Dov'eravamo


Cari amici e invitati,

Quando abbiamo pensato il programma della nostra assemblea IPSIA volevamo fosse proprio un occasione per riflettere insieme sulle prospettive. Era importante uno sguardo da fuori che ci indicasse un percorso ricordandoci il contesto in cui lavoriamo e abbiamo lavorato, e farlo con chi in questi anni è stato un nostro compagno di strada, gli spunti e i pensieri di questa mattina saranno simbolicamente lasciate alla riflessione dei nuovi organi sociali. E qui andiamo al punto che abbiamo voluto ricordare nelle testimonianza di apertura.

Il 24 febbraio 2022 l’invasione russa dell'Ucraina, una nazione libera e democratica con un governo legittimo, ha impresso il sigillo alla fine dell' illusione del progressismo occidentale, un turning point storico secolare con il ritorno della guerra nell'Europa continentale su i suoi confini orientali. 


Con Francis Fukuyama pensavamo di avere davanti a noi un avvenire di progresso e di pace. La fine della storia. Lo scrivevamo e pensavamo in tanti, in quel trienno di speranze che abbiamo tutti condiviso dal 9 novembre 1989, alla figura di Michail Gorbaciov, in cui sembrava avviarsi un nuovo ordine mondiale e pacificato. 

Che però qualcosa non andasse per il verso auspicato lo sperimentammo subito, già nell'estate del 1991 con le convulsioni del regime comunista jugoslavo, travolto dalla guerra civile e poi le guerre nel Golfo, nel Caucaso, in Sudan, nel Corno d'Africa, poi l'11 settembre, l'Afghanistan e la seconda guerra in Iraq e la Siria. Era finita l'era della pace garantita dalla guerra fredda e non era finita la storia.

In questi anni, il combinato disposto della globalizzazione e della fine dei vecchi equilibri geopolitici internazionali ha provocato il completo dissesto della politica internazionale. Un intero sistema di relazioni di rapporti tra Stati, di egemonie politiche ed economiche, si è progressivamente dissolto in un quadro in cui non vi è stata nessuna governance che ha sostituito l’equilibrio della guerra fredda.

Stiamo ancora spalando le macerie del vecchio ordine e i muri portanti occidentali sono ormai insufficenti allo scopo. Le narrazioni ricorrenti suonano oggi apocalittiche, fra guerre, epidemie, disastri ambientali e migrazioni di massa. Alla crescita esponenziale di paesi come la Cina, l’India e il Sud Est asiatico e dei loro modelli autoritari e dittatoriali, ha fatto da contro-altare in occidente, una crisi del sistema finanziario, dei debiti sovrani (dal quale non siamo ancora usciti) e del sistema politico.

Contemporaneamente, (ero a Parigi ad un forum nei giorni scorsi quando vi è stata la commemorazione del Bataclan) un movimento reazionario di massa, un’introversione patologica, una pulsione di morte distruttiva e suicida ha travolto una cultura e una religione millenaria come l’islam, e si è manifestata con il terrorismo nelle città d’Europa, in uno dei sui momenti politicamente più delicati dei suoi 60 anni, soprattutto dopo la Brexit e la lunga stagione fredda dell’austerità e della crisi.

E alla fine l'arrivo dei populismi, iniziato con la Brexit e l’elezione negli Usa di Trump, di cui ben più rilevanti e di lungo periodo potrebbero essere le conseguenze di politica interna e di azione culturale profonda. Perché la secessione del popolo e di una fetta consistenza delle fasce intermedie della società dalla normale politica democratica, la poderosa ridislocazione di poteri e rappresentanza di interessi che ne potrebbero seguire, sembrano consolidare letteralmente sotto i nostri occhi, i contorni di un nuovo assetto, di una delle possibili risposte ed uscita dalla crisi posta dai processi di globalizzazione di questi anni. Se nel “secolo breve” dalla guerra mondiale si usci con un compromesso keynesiano, roosveltiano, la nascita del welfare state, un compromesso tra stato e mercato, tra capitale e lavoro, oggi potrebbe profilarsi un nuovo compromesso tra le libertà e il mercato, dove alcune delle garanzie del sistema dei diritti e delle procedure, della distinzione ed equilibri di potere, della democrazia che abbiamo sin qui conosciuto, potrebbe arretrare sensibilmente verso nuove ed inedite forme di autoritarismo, di fronte ad un nuovo rapporto tra masse e potere.

