzare il pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici, esse avrebbero con ciò raggiunto il proprio fine e quindi dovrebbero ammetterlo, ovvero sopravvivere a se stesse ma senza più ruolo storico. Questa posizione è il logico corollario dell’atteggiamento di chi visse l’intera operazione Torino (ma soprattutto il dopo Torino) in funzione della ricerca di uno sbocco politico nuovo. 

Ma per la maggiore parte degli aclisti per quelli che sono rimasti a fare le Acli, compresi i giovani che (dato incredibile per un movimento colpito da una crisi così radicale) vi si accostano ancora, l’idea dello scioglimento per raggiunto scopo sociale non è soddisfacente. Di fatto, con livelli maggiori o minori di consapevolezza, la ricerca Acli a partire dallo spartiacque 1972 si è sviluppata non già nella direzione di una assurda e improponibile rifondazione. Ma di una riscoperta e in molti casi di una scoperta tout court. Di una incarnazione autonoma di un ruolo educativo e sociale. 

Questa ricerca che parte, a mio avviso, dal Convegno di Rimini 1973, trova formulazioni diverse, frutto spesso di mediazioni tra le diverse sensibilità, ma con un denominatore comune unificante: quello appunto della rinuncia a riproporre l’ipotesi di nuovi sbocchi politico-partitici odi nascondersi dietro alla siepe dell’ideologia e nel contempo dela costruzione di uno spessore culturae e operativo capace di affermarsi nella società civile, tra i lavoratori, nel loro modo di vivere e di essere impegnati. Si accennava a diverse formulazioni: dalla linea ugualitaria dele riforme, alla nuova cultura dello sviluppo, dalla quarta dimensione alla crescita politica della società civile, dalla linea della partecipazione alla linea della progettualità. Il tutto inquadrato in un disegno politico generale che rifiuta le contrapposizioni scismatiche e ricerca, nelle forme concretamente possibili, l’unità delle forze di progresso per cambiare la società nel segno della umanizzazione. 

Va avanti questo disegno? A giudicare dalle formulazioni congressuali e dal livello del consenso che esse ottengono, la risposta è necessariamente positiva. Specie il congresso di Bologna 1978, ma per molti aspetti anche quello di Firenze 1975, hanno registrato progressi significativi in questa direzione. Nella prassi, tuttavia, non mancano le sollecitazioni divaricanti e nuove contraddizioni che si innestano, dalle continuamente risorgenti tentazioni di “spesa politica” delle Acli su ipotesi di schieramento, alle spinte di aggregazioni interne su basi di omogeneità che alla fine della licenza si rilevano prevalentemente di tipo partitico. 

Dire che il processo sia concluso è dunque prematuro: la nuova incarnazione delle Acli è ancora in corso di gestazione. 

Nella mozione approvata dal Congresso di Torino, dieci anni or sono, era scritto, tra l’altro “La vocazione politica delle Acli è diversa da quella dei partiti, ma ugualmente necessaria e influente in una società che deve riscoprire in se stessa, esaltandole, tutte le espressioni di pluralismo e le possibilità di autogoverno”. E ancora “Il XI congresso nazionale riconferma ed esalta ila funzione delle Acli, il loro ruolo autonomo ed originario. Di forza educativa e sociale cristiana, che opera a livello sociale e culturale esercitando, in quanto movimento, una pressione sulle strutture e sugli strumenti che realizzano la partecipazione dei lavoratori della società democratica. L’azione delle Acli, in questo movimento di massa – si colloca quindi a livello della società e si propone di agire in rapporto continuo con la sensibilità e gli atteggiamenti collettivi dei lavoratori senza aspirare a deleghe di rappresentanza per concorrere ad occupare ruoli di gestione istituzionale del potere: il metodo delle Acli è la formazione, il dialogo, la mobilitazione collettiva, l’azione sociale”. 

Ecco, la nuova incarnazione delle Acli, scartate tutte le esperienze negative, sconti tutti gli insuccessi, non può che muovere da questa premessa, che è anche il traguardo da riconquistare ogni giorno. IL cuore del nostro futuro prossimo è insomma nel nostro passato prossimo. Esserne fieri, saperlo criticare, riuscire a riproporne il meglio, dopo averlo depurato dalle scorie della strumentalità: è il tema vero delle Acli degli anni 80, cioè il tema vero dei giovani che dovranno costruirle. 


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