Appunti (presi in diretta e non rivisti dall'autore) dell'intervento di Mauro Magatti al 4° appuntamento di Animazione Sociale a Torino.
Baumann, la società liquida, Marx, Tutto ciò che è solido si dissolve
nell’aria.
Dove tutto sembra organizzato e funzionante, cosa animi?
L’uomo.
L’uomo è resiliente. Ha straordinarie capacità di resistere
ed opporsi. Si adatta ma poi riparte.
L’uomo è eccedente. Gunter Anders. Eccedere vuol dire che
abbiamo il baricentro fuori da noi. Andare oltre è il movimento dell’eccedenza.
Non possiamo vivere senza eccedenza. Soffochiamo.
L’uomo è intimamente socievole. Gli esseri umani sono capaci
di solitudine. Ma non sopravviviamo senza relazione con l’altro.
Il desiderio.
Siamo autorizzati a desiderare.
Mio nonno, panettiere, non ha mai voluto autorealizzarsi,
non sapeva cosa volesse dire.
Mio nonno aveva desiderio di vivere e di fare cose dotate di
senso.
Desiderio e controllo.
Le due cose sono palesemente in contraddizione.
Desiderio è libertà, apertura, sorpresa.
Controllo è la sua negazione.
La pubblicità è sempre capace di cogliere e sintetizzare il
senso del momento.
Qualche anno fa: Tutto gira attorno a te.
Oggi, la volvo: Finalmente puoi lasciarti guidare.
Oggi isolamento e paura.
L’uomo è resiliente e ricostruisce continuamente.
Oggi rischia di avere desiderio di uscire dalla complessità.
Di qualcuno da cui farsi guidare.
Il 2008 segna una
cesura. La fine di un’epoca.
Non si tratta di tornare indietro al 2008.
Noi non ci diamo il senso da soli.
Ce lo diamo sempre in relazione con l’altro.
L’autodeterminazione è una bugia.
Chi si appropria del
PIL?
Temo moltissimo gli annunci, che si ripetono da anni, sulla
famosa ripresa del PIL.
Come se fosse: il PIL è cresciuto di 1 punto e mezzo, quindi
siamo fuori dai guai. Non è così.
Il problema non è stare a guardare di quanto aumenterà il
PIL.
Primo, perché abbiamo dietro 10 anni di deserto.
Secondo, perché non siamo sicuri che la crescita possa
continuare.
Terzo, soprattutto, perché: quel pezzettino di crescita,
come si distribuisce?
Chi si appropria del PIL?
Se non c’è un riflesso immediato tra crescita dl PIL e ciò
che succede al mio reddito (e non c’è) è normale che ci sia una riflesso
immediato tra crescita del PIL e crescita della rabbia.
Oggi però c’è una grande occasione.
L’occasione precedente fu negli anni 70.
La risposta fu il neoliberismo, la finanziarizzazione.
Quel contesto storico è finito nel 2008.
Oggi siamo in una
transizione: politica, economica, culturale.
Il capitalismo ha perso i suoi assetti.
Siamo alla ricerca di nuovi assetti.
E’ una fase cruciale.
Io nella mia vita sono sicuro che una fase così non
succederà mai più.
Ai giovani magari succederà un’altra volta.
Ma per tutti questi sono anni preziosi.
Ci sono molti elementi fuori squadra.
Non dobbiamo farci rubare l’opportunità di questa
transizione.
E non dobbiamo credere alla favoletta che aumenta il PIL e
tutto a posto.
Che basta tornare indietro di qualcosa ed è tutto a posto.
Il desiderio è stato
attivato.
Il 68 è stato: io
voglio.
Di quell’”io voglio” però
se ne è appropriato il capitalismo, ed è diventato consumerismo.
Consumo non è solo un aspetto negativo.
Consumo è socialità: il consumo è spesso un modo per stare
con altri.
Consumo è identità: io sono (anche) ciò che consumo.