Il tutto in cambio di un processo di inclusione della gente che avverrebbe non con l'ampliamento della sfera dei diritti e delle responsabilità e dell'emancipazione, ma solo su un piano acquisito individuale consumistico e di accesso alle risorse: una risposta rapida e diretta a bisogni desideri, pulsioni e paure ...la società liquida evocata da Bauman.

Ci troviamo a gestire una rabbia sociale che non nasce affatto dalla aspirazione ad inesistenti alternative di sistema o nuovi mondi possibili, ma dal senso di esclusione di interi corpi sociali dai processi di modernizzazione capitalista, di benessere e di sicurezza. Una fase che sembra consegnare per lungo tempo al populismo di destra su parole d’ordine allo stesso tempo identitarie e divisive, revansciste e moderne, la rappresentanza e la voce a ceti e gruppi sociali che la politica non riusciva più a raggiungere. Sono gli stessi ingranaggi delle democrazie rappresentative che scricchiolano pesantemente di fronte alla pressione di masse che desiderano un esercizio diretto del potere sollecitate da un’uso degli appelli al popolo, dalla consultazione continua, dalla rilevazione in diretta dell'opinione e del consenso, l'uso del web che nello specifico delle elezioni americane ,come ha scritto il corriere della sera,”ha trasformato il multiforme universo di internet in un esercito di consenso reazionario”. Processi accentuati poi dall’impatto di una pandemia secolare che a ha dimostrato tutte le nostre fragilità individuali e collettive. 

Insomma una forma della politica, dell'organizzazione e rappresentanza degli interessi, un'idea e una prassi dell'occidente e del novecento che si è chiuso definitivamente alle nostre spalle con un accelerazione improvvisa.

Ed è evidente perciò che, se finisce l'universalismo giuridico e l'illusione di un ordine mondiale, liberaldemocratico, qual è il criterio generale che può rivendicare e legittimare il potere oggi? Quale se non il diritto storico, del suolo, del sangue, dei confini territoriali, lo ius bellum? Ed è esattamente quello che sta succedendo in Ucraina e non solo e non da oggi.

A tutto ciò non sappiamo rispondere se non con afflati etici. Mentre qui si svolgeva la manifestazione per la pace io ero a Leopoli : fa un certo effetto vedere sul cellulare le immagini del corteo pacifista mentre tu sei nello scantinato di un edificio durante un allarme missilistico. Non si può semplicemente invocare l'etica della convinzione, la propria coerenza morale. Tu devi assumerti l'etica weberiana della responsabilità, che è quella di dire: ma se io fossi il paese invaso, cosa farei? Cosa vuol dire pace quando ti aggrediscono dall’aria e da terra ? Quando ti minacciano con l'uso del nucleare e ti lasciano al buio e al gelo? Se avessi delle responsabilità politiche, organizzative, associative come mi comporterei? Che decisioni assumerei? Non basta dire pace….diventa una retorica stucchevole. Quali sono le condizioni politiche che rendono possibile la pace?

Ma c'è un altro tema che ci interroga profondamente, inedito e per certi aspetti inintelleggibile per il nostro mondo, che la resistenza del popolo ucraino sta dimostrando e che, è stato il vero elemento di sottovalutazione da parte russa, ma anche dalle cancellieri occidentali all'inizio del conflitto: la forza della resistenza ucraina è in gran parte dovuta al fatto che a Kiev stiamo assistendo, a costo di enormi sacrifici e di vittime, ad un impressionante processo di costruzione nazionale che mette al centro la questione della identità nazionale e della appartenenza patriottica allo stato. Gli ucraini hanno dimostrato di essere disposti a combattere per la propria libertà, per la propria patria, a rischio della vita. E noi? Noi qui nel 2022 nel nostro paese, saremmo disposti a tanto?

In un contesto nel quale la politica torna ad essere scabra e drammatica, un pezzo di Europa si sta ridefinendo nella contrapposizione schmittiana con il nemico. Nello stato di emergenza si rinforzano valori conservatori e neonazionalisti ed emergono linee di frattura definite in modo brutale. La conseguenza è l'impatto di questa guerra in termini geopolitici sull'economia globale, è di come si ridisegneranno gli equlibri di potere fuori e dentro gli stati, la sopravvivenza o meno di quel simulacro che è rimasto del diritto internazionale. Le conseguenze saranno enormi. 

