La rivista dell’ENAIP Formazione e Lavoro ha pubblicato un suo speciale (1/2016) interamente dedicato alla riflessione della sua ricca esperienza formativa e di quella dell’ente che la promuove dal 1960 e che è l’ENAIP (Ente nazionale ACLI per l’istruzione professionale). La direzione della rivista ha chiesto a Gennaro Acquaviva – che fu Vice presidente dell’Ente tra il 1967 ed il 1969 – un suo ricordo e una riflessione sulla storia della rivista e dell’ENAIP. L’articolo è stato pubblicato nel numero sopradetto. Ne riproponiamo il testo.

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La cortese proposta di scrivere un ricordo sulla mia breve esperienza all’ENAIP mi è stata veramente utile. E per almeno due ragioni che voglio indicare a premessa, perché esse sintetizzano bene i punti che cercherò di proporre alla riflessione di chi mi legge. La prima è naturalmente quella della vicenda in sé, i tre anni (dal marzo del 1967 fino allo “storico” Congresso di Torino, che è del giugno 1969) in cui lavorai direttamente all’ENAIP, una esperienza che nella mia memoria si lega strettamente con l’impegno precedente all’ufficio studi delle ACLI, in cui arrivo all’inizio del 1963. Il secondo nasce da una riflessione che ho già proposto in un recente passato in alcune occasioni di confronto politico e che si connette ad un problema che vedo, correttamente, ancora oggi al centro della riflessione di Formazione e Lavoro e che fu per noi in quegli anni il fulcro (e il rovello) della nostra proposta formativa: l’importanza grande di dare concretezza, accesso ma anche dignità culturale alla realizzazione di una formazione solidamente basata su di una alternanza scuola-lavoro.

1.

Fui nominato vice Presidente “operativo” dell’ ENAIP (il Presidente era naturalmente lo stesso delle ACLI, che allora era Labor) il 16 marzo del 1967: una data che per me e per la mia famiglia è facile da ricordare perché proprio la mattina di quel giorno ci nacque il nostro primo figlio. La notte precedente l’avevo passata in bianco, anche se il mio coinvolgimento fu tutto emotivo ed “esterno” perché non erano quelli i tempi in cui ci si aspettava che il padre “partecipasse”: lo si lasciava a bollire in sala d’attesa. Come Dio volle, alle 10 e mezza di quella mattina, costatato che tutto era a posto, corsi a precipizio verso l’ ENAIP dove era già riunito il Consiglio per procedere alla mia nomina. Entrai affannato, ma raggiante, nel salone dove si teneva l’incontro e ricordo come fosse ora la bonomia con cui accolse l’intrusione Vittorio Pozzar che, da consigliere anziano, presiedeva la riunione. Mi disse solo: “com’è?”; ed io, con il poco fiato che m’era rimasto, quasi gridai: “è un maschio!”, allontanandomi subito dopo per permettere ai consiglieri di deliberare liberamente. Fu questa la modalità particolarissima con cui entrai all’ENAIP, quasi cinquant’anni fa. Non molto diverse, debbo dire, e cioè ancora molto particolari, furono anche le vicende che seguirono ed in cui mi trovai impegnato in quella grande famiglia che era l’Ente nei tre anni successivi: anni di gran lavoro ma soprattutto di straordinario sviluppo delle nostre attività, di crescita elevata, soprattutto qualitativa, dell’insieme dell’azione formativa che riuscimmo a realizzare. Naturalmente oggi posso ben misurare il fatto che le nostre virtù erano allora sostenute da una “congiuntura” economica e sociale che aveva ancora il vento in poppa degli anni del miracolo, anche perché sommava il percorso virtuoso di uno sviluppo produttivo con pochi vincoli con una offerta generosa di lavoro a basso costo, pur se a qualificazione crescente. Ma eravamo soprattutto favoriti da un quadro ordinamentale che regalava ai soggetti operativi allora in campo – e che nella formazione professionale erano prevalentemente privati – una finestra di opportunità e quindi di potenzialità realizzative alta, destinata a prolungarsi almeno per un decennio e che non si sarebbe più ripresentata dopo, anche a seguito delle modalità di gestione della prima stabilizzazione delle competenze regionali; ma soprattutto dopo il prevalere di una opzione dominante nel rapporto scuola-lavoro, di caratura, diciamo così, “istituzionale”, a favore appunto della scuola-istituzione.

