Collina del Barbagianni: comunità di famiglie




Giuseppe Dardes: Tema che ci è particolarmente caro. Il rapporto tra territorio e comunità di famiglie. Lo scambio con i miei vicini, sul lavoro di oggi pomeriggio, è stato per me particolarmente illuminante, perché mi porta sensibilità diverse e che illuminano aspetti che, condizionato dal lavoro che faccio, rischio di dimenticare.  

 

Approfittando della presenza di Marta, quindi, mi fa piacere avere il suo punto di vista, perché un aspetto che ci teniamo a sottolineare è che una comunità di famiglie non è una comunità di uguali. E’ una comunità di differenti, gusti, sensibilità, attenzioni… Persone che vivono insieme e cercano di convivere con queste diversità. 

 

Vi abbiamo già detto, sia io che Bea, che lo stare qui, in questo modo, con questo tipo di presenza, questo gruppo di famiglie che stanno assieme, in un modo un po’ speciale, con questo tipo di comodato d’uso degli spazi, ha attirato l’interesse e l’attenzione di molte persone. Quando hanno scoperto chi eravamo, hanno iniziato a chiederci cose, le più diverse. Aiuti, vicinanza, ospitalità… sono cose che ci interpellano molto. 

 

Questo è un tema che penso possa interessarvi, come operatori sociali, per il lavoro che state facendo. Come una domanda di aiuto, che viene intercettata da una persona o da una famiglia, può essere percepita, vissuta, gestita. Come può essere vissuta come famigliare e allargarsi alle persone che con te condividono una esperienza. E’ qualcosa per noi di molto forte. Ma può riguardare tutti. Un circolo Acli, una classe, una parrocchia... Chiunque viva una prossimità  è interpellato da situazioni che sostanzialmente chiedono: Tu, puoi farti vicino a me? Tu, cosa puoi fare per me?

 

Marta: 43 anni, al momento insegnante, sposata con Enrico, 15 anni, 3 figli di 14, 12, e 3 anni e mezzo. In realtà io non ho idea di chi voi siate, ma mi venivano in mente 3 cose. Roma è una città di circa 3 milione di abitanti e ha una frammentazione per cui vivere nel 3° municipio è come vivere nel Comune di Macerata, è una realtà parecchio complessa. Noi veniamo tutti da un’altra parte. Le nostre radici e le nostre reti giovanili le abbiamo tranciate, di fatto, attraversando la città. Venivamo da un’altra zona, da Roma ovest. Questo per dire che noi siamo dei recenti abitanti di questo luogo. E lo posso dire che il primo anno qui ero completamente disorientata, completamente straniera. Mi sentivo dire… quella è una parrocchia, poi ci vuole fantasia per riconoscere come parrocchia quella cosa fatta per il Giubileo. Ti perdi, all’inizio… dove è la parrocchia? Dov’è una tintoria? Dove passa la vita del quartiere?  Sono quartieri storici, non c’è piazza… in più, noi siamo in collina.  La collina è un posto che se non lo conosci non lo trovi. Il 208 se passi veloce sulla strada, non lo vedi e tiri dritto. Siamo in un posto per cui devi fare una strada sterrata per arrivare. Quando vengono da noi, c’è chi lascia la strada in fondo, per non rovinarla salendo. Ma anche la strada lì in fondo, non ha vetrine su strada. Le persone di qui non passano. Prima c’erano le suore… 

 

Qui, adesso, abbiamo assunto un briciolo di visibilità, ma c’è voluto tempo. E abbiamo assunto visibilità non perché lo ricercassimo. Una comunità di famiglie non ha un mandato di visibilità. Tutte le esperienze che la comunità vive sono il frutto generativo di uno stile di vivere insieme. Non è che veniamo qui perché vogliamo fare accoglienza o per vivere nel verde o per risparmiare energie. La rete ha ormai una 40ina d’anni, tu vieni qui perché l’hai ascoltato dagli altri, hai sentito che se vivi in questo modo generi aperura, condivisione… sai che potrebbe profeticamente accadere. Ma non è che sei qui e metti il cartello “Siamo qui, venite”. All’inizio c’è stato un inizio di biologico, dopo un paio d’anni non c’è più. Tutte le forme generative non sono progettate, sono conseguenze naturali di uno stile di vita. Sono anche più complesse da gestire. Come decidiamo di farle assieme? Ad un certo punto è arrivato il cane.  Ma non ne avevamo parlato, è arrivato, poi passano 3 anni e non riesci a pensare a questo posto senza di lui. Le dinamiche con cui le cose accadono, sono dinamiche appartenenti alla categoria della vita. E dipendono dalle persone che abitano un posto. Magari io ci tengo tanto ad una cosa. E se a questo ci tengo, vi tengo svegli fino a quando non decideremo.