Ma la politica ci interroga continuamente e lo abbiamo visto su un altro nostro tema di lavoro: le migrazioni. Non è possibile assistere nuovamente allo stantio confronto ideologico sugli sbarchi da parte del governo patrio. Si criminalizza ancora una volta chi fa il suo mestiere e dovere che è quello semplicemente di salvare le persone in pericolo, dovunque e chiunque siano: santi o peccatori, senza distinzioni razza, religione, sesso, condizione sociale o appartenenza politica. Le persone arrivano e continueranno ad arrivare via mare o via terra.  Siamo sempre congelati lì, in uno scontro senza senso, per vuote parole d'ordine.  Occorrerebbe togliere la terra sotto i piedi dell'avversario, a partire dal riconoscere che nel 2022, dopo tutto quello che è successo, il principio del primo approdo, formulato nel trattato di Dublino (pensato nel 1988 e approvato nel 1990 non ha più alcun senso). 

Quello che succede sulla #RottaBalcanica, dove come IPSIA ACLI lavoriamo da anni, ne è la riprova. Lì non ci sono nè barche, ne Salvini, ma,  come emerge dai report recenti, dall'inizio dell'anno si sono contati 280 mila ingressi, di cui 22 mila solo ad ottobre. Vi sono strutture di accoglienza su i confini dell' area Schengen e la pretesa che i poveri e fragili paesi balcanici se ne facciano carico è semplicemente una vergogna. 

Nel 2022 I confini non sono dei singoli stati del sud est e del mediterraneo, sono europei. Bisogna insistere sulla ricollocazione obbligatoria pro quota fra gli stati ue. Riaprire e potenziare canali legali di ingresso. Il mondo della solidarietà, della società civile internazionale e delle reti europee, delle osc e delle ong, deve offrire una controproposta politica di mediazioni con i governi e la commissione UE anche perchè la semplice, seppur doverosa, contro narrazione etica ed umanitaria, è in modo evidente minoritaria e di scarsa presa sull'opinione pubblica.

Ma le nuove sfide ed emergenze determinate dalla pandemia hanno anche accelerato in alcuni casi la scelta di alcune Ong e osc di affiancare alla attività di cooperazione all’estero una presenza progettuale nel nostro paese. Pensiamo, nelle nostre città, al grande tema della scuola e della cosiddetta povertà educativa. Anche Ipsia ha lavorato sul tema e in un mondo attraversato sempre più spesso, sempre più duramente e sempre più profondamente da fratture e disparità, è un dovere morale costruire reti di solidarietà e di giustizia sociale che tengano insieme la dimensione globale e quella locale, questo impegno sulla solidarietà nel nostro paese ha aperto ed ampliato il grande tema di riflessione sulle politiche sociali oggi.

Lo dico perche qui, a Milano, la sfida è enorme. Una città sempre più ricca, costosa, che asseconda i bisogni materiali e immateriali dei ceti più abbienti, in un'apparenza di consumismo accessibile a tutti, ma che nasconde il formarsi di nuove gerarchie, che si possono scorgere risalendo con lo sguardo i piani dei grattacieli scintillanti della new town e di city life, residenza di nuovi ricchi e potenti. Al di fuori possiamo trovare esclusione e povertà drammatiche ma, per quanto eticamente insopportabile, questo non scalfisce la tenuta dell'insieme, con il rischio semplicemente di abituarsi a convivere con la povertà sotto le proprie finestre o alla porta accanto.

Ecco qui io vorrei dire una cosa. Vorrei fare un richiamo, da laico, del monito di Paolo VI nella APOSTOLICAM AUCTOSITATEM. Non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non soltanto gli effetti ma anche le cause dei mali; l'aiuto sia regolato in modo che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi. Mi permetto di aggiungere che le politiche sociali non possono semplicemente essere l'apertura dei convitto alla servitù, dopo che i padroni sazi si sono alzati dal tavolo. Occorre ricominciare dai diritti sociali di tutti e per tutti.