Questo insieme di condizioni che ci favorì non toglie naturalmente merito alla bravura ed alla tenacia dei tanti che allora lavoravano all’ENAIP, dando ogni giorno buona prova di coraggio e determinazione, voglia di lavorare ma anche saggezza e buona cultura. Spesso, in questi anni, tentando di confrontarmi con un presente che vedo ben più ambiguamente complicato di quello d’allora, ho dovuto ricordare a me stesso che, come sempre nella vicenda umana, le potenzialità e le stesse opportunità che vengono offerte a chi ha voglia di fare sono inevitabilmente destinate a camminare sulle gambe degli uomini; anche allora infatti la nostra capacità di esprimere lavoro e cultura, esperienza e voglia di costruire ebbe successo perché fummo in gradi di leggere correttamente, e quindi utilizzare bene, quella favorevole  congiuntura che proprio per questo poté essere resa profittevole, costruendoci sopra opportunità reali trasformabili in risultati concreti.

Questo è quanto accadde all’ENAIP in quel decennio che parte dal ’63-64 e si conclude di fatto poco dopo il 1972/73, con l’avvio della concreta attuazione dei decreti di Donat Cattin. La visione corretta di una congiuntura altamente favorevole, unita ad una condizione di solidità e certezza dirigenziale saldata con una buona tenuta organizzativa e finanziaria, a sua volta garantita da un quadro politico altrettanto solido perché fondato sulla tenuta e sul ruolo, allora riconosciuto e rispettato, di quella grande organizzazione che erano le ACLI nel sistema di potere del tempo.

Immagino che altri, meglio di me, potranno descrivere nel dettaglio quella fase che fu, ripeto, di grande sviluppo ma anche di buona solidificazione per l’ENAIP, avendo a disposizione anche i necessari elementi fattuali indispensabili per ricostruirla. Non essendo in questa condizione, io mi limiterò ad indicare sinteticamente quelli che, nel mio ricordo, furono allora i punti di maggiore qualificazione della nostra azione. Il primo, come ho già detto, fu indubbiamente quello degli uomini: quelli che lavoravano a Roma nella sede centrale come i tanti impegnati nella periferia. Il finanziamento pubblico era, in quel tempo, tutto centralizzato ed anche se i soggetti operativi periferici ne rimanevano i maggiori fruitori si trattava di un assetto che consegnava al vertice romano una capacità di indirizzo, di omogeneizzazione ed anche di controllo che, ben gestito, fu un moltiplicatore dello sviluppo che allora si poté realizzare: una crescita, ripeto, rapida ma anche abbastanza diffusa ed omogenea. Quando arrivai all’ENAIP, all’inizio del 1967, questa modalità di gestione centralizzata era già stabilizzata in una pratica di governo fortemente verticale, anche se il rapporto centro-periferia rimaneva sempre molto agile ed informale, sopratutto perché si sovrapponeva e doveva confrontarsi in continuità con la pratica democratica della vita delle ACLI. Di fatto, in quel tempo, il momento di decisione per l’ENAIP era sintetizzato in una riunione mensile del tutto informale, a cui partecipavano il presidente delle ACLI, il vice operativo ed il direttore. Nel concreto lavoravamo così: io proponevo i punti di decisione, consultandomi con il direttore: si trattava in genere di non più di una trentina di argomenti; nel giro di una mattinata si discuteva e si arrivava alle decisioni. In quella paginetta – indice di 20/30 punti era concentrato tutto il governo dell’Ente: dalla grande iniziativa per “inventarsi” una attività innovativa nel settore “educazione degli adulti” alla decisione di aprire un contenzioso con un fornitore; dal contributo straordinario per il nuovo magnifico Centro di addestramento di Padova all’acquisto di un automobile da utilizzare per i bisogni della sede centrale. Naturalmente Labor quando, in una di queste prime riunioni, mi azzardai a proporre l’acquisto di una FIAT 1.100 per le nostre esigenze di mobilità alzò un bel polverone, criticando quello che presumeva essere un nostro “lassismo” comodoso: riteneva infatti quella dell’auto una spesa eccessiva, un lusso consumistico a cui non dovevamo adeguarci e che probabilmente era destinato a farci del male; e si affrettò a controproporre l’acquisto di qualcosa di molto più piccolo o, come aggiunse subito: “meglio niente del tutto”. Riuscimmo a sconfiggere la sua ritrosia, di evidente ed antica derivazione ebraica, perché potemmo appellarci al buon senso di Pozzar, anche lui presente alla riunione perché in quei primi mesi svolgeva il ruolo, molto informale, di “cane da guardia” di Acquaviva: un giovanotto che, in fondo, come pensavano in parecchi, “non era mai stato al comando di qualcosa di più grande di una scrivania”.