Consumo è riferito all’orgasmo. Consumare è consum.
Consumare è toccare la realtà.
Togliamo pure l’idea che il consumo sia solo negativo.
Il consumo, il desiderio di consumo, ti attiva, ma dopo,
immediatamente dopo, genera una delusione. Quindi è una schiavitù. Una dipendenza.
La società dei
consumi è questo.
E’ stato trovato un meccanismo davvero potente per far
girare il sistema.
Non è qualcosa di superficiale.
Per questo il modello ha funzionato.
Questo modello, che non funzionava già più, la finanza l’ha
reso possibile per un altro po’.
La finanza ha reso possibile, attraverso il debito (pubblico
e privato) star dentro in questo processo, anche senza produzione.
Il 2008 ha interrotto quel circuito. Anche da punto di vista
economico e politico.
Oggi siamo alla ricerca di un nuovo modello, anche su piano
macro, non solo micro.
Bisogna prendere sul
serio la questione del desiderio, che poi è il desiderio della libertà.
Il desiderio può essere consumo.
Ma può essere generatività.
Idea di generatività
sociale. Presa da Erickson.
Che diceva: dopo la fase adolescenziale, esplorativa e
acquisitiva (quella del “tutto il mondo gira attorno a te”). Ci si trova ad un
bivio: o stagnazione o generatività.
Che le società oggi siano stagnazione è evidente.
Generatività è mettere fuori.
Consumare è mettere dentro.
Generatività è un concetto più ampio del concetto di
creatività.
Più ampio dell’idea economicistica di iniziativa e di
imprenditività.
E’ il movimento speculare del consumare.
Generatività è fatta di 3 momenti.
La premessa è il sogno. Non generi se non ti immagini un
oltre.
Il punto di partenza è il desiderio. Di qualcosa che non c’è
e che può coinvolgerti.
Anna Harendt diceva che la libertà è far incominciare.
L’idea fondamentale per andare oltre la società
consumeristica è questa: noi siamo fatti per incominciare. Ciascuno di noi è
fatto per incominciare. C’è desiderio, c’è realizzazione.
Perchè una volta che si comincia, ci sia appassiona a ciò
che si fa nascere.
Può essere il figlio, può essere un’impresa, gli allievi…
3 momenti e movimenti fondamentali:
Mettere al mondo
Prendersi cura
Lasciar andare.
Si gioca tutto qui.
Ci siamo accorti che molti che erano capaci di compiere
questo movimento erano persone che avevano subito un trauma. Che avevano
vissuto la morte di un figlio, di un coniuge. Come mai è più facile entrare in
questa logica per chi passa da un trauma, rispetto a chi ha una vita ordinata?
Perché generare ha a che fare con il perdere.
Il consumo ti dà la sensazione che puoi controllare. Che puoi
gestire tu.
Quando metti al mondo invece sei di fronte ad un dilemma. O
gli metti le mani sopra. Lo controlli. Pensi che sia proiezione di te. Tenti di
dominarlo. Cioè di ucciderlo. Di negare il movimento da cui sei partito.
O accetti che, un po’ per volta, l’unico modo per cui ciò
che hai generato possa sopravvivere è far passare, accettare che andrà oltre i
tuoi limiti. Non per bontà. Ma perché questo è il dilemma dell’esistenza.
O decidi di stare al gioco del controllo o entri in logica
in cui la perdita è la via attraverso cui tu ti realizzi.
Perché la vita sociale si svolge nel tempo.
Noi siamo limitati.
Noi non possiamo controllare tutto.
Il capitalismo dice che duriamo in eterno, che possiamo
controllare tutto.
Il capitalismo resiste perché attiva punti profondi.
Ci attiva come individui, ma ci incastra in una relazione
che tu stesso hai creato.
L’ipotesi su cui
stiamo lavorando è trovare il modo per fare un passettino oltre la società dei
consumi e non infilarci nella società della volvo, che è il prossimo passo, l’essere
totalmente in balia di quello che noi stessi consegniamo agli altri attraverso
le tracce digitali di ciò che facciamo.