Ma come sapete la nostra seconda gamba, oltre alla cooperazione allo sviluppo è rappresentata da tutto il

settore del volontariato, servizio civile i programmi e gli scambi giovanile, i percorsi di educazione alla cittadinanza, l’aggregazione. Nel collegarsi nel proporsi e coinvolgere il mondo giovanile dobbiamo aver il coraggio di dirci alcune verità. I flussi informatici che ci attraversano e su i quali i giovani, i millennials e le nuove generazioni z formano le loro identità, stanno provocando un mutamento profondo.  Le tecnologie digitali stanno incidendo sul quadro antropologico. Virtualità, connettività interattività continua plasmano le fonti le stesse della conoscenza e le facoltà cognitive. Come il passaggio dal verbo alla scrittura, il passaggio alla carta stampata. Come la rivoluzione industriale dell'ottocento, come la nascita della televisione e dei media, si tratta una rottura tecnologica evolutiva epocale. Mentre i grandi mediatori istituzionali politici ed educativi faticano a trovare un nuovo ruolo, il sapere diffuso alimentato dai vari wikipedia e social, fa saltare la sacralità del sapere (le aule delle scuole e dell’università, con al centro l’insegnante di fronte agli studenti: passa ancora da li la conoscenza?  Che cosa trasmettere? Come trasmettere? A chi? In questo cambio di paradigma sociale e culturale, che idea di formazione? Che idea di se e degli altri? Che idea della comunità di appartenenza, soprattutto in quei contesti in cui la società multiculturale, con tutte le sue contraddizioni di vita concreta e di identità, si è già concretizzata da anni e in cui siamo già? Siamo già oltre l’orizzonte monoculturale e monoreligioso in cui sono cresciute le nostre generazioni fino a 10-15 anni fa. Siamo in una terra di mezzo, affrontiamo un percorso che non ha più rotte prestabilite.

Nella fasi della vita degli adolescenti, dei giovani, dei giovani adulti, i cambiamenti arrivano in modo immediato: si sarebbe voluto avere più tempo, per parlare, per capire, per passare delle esperienze. Non sipuò. La realtà arriva prima. Non siamo pronti alla velocità di queste trasformazioni.  bisogna perciò avere, non solo capacita d’ascolto, ma anche sempre di ridiscussione.  Chi lavora con i giovani si rende conto di questo passaggio leggero, di questa appartenenza debole e volatile, di questo delega sempre pronta ad essere ritirata, di queste identità incerte. E noi non possiamo limitarci a stigmatizzare, a ristabilire confini, a ricordare il tempo che fu, ad illudersi di tornare indietro, perchè la persona chehai davanti ti interpella per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse, chiede una risposta, un ascolto, oppure semplicemente chiede di poterci essere.

Per questo la sfida educativa è centrale ed è una sfida per noi e per tutti; per questo ipsia, mettendo a sistema le proprie competenze, le reti, le esperienze, sia con le istituzioni scolastiche sia in quella che chiamiamo educazione informale, negli anni scorsi ha investito su progetti educativi nelle periferie di Milano. Lo ha ricordato Mauro Magatti nella presentazione di un suo ultimo libro: a fine ottocento, laddove scriveva il 5 percento della popolazione, quando i nostri padri proposero la scuola obbligatoria per tutti, li presero per matti. Ma era un pensiero visionario, di futuro. Ci si rendeva conto che nella nascente società industriale c'era bisogno di alzare il livello minimo di istruzione della popolazione, altrimenti le cose non sarebbero state in piedi. 

Noi ora siamo in una situazione per certi versi simile. L'evoluzione delle tecnologie, la complessità sociale, ha provocato un ritardo educativo e formativo diffuso molto grande. Per reggere dobbiamo avere un pensiero che accompagni e ci accompagni, per aumentare la comprensione di quello che sta succedendo attorno a noi.  Il tema della formazione va rimesso al centro, se no le democrazie non potranno sopravvivere, perchè la velocità delle altre trasformazioni, degli altri comparti della nostra vita sociale è troppo forte. 

Mi permetto di leggervi un pensiero attribuito a Jorges Louis Borges, ma che in realtà non si sa chi lo abbia scritto:

Ci sono momenti in cui si deve vivere la propria vita per capire se stessi. 

Perché si cambia, il nostro mondo cambia, cambiano le cose senza che te ne accorgi, un mattino ti alzi ed è come se ti svegliassi dopo cento anni.  E ti chiedi cosa sia successo a te, nel frattempo: se tutto è cambiato dov'eri tu, che non te ne accorgevi? Chiedi, ma nessuno risponde.

Non sai bene se la vita è viaggio, se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno dopo giorno. Non sai se ha senso. Ma in certi momenti il senso non conta. Contano i legami. 