 

Come tutte le famiglie, la prima relazione sono i figli. Attraverso i bambini che abbiamo mandato a scuola abbiamo incontrato il mondo che passa per le scuole.  Avevamo idee diverse sulle scuole.  Chi Montessori, chi Steiner, chi pubblica, con 10 figli copriamo 5-6 scuole. E’ significato tanto. Inizi con: la festa di fine anno la facciamo qui… il regalo per le maestre lo facciamo insieme… viene naturale, hai spazio, proponi, la gente inizia a venire… E qui inizia a passarci di tutto, dall’ iraniana sposata con il siculo, a gente che fa il politico in municipio. Passano di qui per qualche motivo. Questo è un canale fondante delle relazioni sociali. I ragazzini e ciò che scambiano a partire dalla scuola. 

 

Poi ci sono le conoscenze personali e i ganci che ognuno di noi ha lanciato in vari ambiti. Sicuramente quelle parrocchiali. Ci sono almeno un paio di parrocchie, più la parrocchia dove fanno scout. Abbiamo deciso di mandarli tutti in uno stesso gruppo scout. Perché gli accompagni siano più facili. Alla fine ci sono gli incontri personali o di famiglia. Non necessariamente legati al territorio. 

 

C’è una famiglia rom con 10 figli. Oggi devo passare da loro perché oggi i servizi sociali vanno a fare una visita e hanno paura…La rete Caritas dà il pacco viveri, i soldi per la benzina a volte, non ce la fa a fare molto di più. I servizi li abbiamo attivati noi, magari, dopo tutto l’iter, arrivano a prendere 100 euro. Noi cosa facciamo, esattamente? Niente di specifico. Un po’ quel che possiamo e quel che c’è bisogno. Una differenza che c’è con le comunità di famiglie al nord è che loro sono sollecitati dai servizi. E non accolgono mai se non c’è dietro un progetto gestito dai servizi sociali. Qui i servizi sociali sono muti. Qui i servizi non arrivano a chiederci aiuto. Siamo noi a sollecitare i servizi a entrare in gioco e fare la loro parte. Qui il massimo che riescono a fare i servizi è intercettare i disagi stratosferici, le situazioni che esplodono. Noi ci siamo già affacciati due volte e il massimo che è stato fatto è stato mappare i servizi privati per capire come appoggiarsi a chi fa. 

 

Giuseppe Dardes: Quando Marta dice noi, non intende un noi corale di comunità. Noi ci sentiamo dentro, in qualche modo, ma è lei che questo pomeriggio alle 5 va da questa signora. E’ mia moglie che passa a prendere i figli di Ana quando serve e li porta in collina. Gli amici di Dario e Paola avevano un compagno del figlio in una scuola che ha avuto uno sfratto esecutivo gestito in modo brutale. Con 3 minori. Il risultato è stato una coppia vicini che hanno detto: ci date una mano per il trasloco, perché hanno bisogno di un posto provvisorio, poi dovrebbero andare da un’amica? Sono stati qui 8 mesi. Un po’ qui, un po’ dalle suore, un po’ i referenti… Le figlie hanno la stessa età di due figli qui, è venuto naturale.  Ma poi ogni famiglia è una famiglia. E ognuno dentro la sua famiglia deve fare i conti con le proprie dinamiche di accoglienza. C’era anche il figlio 16enne che diceva: col cavolo che tieni in casa figli di altri!  