Per ancorare questo passaggio a qualcosa d’altro dobbiamo
trovare un punto che sia antropologicamnte molto profondo.
La comunità, certo, è un punto sacrosanto.
Ma faccio sempre fatica a capire come si fa a passare da una
società individualizzata (che è quella che abbiamo) ad una società comunitaria.
La generatività è un passaggio intermedio. Parte dall’individuo.
Lo accompagna nella sua esperienza di fare un percorso di alterità.
La generatività parte dal prendere atto di essere di fronte
ad una ingiustizia.
La tua risposta di fronte all’ingiustizia non è accettare,
non è indignarti. La tua risposta è iniziare qualcosa che oggi non c’è.
Ci si deve impegnare come persone. Poi diventa paradigma
organizzativo.
Sposta l’accento da una disposizione soggettiva ad un modo
di essere delle organizzazioni. www.generatività.it
Leggere la crisi come un’opportunità, non solo come una
sfiga.
Non si tratta di tornare al 2008.
Non si tratta di aggiustare una macchinetta e farla
ripartire.
Proviamo a ragionare, guardando alla realtà, su quale può
essere l’assetto diverso.
Il geometra del video, ha suscitato anche empatia, perché,
poverino...
I geometri hanno fatto ciò che hanno potuto nell’Italia del
dopoguerra.
Le case di periferia costruite da quel geometra non erano
belle.
Ma mio nonno, panettiere, non si poneva il criterio della
bellezza.
Oggi possiamo porci questioni nuove. E questa è una
oppotunità.
E dobbiamo farlo.
Ma lui, allora, ha fatto ciò che ha potuto.
Non esiste una economia
che stia in piedi senza un’edilizia decente.
In Italia che case costruiamo? Per chi?
Ne abbiamo già costruite in modo eccessivo.
Mercato edilizio è a zero.
Smettiamo di costruire? E’ una soluzione.
Oppure, abbiamo partiamo dal fatto che abbiamo costruito
case, solo con i geometri, in un certo
modo, per un certo tempo. Oggi abbiamo l’opportunità di porci almeno 3 grandi
problemi:
-
sostenibilità
ambientale. Quelle case non avevano responsabilità ambientale. La questione
non c’era. Ma oggi c’è.
-
Sostenibilità
del welfare. Abbiamo un cambiamento del modello demografico. Dobbiamo costruire
modelli di abitare in cui la socialità ritorni dopo la stagione industriale. Le
Courbusier, ha preso il modello fabbrica e con un’ideona ha fatto i grandi
palazzoni anni 70. Unità funzionali. Il modello industriale dell’abitare.
Oggi abbiamo bisogno di un modello post
industriale dell’abitare.
-
Bellezza.
Oggi possiamo porci l’idea della bellezza.
Ma queste sono questioni che non sono affrontabili se il
mercato della casa è solo il mercato privato. In cui il singolo vuole comprare
la casa. Tu puoi fare emergere la domanda che c’è, di abitare, se riusciamo a capire
che il nostro benessere non è solo individualizzato, ma ha a che fare con ciò
che sta tra noi.
Ci sarà sempre un pezzo di mercato individualizzato.
Ci sarà sempre un pezzo di risorse gestite dallo stato.
Ciò che interessa è ciò che sta a metà tra queste.
Welfare.
Nato come compensazione.
In quanto società civili (cioè europee) noi decidiamo che
chiunque fa parte della nostra comunità non sarà abbandonato se sarà in
difficoltà. Se malato lo curiamo, se anziano diamo una pensione, se bambino lo
seguiamo…
Negli anni 70 questo modello ha iniziato ad entrare in
crisi.
Nell’epoca che abbiamo alle spalle il welfare è andato verso
il mercato non solo perché c’è stta crisi di risorse. Ma anche perché tutti
abbiamo iniziato a pensare che siamo portatori di domande individuali di
welfare.