Nulla più di questa frase può fare sintesi migliore dell’analogo sentimento di spaesamento che anche noi stiamo vivendo, il segno, la cifra che sembra segnare la nostra contemporaneità e allo stesso tempo la ricerca di un punto fermo.

Abbiamo la fortuna, come generazione, di vivere un momento unico. Quello che Karl Jaspers, a proposito delle religioni,  chiamava un momento assiale. Jaspers fece un una osservazione divenuta poi patrimonio della riflessione dell’uomo sulla sua propria storia. La constatazione che tra l’800 ed il 200 a.c si era registrata una sincronia di pensieri e uomini che poi hanno fondato tutto quanto si è successivamente espresso nella formazione delle principali civiltà. Confucio, Laozi, Buddha ma anche la composizione delle Upaniṣad, Zarathustra, l'Antico testamento, i Greci, filosofi, Esiodo ed Omero. Jaspers individuò questo periodo come una svolta, un tornante che s’inerpica intorno ad un asse, dove queste espressioni culturali erano più o meno sincroniche.  

In modo analogo sta avvenendo oggi, con gli effetti uniformanti della globalizzazione. Vediamo all’opera la tendenza del genere umano ad interconnettersi formando una più o meno fitta, unica, rete fatta di reti, paure, pulsioni, visioni, identiche. Problemi politici, economici, culturali simili fra loro. Criticità e potenzialità sembrano emergere, improvvisamente, in contemporanea uguali in tante parti del mondo. Tutto è in ridiscussione, i vecchi mondi sono tramontati ma i nuovi non sono ancora arrivati. Trasformazioni ominescenti, elementi di continuità e discontinuità che si alternano. I cambiamenti sono tali che forse solo alla fine quando si saranno pienamente dispiegati ne scorgeremo il profilo, gli elementi di valore, di continuità e di senso. Quelli che Lacan e Deridda chiamerebbero tracce mnestiche, residui, resti.

Come ha scritto anni fa il direttore dell'Istituto Gramsci Aldo Schiavone, se spostiamo lo sguardo verso strati di storia più profondi e remoti, ci rendiamo conto che quella politica, quella narrazione della quale molti si sentono orfani, quell’adesione ad un messaggio, ad una ideologia, ad una verità, sono sempre stati solo dei mezzi, degli strumenti attraverso i quali si cercava di realizzare una tensione e una spinta molto anteriore. Il fine è nulla, il movimento è tutto, diceva Edward Bernstein. 

L’idea che una volta eravamo soliti rappresentare come emancipazione radicale, ora ritorna come possibilità di una conquista sostanziale della propria pienezza individuale, fuori da ogni condizione di minorità precostituita, per tutte gli uomini e le donne del nuovo millennio.

Non vi è alcun motivo di abbandonare questi pensieri, solo perché le vie che lo hanno reso famigliare hanno esaurito il loro compito. 

Vedete, questo è l'elenco pubblicato dal giornale The Guardian. E' l'elenco dei 34 mila morti accertati tra chi, in questi decenni, ha cercato di arrivare in Europa. Ne seguiranno altri di elenchi, ma altrettanti e di più sono quelli che si sono salvati. Questo per dire che ognuno di noi ha la propria dimensione del metafisico, laici o credenti, ma quando dovremo render conto, non foss'altro ai nostri figli e nipoti, di dove eravamo quando succedevano queste cose, potremo con coraggio dire che c'eravamo, c'eravate. E abbiamo fatto quel che si poteva fare ed era giusto fare e di questo saremo sempre orgogliosi (che sia in Bosnia, sul mare o a Leopoli).  La difesa dei deboli, l’emancipazione delle persone, dei popoli, la loro autodeterminazione e la crescita in giustizia sono un dovere morale, nulla di più, ma neanche nulla di meno. Una volta era un dovere morale limitato a chi viveva negli spazi dei nostri paesi, oggi siamo consapevoli che ormai l'umanità violata non conosce confini e non ha geografie ed incalza e i insinua, per cercare ai margini della nostra società rifugio, protezione e speranza. 

L'augurio che faccio a tutti noi e a quelli che seguiranno nell’impegno dopo di noi è di mantenere sempre questa tensione e questa spinta interiore.

Grazie a tutti

Mauro Montalbetti 

Presidente IPSIA

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