Questa del darti una responsabilità ma senza mai perderti di vista, pur se alla luce di una cristianissima carità realmente praticata, era un modo di fare molto congeniale con il cattolicesimo sociale di quelli che allora guidavano quella grande organizzazione: un “Movimento in movimento”, come recitava lo slogan del Congresso delle ACLI appena celebrato nel 1966. Chiedo scusa se torno a proporre il mio caso personale per cercare di trasmettere il senso di come lavoravamo in quegli anni: lo faccio perché spero così di essere più diretto e di farmi capire meglio. Io allora ero un trentenne che aveva sempre lavorato, appunto, “dietro una scrivania”; mi intendevo naturalmente, ed anche parecchio, di formazione ed anche di formazione professionale specifica perché l’avevo studiata, ne avevo scritto (tra le altre cose ero stato io l’autore della relazione introduttiva che Labor lesse al Convegno ACLI del 1963 sulla formazione professionale, quello “fondativo” della nostra proposta di riforma organica del settore); ne conoscevo in particolare la realtà “sistemica” perché, su incarico di Giuseppe Glisenti, che allora era il potente “capo formazione” all’IRI e, in quanto tale, membro della Commissione Medici per la riforma della scuola, avevo fatto quell’anno una ricerca innovativa che si era tradotta in un rapporto molto dettagliato su struttura, organizzazione ed appunto finanziamento del “sistema professionale extrascolastico”, come allora si chiamava il nostro spezzone di attività formativa. Ma sarei stato in grado di gestire un “baraccone” con più di 130 centri permanenti, migliaia di insegnanti, decine di migliaia di allievi, una montagna di apprendisti? Geo Brenna, che era il mio capo all’ufficio studi, fu quello che, a mia insaputa, mi aveva sponsorizzato; ma anche lui era un altro tizio portato all’astrazione: come fidarsi del suo giudizio? Il direttore ENAIP allora in carica, che si chiamava Cesare Graziani, un “espertone” che veniva addirittura dall’ENI, conosciuta la mia designazione se ne era andato sbattendo la porta. Insomma: l’aria che tirava non era delle più favorevoli nei miei confronti. Labor mi raccontò, anni dopo, che prima di decidere, anche lui evidentemente non certissimo sulla mia tenuta, aveva chiesto un parere, diciamo “spirituale”, ad Emilia Scarpa, una santa donna (era anche una consacrata, che purtroppo morì pochi anni dopo) che lavorava con Maria Fortunato alle ACLI; ed Emilia, con il suo modo brusco e diretto, l’aveva incoraggiato e rassicurato. Carico di questo bagaglio, il buon Livio mi chiamò allora a rapporto, dopo formalizzata la nomina. Mi accennò appena a questi fatti e cristianamente mi risparmiò i suoi dubbi; mi fece invece partecipe della sua idea di comando, su quale dovesse essere la caratura del servizio che la Provvidenza, tramite lui stesso, mi poneva da quel momento sulle spalle. Non omise nulla. Soprattutto non dimenticò di chiarire che ero libero ma sotto controllo, autonomo e quindi sollecitato ad essere innovatore ma anche impegnato sempre ad essere innanzitutto trasparente, leale, riconoscibile e visibile, in ogni mia azione. Anche sui soldi, aggiunse guardandomi ben dritto negli occhi: rubare, e rubare ai poveri, era un peccato mortale grave.