Il mercato ha detto: consideriamo il welfare come una
prestazione.
Rendiamo più efficiente e massimizziamo le prestazioni.
In questo schema lo stato non ci sta dietro.
Anche perché la domanda di welfare è infinita. Non si
satura.
Se stai bene, vuoi stare meglio.
L’idea che la sfera pubblica possa rincorrere semplicemente il
mercato è impossibile.
Il tema è:
del welfare deve
occuparsi solo lo Stato? Solo il mercato?
O recuperiamo una
dimensione di socialità che il welfare deve avere?
Se il welfare non ricostruisce legame sociale è destinato a
consegnarsi al mercato.
Se il welfare ha come finalità non solo quella di rispondere
ad un bisogno individuale ma anche quella di essere costruttore di socialità,
di rinsaldare un patto, allora il mercato non è sufficiente.
C’è spazio oggi per una socialità ed un welfare più avanzato? La risposta è si.
La dimensione del prendersi cura, dell’essere parte, è
fondamentale per il welfare pubblico/privato. Non sto solo parlando di terzo
settore.
Oggi, già in Italia, la ricerca sul bilancio di welfare di
famiglie italiane ci dice che ci sono
più di 40 miliardi di euro di reddito famigliare impegnati in questo.
Se nessuno fa niente, ciò che succede è che arrivano
capitali stranieri. Vanno nelle comunità. Mettono dei baracchini. La gente va. Compra
servizi low cost. Le comunità spendono. I ricavi se ne vanno. Le comunità
restano dissanguate. E non si produce niente.
Oppure le comunità, i pezzi di terzo settore che diventano
intelligenti, aggregano la domanda, creano una offerta nuova, senza paura di
creare innovazioni (non solo cooperative sociale, anche nuove forme). Non
bisogna solo dipendere da trasferimenti di ente pubblico. C’è già lo spazio…
Le imprese cosa
fanno? Sistemi di secondo welfare per i dipendenti.
In Italia la maggior
parte sono microimprese.
Le microimprese non possono farsi un servizio di secondo
welfare.
O lasciano i propri lavoratori senza niente.
Oppure si limitano ad acquistare i servizi.
Oppure qualcuno si prende la briga di aggregare anche questa
domanda.
Possono essere soggetti associativi. Ma devono essere
mediatori.
E devono essere mediatori locali. La mediazione è oggi
fondamentale. E non può che essere locale.
Dove va il discorso?
Sono due le ipotesi fondate nella realtà che ci permettono
di pensare: sostituire lo scambio finanza/consumo con lo scambio efficienza/sicurezza
e sostenibilità/contribuzione.
1.
Lo
scambio finanza/consumo si può sostituire con lo scambio efficienza/sicurezza.
Una volta che non funziona più il trucco della finanza, per cui l’idea era che
l’espansione poteva essere all’infinito, il capitalismo sta cercando di capire
cosa fare. La grande partita passerà con il digitale. La società digitale sta
nascendo. Sotto i 50 anni tutto è digitale. Ormai tutto è registrato. Sono
stati fatti esperimenti. I big data, capacità di lavorare su tracce digitali
che lasciamo. Oggi, se hai un problema al rene, chi vi osserva se ne accorgerà
prima di voi. Perché se va a cercare delle cose online, se compri certe cose,
se…. Vuol dire che hai un problema al rene. Tu non sei in grado di osservare
questi dati, di incrociarli e di accorgertene. Chi ci osserva se ne accorge. La
questione digitale è serissima. Siamo in un passaggio simile a quello industriale.
La rivoluzione industriale è stato: da produzione diffusa, si è passati a
produzione in un unico punto, governato da qualcuno. L’operaio che entrava in fabbrica si aliena
perché sta in uno schema che non controlla più. Il non controllo è
l’alienazione. Ancora prima che lo sfruttamento.
