Aprile 2013 - Riflessioni
a quasi 3 mesi da...
Sono
quasi 3 mesi da quel 26 gennaio che nel piccolo mondo delle Acli
resterà uno spartiacque tra un prima e un dopo. In quel contesto
qualcuno ha vinto e qualcuno ha perso. Un gruppo si è insediato, un
altro si è disperso. E poi? Poi non si può dire che siamo stati
fermi. C'è stato un grande lavoro e un grande impegno per assestarsi
nei nuovi ruoli e far ripartire la macchina. Per molti aspetti stiamo
lavorando sul “come” e sul “cosa”. Si stanno ponendo le basi
per un ripristino di una sostenibilità economico e finanziaria. Per
una ridefinizione del modello organizzativo (per ora a partire da
quello della sede nazionale). Per ripensare l'intreccio tra
associazione e servizi. Se dovessi trovare un paragone probabilmente
potrei dire che siamo come nella prima fase Rosati. Cioè siamo
impegnati nel “Salvare
il contenitore”.
Non è una cosa semplice, non è una cosa banale, non è una cosa
secondaria. Il contenitore aveva (ha) molte crepe e senza rattoppi o
saldature, senza ridisegno, senza ripristino si va a gambe all'aria
tutti facilmente. Basta “un soffio di vento” come ha detto anche
Mariotto in un'ultima presidenza. E di soffi di vento ne girano
parecchi, quindi...Però io penso che non basti.
“Siamo
una grande organizzazione popolare o ci illudiamo di esserlo solo
perchè siamo nati come grande organizzazione popolare di lavoratori
cristiani? Siamo convinti di essere immortali, solo perchè, come il
calabrone di Einstein, abbiamo sempre volato pur essendo inadatti al
volo? Siamo in crisi come tutta la società civile, il terzo settore,
i corpi intermedi. Ci piace pensarci come una lobby
democratica e popolare,
espressione di tutte quelle esigenze della gente che i partiti non
riescono a rappresentare. Ma rischiamo di essere troppo simili ai
partiti (poco democratici, poco popolari, incapaci di rappresentare e
a volte anche di riconoscere). E poi la gente è soggetto plurale e
molto composito. Con interessi ed esigenze contrastanti. Abbiamo
ancora bisogno di capire
quale parte (passata l'era degli operai, superata anche quella dei
lavoratori) vogliamo rappresentare.
E non possiamo dimenticare che abbiamo deciso e detto che siamo
usciti dal 900. E quindi la semplice dichiarazione di collocarci nel
centro sinistra non è una risposta a questo, è semmai solo
un'indicazione generale e la scelta di una squadra per cui tifare (o
in cui giocare) nelle prossime partite.
Siamo
impreparati all'oggi, quindi. Ma, per una qualche forma di fortuna, è
già tempo di domani.
Siamo di fronte ad una profonda trasformazione della realtà
circostante. Cambia la politica, cambia l'economia, cambia il lavoro,
cambia il rapporto tra il qui e l'altrove, cambia l'equilibrio tra
nazionale e territori, cambia la Chiesa... O le Acli sapranno
nuovamente
e profondamente trasformarsi,
dando gambe alla quarta fedeltà (quella più recente e meno
approfondita, quella al futuro) o non avranno un futuro. Che poi, che
le Acli abbiano un futuro non è né dovere né obiettivo. Le
Acli restano sempre solo uno strumento. Per migliorare il mondo.
Se non riescono a trovare un modo per migliorarlo, non serve che
abbiano un futuro. Dispiace, certo, e pure molto, ma se non partiamo
da qui credo che non ci muoviamo nella giusta direzione”
Questo
scrivevo ad ottobre 2012. E da lì mi viene da ripartire. Abbiamo un
nuovo presidente e siamo una nuova presidenza. Non abbiamo alibi per
non affrontare il nodo e cercare di metterlo a tema. Tocca a noi. Non
importa se non abbiamo tutto chiaro o se non tutto è esattamente
come vorremmo. Non importa se non ci sentiamo ancora pronti. Siamo
qui e ora tocca a noi lo stesso. Come fare? Non ho chiaro tutto. Ho
solo qualche idea. Provo a metterla in mezzo perchè magari unendo le
idee che ciascuno ha ne esce una linea di prospettiva utile. Io credo
che dobbiamo partire dal fuori
di noi.
Dai problemi che ci sono ma anche dai tentativi di risposte che già
si vedono (o intravedono).
Fuori
di noi significa porci come movimento
di cittadini di un Paese
con la sua crisi e sofferenza e lacerazione. Fuori di noi significa
collocarci dentro il flusso di movimenti e tensioni che questo Paese
lo stanno attraversando. Fuori di noi significa la gente, le persone.
Quelle che (per ora) continuiamo ad incrociare soprattutto attraverso
i servizi ma che (al di là del bisogno specifico e singolo) non
riusciamo ad ascoltare e a coinvolgere e mobilitare. Quelle con cui
noi non riusciamo a mobilitarci perchè fuori da noi c'è già chi si
sta minimamente ascoltando, coinvolgendo e attivando. E siamo noi che
non ne stiamo facendo parte.