Una lezione di vita, un viatico fraterno, non da padre-padrone ma da compagno di strada, che mi ha accompagnato tutta la vita.

Partimmo così. C’era naturalmente Mario Gilli, il vice sempre presente, l’indispensabile certezza che dava solidità a tutta la grande casa. E nell’autunno del 1967 arrivò il nuovo direttore, Alberto Valentini, un bravo ricercatore del Censis che De Rita mi aveva proposto alla sua maniera, dicendomi: “sai, un ricercatore sociale non può fare questo mestiere tutta la vita, perchè rischia di inaridirsi; meglio che lo prendiate voi”. Alberto fu un ottimo acquisto, come poi l’esperienza dimostrò ampiamente; ma anche la sua nomina procurò qualche dolore di pancia perché in quel piccolo mondo della sede centrale c’era chi ancora sospirava per la dipartita del predecessore o magari sperava in una soluzione interna. Fatto sta che io, ignaro dei turbamenti dei più, portai la nomina in Consiglio non solo senza ambasce ma soprattutto come una decisione che si motivava da sola, non fosse altro che per il robusto curriculum che l’accompagnava. Non solo: dopo avere sommariamente illustrato le gesta del candidato misi in votazione il gradimento come un’ovvietà. Ero talmente sicuro della mia scelta che rimasi sinceramente meravigliato quando, conclusa positivamente la riunione e rimasto solo con Pozzar, ascoltai la telefonata con cui lui doverosamente “relazionava” Labor sulla vicenda, non senza ridacchiare nei miei confronti senza vergogna, mentre bofonchiava rivolto al Presidente: “non ci crederai, ha letto il curriculum di corsa e poi non ha fatto parlare nessuno; ha fatto solo votare!”

Insieme al ricordo della qualità degli uomini di quei tempi, la questione che più di altre può essere utile riproporre oggi è quella di tornare sulla sottolineatura accennata circa gli apporti innovativo-culturali ed anche professionali che allora fu possibile immettere nella vita e nella tradizione culturale dell’ENAIP. Si trattò di una scelta politica che rese anche possibile incrementare relazioni e solidarietà esterne all’ambiente aclista, favorendo così l’acquisizione di occasioni favorevoli per la qualità della nostra crescita complessiva, capaci di saldarsi con il diffuso rafforzamento organizzativo a cui ho fatto cenno.

I fascicoli monografici della rivista che furono editi in quella fase possono fornire una traccia testimoniale di quanto ho appena detto; essi sono infatti buona dimostrazione dello sforzo di innovazione e di ampliamento della nostra influenza, anche culturale, che allora riuscimmo a promuovere ed anche a mettere in campo. I temi monografici affrontati in quegli anni  propongono infatti un tracciato di riflessione politico-formativa che se non è sempre lineare ed omogeneo appare indubbiamente capace di interpretare e costruire il nuovo a cui tendevamo, almeno quanto rimanevamo attenti a sostenere l’incremento dell’ordinarietà della vita dell’ENAIP di tutti i giorni. Provo a spiegarmi, portando un esempio che ho ben presente nella memoria mentre scrivo. Una grande foto di copertina di un numero (il 36) di Formazione e Lavoro, uscito credo all’inizio del 1969, e che è dedicato ad un momento straordinariamente significativo di questo nuovo che ci interpellava allora con tanta urgenza, e che capivamo essere anche portatore di una ambigua violenza. L’immagine è quella di una moltitudine, che sembra innumerevole, di ragazzi (e di ragazzini) che marciano compatti in una via di Milano intrisa di nebbia, schierati come soldati dietro un grande striscione che sembra quasi appiccicato alla loro prima fila e su cui è scritto a lettere cubitali: “la scuola siamo noi”. È come un grido che punta diritto a chi guarda la copertina. È netto ed esplicito. Sembra veramente l’espressione insopprimibile di un moto di liberazione e di riscatto. Ma quello che accompagna quel grido e che costituisce la vera atmosfera della foto è ancora, nella mia memoria, l’insieme che lo circonda: e cioè un’aria cupa, plumbea, tristissima, che trasmette un messaggio che va anche oltre quello della sfida esplicita scritta nello striscione; è come se il movimento inespresso da quella massa di giovanissimi nasca come da un moto di disperazione, sia più vicino alla paura che alla speranza.