Digitalizzazione è
simile ed opposta. Ciò che può accadere è che si cominci a pensare (e che sia effettivamente
possibile immaginare) la società nel suo insieme come ad una fabbrica.
Si diffonde lo smart working? Benissimo, si risparmiano tante
cose. Peccato che il lavoro che fate da casa sia molto più controllato di
quello che fate in ufficio. In ufficio ci sono tante dimensioni che sfuggono al
controllo. Invece quello a casa è controllato al centesimo.
La moglie di mio figlio, in svizzera, ha lavorato per uno studio
di architettura in cui tutto passava da computer e telefono. Potevano usare
solo con archivio condiviso. Tutto era tracciato. E anche se erano nello stesso
ufficio si parlavano con il computer. Alla fine se né andata. La
digitalizzazione è una questione serissima.
Per ora ci sono i
populismi, che non sanno dove stanno andando. Ma quando quella spinta populista
si lega con la digitalizzazione e ne viene fuori un progetto serio, la cosa
diventa complicata.
Dietro i populismi c’è un’epoca cambiata, il sistema non si
espande più. Il grande mito è caduto, la gente vuole essere protetta e
rassicurata. La domanda è di legame sociale.
Non guardiamo con disprezzo a quella cosa lì. La gente
chiede di rimettersi insieme.
Il legame sociale può essere buono o coattivo. Repressivo o
progressivo.
Se lo lasciamo a se
stesso, sarà per forza un modo repressivo.
2.
E con
lo scambio sostenibilità/contribuzione.
Non tutte le imprese si mettono sulla strada della
sostenibilità. Ma molte imprese, soprattutto quelle più avanzate, capiscono che può essere
sensato accettare profitti meno elevati domani mattina, per avere stabilità dei
profitti nel tempo. Non sono diventati buoni. Fanno un ragionamento economico. E’
un compromesso. Ma gli equilibri storici nascono sempre da un compromesso. Le
stesse imprese capiscono che la fantasia di andare avanti da sole non sta in
piedi. Vedono che l’economia ha bisogno di ricostruire un rapporto con la
propria società.
L’idea di sostenibilità, da sola, non si potrà reggere, se
non alleandosi con l’idea di contribuzione. Contribuzione è un termine meno
provocatorio di generatività sociale.
Tra i giovani certamente, ma anche tra di voi, c’è una
domanda di contribuire, di far parte di qualcosa che ha senso, di essere
riconosciuti per ciò che si sa fare. Nei
confronti delle imprese non c’è solo domanda di salario. C’è domanda di fare cose che abbiano un senso. È un desiderio latente,
che riprende la vecchia idea di partecipazione, su basi nuove. La digitalizzazione
può renderlo un progetto sociale. E’ vero che la digitalizzazione può portare
la società verso il controllo totale, ma è anche vero che è una infrastruttura
tecnologica che può massimizzare la capacità di contribuzione delle persone.
Possiamo immaginare forme di vita sociale completamente nuove.
Siamo in un cambio di
paradigma.
Per 50 anni siamo andati avanti con l’idea che consumando
producevamo ricchezza.
Per un certo periodo è una affermazione vera. Per la Cina
sarà ancora vera per un po’.
Ma oltre una certa stagione di evoluzione questa
affermazione è falsa.
La finanziariazzazione è stato un trucco per tenerla in
vita. Ma è falsa.
Con la crisi abbiamo l’occasione di invertire la logica
della relazione.
Solo le imprese, le
organizzazioni, le comunità, i paesi che rimettendosi insieme, trovano il modo
di produrre valore (che sia economico, ma anche sociale, di senso, ambientale,
educativo). Solo chi produce valore,
rimettendosi insieme, potrà stare al mondo in un contesto complesso come una
globalizzazione 2.0. Solo chi produce
valore potrà sostenere i consumi.
Non sarà più vero l’inverso. Consumare non produrrà valori.
Sarà necessario concentrarsi sulla produzione di valore,
avendo la capacità di allargare l’idea di valore da solo economicistica a più
ampia.