Che familiarità hai con il chiedere aiuto? Laboratorio di prossimità

                                     



Giuseppe Dardes


La proposta di riflessione che volevo farvi gira attorno alle cose che dirò adesso, con due premesse. Questo potete pensarlo come laboratorio di prossimità. Cosa significa vivere uno accanto all’altro con una forma speciale di attenzione, cura, reciprocità? Ma l’altro aspetto interessante è che questa cura, questa necessità di attenzione, esonda dalla comunità. E lo fa in un modo quasi inspiegabile, non sappiamo come funzione, ma sappiamo che è così, esonda e trova energie e modi per vivere questa prossimità anche con altre persone, fuori dalla comunità. 

 

L’ha detto anche Marta, questa prossimità ha qualcosa di speciale, perché sta sul piano e sulla modalità di tipologia dell’informalità, della spontaneità, della misura del possibile che puoi fare come persone e come famiglia. Non come professionisti. Non come persone totalmente dedicate. I figli della signora di cui Marta diceva prima,  li sentiamo un po’ nostri vicini. A volte li abbiamo portati in una gita in montagna. Una volta sono venuti a Madonna di Campiglio. Loro erano contenti, hanno visto la neve per la prima volta. Noi quando abbiamo deciso di andare abbiamo visto che avevamo posto in macchina e abbiamo detto: perché non invitiamo anche loro? Questa roba si fa così. Nello spontaneo, nell’informale. 

 

L’altra roba interessante è che ad un certo punto alle suore è arrivata la richiesta di una persona che viveva in strada e che, vivendo con un cane, durante i botti di capodanno aveva il problema del cane che impazziva. Le consorelle delle suore che c’erano qui l’hanno intercettato e lui ha chiesto: c’è qualcuno che mi ospita? Le suore… un uomo adulto… hanno detto no. Però hanno pensato: c’è un gruppo di famiglie che vive in periferia, chiedi a loro…  

 

La prossimità è contagiosa. Le suore avevano una cappellina, che aprivano una volta l’anno per il rosario. Non veniva usata. Lui vive là. Usa il bagno qui e usa il caffè qui, ma vive là. Non ha accettato forme più robuste di vicinanza. Ma passando da una situazione di strada, che è al limite della dignità umana, in costante pericolo, con problemi di salute, adesso comincia, in questa forma, a sperimentare la vicinanza. A Natale l’abbiamo invitato a mangiare insieme, io non c’ero in quel momento, uno dei vicini gli dice: ti va di fare una partita a scacchi? Lui accetta, gioca e straccia in modo imbarazzante il mio vicino. Da lì arriva il racconto: io ero campione di scacchi nella mia città. Lui arrivava dalla Repubblica Ceca ed era un campione di scacchi. C’era una risorsa, un talento, che riemergeva.  Ma non lo scopri in un contesto di passività, lo scopri nella prossimità, in ciò che ti fa sperimentare che la persona, al di là dello stigma e della situazione del momento, ha risorse. Lui è un grandissimo lavoratore. Qui ha iniziato a sistemare la legna,  a fare mille lavori. È lui che ha la passione per sistemare le cose. Le suore gli hanno proposto una assunzione presso il vivaio che cura la frutta. 

 

Tutto questo passa per un’esperienza che è innanzitutto personale e famigliare. Noi ci troviamo, personalmente e come famiglia, a rispondere a richieste. Sei interpellato e devi dire si o no. Allo sguardo della persona che chiede aiuto puoi corrispondere lo sguardo. Puoi dire si o no. Ma inevitabilmente quello sguardo ti interpella. Ti lascia a disagio. Su quel si o no si gioca moltissimo della relazione che tu hai con gli altri. Come persona, come famiglia, con chi vive fuori. 

 

C’è una situazione che mi interpella. Io, personalmente, che faccio? 

Personalmente, come famiglia, che faccio rispetto a domande come queste? 

Di pancia, puoi fare qualcosa? Se si perché, se no perché?

 

Per l’ospitalità e l’accoglienza passa molto. Sull’accoglienza di una persona si gioca il nostro rapporto con il mondo. Voi sarete chiamati a misurarvi personalmente, ma sarete anche chiamati a sollecitare altri nel farsi carico. Entrambi questi aspetti hanno a che fare con il promuovere ed animare forme di comunità che abbiano senso. C’è sempre un oltre a noi. 

 

Al di là di ciò che posso fare io come famiglia, come posso allargare la rete dell’aiuto? Come posso coinvolgere altri? Io posso farmi carico di un pezzettino di risposta. Posso dire, io ci sto. Ma ad un certo punto devo dirmi: perché solo io? Lei, che magari  è una mamma della scuola, può fare qualcosa di questa cosa qui?; Lui, che frequento perché giochiamo a calcetto, può….

 

Questo è attivare trame di prossimità. Attivare. Non farti carico da solo. Ci muoviamo in modo anche un po’ leggero. Un pezzettino lo fa lei, un pezzettino un’altra famiglia…

 

Questo ha a che fare anche con il fare i conti con chi noi siamo. Io so di essere una persona timida, con una capacità di attivazione che è un decimo di alcuni miei vicini. Devo farci i conti. Ma anche per questo sono qui. Sono andato a mettermi vicino a gente che mi tiene attivo. So che così non mi addormento. 

 

E ha a che fare con il come chiedo aiuto? Come mi sento a chiedere ad altri? Persone, famiglie, circolo, associazione, parrocchie? Che familiarità ho con il chiedere? Il modo con cui mi rapporto al mio stesso chiedere ha a che fare anche con il modo con cui mi sento di fronte a qualcuno che mi interpella... 

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