Quel fascicolo della nostra rivista era tutto dedicato a L’altra Università, tema allora al centro di un confronto politico e sociale che si stava facendo ormai aspro e contestativo, saldandosi con le tensioni prorompenti di un “autunno caldo” mosso da una forte spinta operaia. Esso fu indubbiamente un testo la cui costruzione può oggi testimoniare con efficacia quella ricerca del nuovo che allora ci dominava, quell’ansia nostra di guardare al futuro: anche se, al contrario di quanto emergeva da quell’immagine, noi lo vivevamo con la fiducia di chi intendeva costruirlo ed anche governarlo questo futuro, perché se ne intuivamo tutti i rischi (almeno potenziali) che l’accompagnavano ne constatavamo anche, ogni giorno, la straordinaria forza riformatrice di cui era portatore. Insomma: in quella fase sentivamo bussare perentoriamente, anche alla nostra porta di “formatori sociali”, come un preannuncio del cambiamento epocale che urgeva e tumultuava, ben visibile e concreto, alla base del Paese.

Era, quella del cambiamento, una parola ed un sentimento che ci spingeva a confrontarci con passione in particolare rispetto a quella èlite di giovani universitari che stava emergendo dalla battaglia mossa dalla contestazione studentesca: quella, appunto, che viveva prevalentemente nelle strade e nelle università milanesi. Il tramite che ci aveva portato questi giovani fin sulla porta di casa era stato Luigi Covatta, il capo allora dell’Intesa universitaria (l’associazione costruita nelle università dai giovani della DC e dell’Azione Cattolica), proprio in quei mesi folgorato da Labor sulla sua via di Damasco e quindi accasatosi alle ACLI; l’interprete, il cocciuto decrittatore del loro linguaggio “rivoluzionario”, l’uomo appassionato che li voleva incrociare ed interpretare ad ogni costo per condurli sulla strada della riforma praticata e non della rivoluzione demagogica e senza sbocchi, era Giovanni Gozzer, il geniale interprete e predicatore, unico e solo, del rinnovamento della scuola italiana; il professionista della riforma scolastica che viveva a due passi dalla nostra sede, in quel brutto palazzone di Viale Trastevere e che proprio in quel tempo eravamo riusciti a convincere di venire a dirigere Formazione e Lavoro. Gozzer, allora autorevolissimo capo dell’Ufficio studi del Ministero della Pubblica Istruzione, volle portarci, in quei primi mesi del 1969, sulle colline di Frascati, suoi ospiti nella mitica Villa Falconieri, per una lunga giornata di confronto e di riflessione a tutto campo proprio con questi giovani “rivoluzionari” consegnatici da Covatta. Ne scaturirono ore di discussioni appassionate, ma anche fruttuose di buon confronto, che poi si tradussero nel fascicolo della rivista di cui ho detto. Alcune di quelle idee e proposte, ad una lettura critica e distaccata, potranno oggi apparire fin troppo datate ed anche possedute da una vena di astrattezza non del tutto coerente con la tipicità del lavoro che impegnava, contemporaneamente e nel concreto, tanta parte degli operatori dell’ENAIP. Ciò per me non diminuisce il significato positivo che essa poté esprimere nel suo tempo: non solo nell’arricchimento che ci fu rispetto al nostro lavoro alla sede centrale ma su tutta la nostra attività, soprattutto quella dedicata alla proposta formativa. Riuscimmo cioè allora ad esprimere un grande segnale di apertura verso l’esterno insieme ad un messaggio di buona modernizzazione verso l’interno; e ciò favorì anche la costruzione di un scivolo agibile nei confronti di un accesso – dapprima potenziale ma che era destinato a realizzarsi, almeno in parte – di una nuova classe dirigente utilizzabile dall’insieme del movimento aclista. Quell’apertura rappresentò comunque un intelligente tentativo di indicare obiettivi concreti, riformatori e praticabili, ad un fenomeno che appariva ed era, allora, fortemente positivo anche se nasceva incorporato con una tara duramente contestativa; un tentativo, il nostro, razionale e riformatore e che fu proposto in tempo utile per poter essere utilizzato da chi avesse voluto costruire il nuovo e non solo cavalcare un’azione puramente distruttiva.