 

Marta: Non c’è la comunità come soggetto unitario. C’è la singola persona, poi c’è la famiglia. Quello che ciascuno, come persona o come famiglia, intercetta, poi di fatto può diventare in parte condiviso, in quelle che sono le nostre riunioni di condominio.  Per me sono momenti piacevolissimi, non formali, innaffiate da limoncello e mirto. Con il gusto di stare assieme. In questi momenti c’è reciproco riconoscimento e ci possono essere tentativi di trovare soluzioni. Che sono aiuti a fare ma anche a prendere distanza. Quando uno si ficca dentro in una relazione di aiuto, magari porta un carico affettivo eccessivo, che non ti fa guardare nella direzione corretta. Rischi di scivolarci dentro in certe situazioni complicate. Gli altri ti fanno da ancoraggio, su un dato di realtà, ti aiutano ad aggiustare la mira. L’impegno con quella famiglia me lo sono preso io. Ed è mio. Ma non fosse altro, c’è il fatto che io posso andare là, perché qualcun altro sta con mia figlia mentre io sono là. 

 

Noi non abbiamo una capacità professionale. Si prova a stare accanto con il buon senso ed eventualmente con la ricerca di persone che invece possano dare un aiuto professionale. Più attento. Ci siamo passati dentro, nelle storie, ne siamo usciti, anche con le ferite. Abbiamo intercettato gente diversa… 

 

Se tieni la porta aperta, entra un sacco di mondo. Ma gente davvero bizzarra. Non so che percezione avete voi di voi stessi. Ognuno rischia di essere monotematico nella propria esistenza. Ti accompagni con gente simile, per interessi, per ceto, per cultura. Intercettare chi porta una diversità totalmente altra è un regalo della vita, ma non sempre se lo si riesce a concedere. Soprattutto se uno vive in una famiglia mononucleare, dove hai l’obiettivo di tenere in piedi la tua famiglia. Pagare le spese del tuo sistema abitativo, pagare le spese correnti. La percezione che avevamo  Enrico ed io era che dovevamo tirare su 1.500 Euro per affitto, più utenze, più macchina, più resto.  Vai al lavoro, trovi la baby sitter, cerchi di stare dietro alle cose… dove è lo spazio per incontrare il resto del mondo? Forse il fine settimana. Forse.  La mia esperienza è che l’impatto dell’esterno su una famiglia mononucleare è molto forte. Qui c’è un assorbimento più diluito. 

 

E poi ci sono le condizioni logistiche che abbiamo trovato. Intanto, nessuno di noi ha una stanza in più, in casa. Quindi se riusciamo ad accogliere, è fuori dalle 4 mura dell’appartamento in senso stretto. E in più hai gli occhi e l’affetto degli altri, che se proprio viene qui uno che è tossico e che ha un impatto sui figli che potrebbe essere negativo, te lo  dice prima, che forse stai esagerando. Oppure trovi qualcuno che dice: di questo te ne occupi te, perché ti stai sedendo…  Di solito le persone si sentono interpellate. Le relazioni si aprono.

 

La prima persona accolta era un uomo che aveva avuto una crisi con la moglie e aveva bisogno di uscire di casa. Era una fase acuta, abbiamo detto:  vieni a vedere, ma devi essere molto adattabile, la porta è ancora chiusa con il laccetto, gli infissi non sono chiusi. Era maggio. Il sabato ha visto, il lunedi è arrivato con le sue cose. Era arrivato al limite, aveva bisogno di un’alternativa. Era primavera 2011, eravamo qui da un anno. Ci siamo resi conto che la sua presenza, arrivata per caso, ci ha dato il la per spostare lo sguardo dall’ombelico famigliare e comunitario. Il primo anno stai molto attento alle relazioni tra noi. Il suo arrivo ci ha fatto un gran bene. Ha innescato un processo di riattivazione di noi stessi verso l’esterno. L’equilibrio è sempre molto dinamico. Come per una persona. Cosa ti tiene in piedi? Quanto sei diretto verso l’esterno e quanto prendi tempo per la cura di te e per mettere a posto la tua centratura. Nel giusto strabismo di guardare dentro e fuori c’è l’equilibrio. 

 

Bruno Volpi, che ha iniziato la prima esperienza di comunità, racconta: Ci siamo salvati perché il cancello era rotto e quindi la gente entrava. Mi sembra una buona metafora del fatto che c’è bisogno di stare sulla soglia. Walter Tocci parla di soglie come luogo del passaggio, come luogo necessario per stabilire relazioni, anche per attivare un pensiero urbanistico. C’è anche una poesia di Rilke, c’è Carlo Cellamare che dice che oggi quello che c’è di vivo a Roma è lontano dal centro e fuori dalle istituzioni. 

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