Fuori
da noi significa anche porci come credenti
parte di questo popolo che è la Chiesa che
a partire dall'elezione di questo Papa ha iniziato a coltivare
speranze concrete di cambiamento e conversione. Ma (come dice bene
Giacomo Costa nell'ultimo editoriale di Aggiornamenti Sociali) La
nostra speranza si spegnerà rapidamente se saremo solo spettatori.
Se non sapremo inserirci tutti, come singoli credenti, come chiesa
locale, come popolo di Dio (e, aggiungo io, come Acli) nella stessa
dinamica di libertà e responsabilità e se non assumeremo come
nostro il compito che Papa Francesco ha indicato: «Custodire
il creato, ogni uomo e ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e
amore», prendersi cura «specialmente dei bambini, dei vecchi, di
coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del
nostro cuore». “aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi,
è portare il calore della speranza». Se lo prendiamo sul serio mi
pare che il Papa non ci chieda prima di tutto di fare progetti o
azioni. Ma ci chieda prima di tutto di “stare con”.
Io
credo che dobbiamo pensare a noi non tanto come agli organizzatori di
cose o come propositori di soluzioni. Ma come attivatori
di luoghi e processi che
permettano alle persone di mettersi assieme per cercare assieme le
soluzioni ai problemi comuni. E poi ancora di più, credo che
dobbiamo saper uscire dai nostri uffici, dai nostri circoli, dai
nostri luoghi per andare dove la gente si trova. Dove parla, dove si
confronta, dove vive. Siano essere le piazza reali come quelle
virtuali. Dobbiamo andarci come cittadini e parte del popolo. Come
ascoltatori e osservatori. Come partecipanti, con altri. Provando a
mettere in campo, se ce l'abbiamo, la capacità di essere connettori
di persone ed idee. E di offerta di spazio ed occasioni alle idee e
persone.
Partire
da fuori da noi significa, allora, che il lavoro
di riorganizzazione
del modello che sta preparando Mariotto (e che secondo me è
essenziale) è solo una parte del lavoro di riorganizzazione che
dobbiamo fare. (in primo luogo perchè è riorganizzazione solo della
Sede Nazionale mentre noi abbiamo bisogno di rivedere il modello
generale) ma poi anche perchè è un lavoro che punta ad avere una
macchina, magari anche dotata di benzina, in modo da poterci andare
da qualche parte. Ma resta da definire dove vogliamo andarci. E una
volta deciso magari ci accorgeremo che non è una macchina quel che
ci serve ma un biglietto del treno o una flotta di bici o di
motorini. E dovremo cambiare tutto di nuovo.
Partire
da fuori da noi significa aprire
le porte, far entrare altro, significa
contaminarsi, significa rischiare, significa essere pronti a cambiare
anche profondamente, lasciando quello che siamo stati e quello che
siamo. Non perchè la nostra storia non sia importante o gloriosa. Ma
perchè la fedeltà alla tradizione non è la sua conservazione ma la
sua traduzione. E allora (so di dire una cosa che sa di eresia) forse
il tema centrale non può più essere il lavoro. O
per dirla in altro modo, forse al lavoro ci dobbiamo arrivare da
altri punti di vista, con altre parole e percorsi. Forse i beni
comuni o la pace, o la sostenibilità
o
la lotta per i diritti e contro la diseguaglianza
sono parole e concetti che si comprendono maggiormente, che
mobilitano maggiormente. Perchè secondo me va bene organizzare
servizi, va bene realizzare progetti, va bene fare comunicati e
prendere posizione. Ma se non lavoriamo sulla mission associativa, se
non aggreghiamo e ci aggreghiamo a qualcuno che si sente parte (anche
momentaneamente e/o frammentariamente e/o criticamente) e che abbia
voglia di metterci qualcosa di suo assieme agli altri non andremo da
nessuna parte.
Ma
non siamo solo associazione e movimento. Siamo anche servizi.
Parliamo spesso della necessità che i
nostri servizi (c'è
chi è più avanti e chi è più indietro)
diventino realmente imprese con capacità di stare sul mercato e di
innovarsi. Io
sono completamente d'accordo. Ma anche questo a mio parere non basta.
I servizi devono diventare imprese realmente sociali, non nel senso
di cambio di statuto e forma giuridica. Ma nel senso di essere snodi
pratici e concreti di reti di un'economia nuova
(poi da approfondire assieme e da scegliere se vogliamo che
appartengano al mondo dell'economia solidale, dell'altra economia,
dell'economia sociale o civile o cosa altro). Io credo che in ogni
caso serve che siano attività economiche e culturali in grado di
conseguire obiettivi d'interesse collettivo più elevati rispetto
alle attività economiche classiche. Che sappiano assumere reali
responsabilità sociali valorizzando le relazioni tra i soggetti,
l'equa ripartizione delle risorse, il rispetto, tutela e promozione
dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente. E che questa
sperimentazione sappiano renderla evidente rendendone conto ai
lavoratori e all'associazione nella sua interezza, e sappiamo
proporla (assieme ad altri) alle comunità locali, alle istituzioni,
al resto del mondo dell'economia.
Altrimenti anche se
riusciremo a salvare il contenitore questo sarà solo un vaso vuoto
esponibile (forse) per bellezza.