Voglio infine a ricordare, per concludere questo punto, che accanto alla presenza di ventate innovative del tipo che ho descritto la gestione “ordinaria” dell’ENAIP continuava a camminare su di un terreno solido e si incrementava anche in presenza di una buona e costante opera di revisione. Per spiegarmi posso proporre un cenno sulla crescita di un settore innovativo ben inserito in questa “ordinarietà”: l’avvio, che si realizzò proprio in quei mesi del 1968/69, e la sua rapida stabilizzazione, dell’attività di ben sette centri permanenti di educazione degli adulti, finanziati dalla Cassa del Mezzogiorno e dislocati nel Sud  dell’Italia. Questa fu, per l’ENAIP di allora, una grande opportunità di crescita, un innesto non tradizionale ed anche largamente sostenuto dalla mano pubblica, che fu da tutti noi ben colto ed anche utilizzato per potenziare, contemporaneamente, l’insieme della nostra cultura formativa, ampliandone lo spettro ma anche le specifiche esperienze. Questi centri erano dotati di un corpo stabile di operatori culturali, scelti da noi e da noi formati, che si dimostrarono nel complesso di un buon livello svolgendo anche un’influenza positiva nel sostenere l’azione educativa e promozionale propria delle ACLI.

2.

Quel lungo decennio – che, ripeto, fu molto favorevole ma anche sanamente provvidenziale per i destini dell’ENAIP – con l’avvio degli anni ’70 prese realmente a volgere verso altre direzioni, portandosi dietro non pochi degli aspetti positivi che ci avevano sostenuto in quegli anni e che purtroppo non erano destinati a ripresentarsi davanti ai nostri occhi. Rispetto ad essi voglio tornare francamente a riconoscere che allora non fummo in grado di vedere, di questo giro di boa epocale, né i preannunci infausti né le pericolosità ed i danni sociali e formativi che ne sarebbero derivati e che ne costituirono il lascito dannoso rispetto ai suoi esiti finali. Allora non capimmo in particolare – e quindi non ci attrezzammo a batterci per opporci con la determinatezza necessaria – l’errore decisivo, insieme politico e culturale, che prese rapidamente piede in quel torno di tempo, affermandosi poi nettamente perché fu in grado di saldarsi all’avvio di una tumultuosa corsa alla scuola, già in atto ma che fu ulteriormente incentivata dalla crescita economica e sociale del Paese e poi anche fortemente sostenuta e sopratutto indirizzata dalla introduzione della scuola media unica. Fu infatti per queste due ragioni concomitanti, in sé naturalmente altamente positive – la nascita della scuola unica e l’avvio di una “corsa alla scuola” –, che in quegli anni si affermò la netta preferenza “istituzionale” per l’opzione scolastica rispetto alla formazione per il lavoro ed alla sua storia antica e positiva. Con la conseguenza di abbandonare ad un destino marginale e minoritario una grande tradizione educativa, dalle solide basi pedagogiche e didattiche, la cui importanza è provata dal fatto che esse oggi tornano prepotentemente a riemergere, proprio perché costituiscono un lascito indispensabile rivalutato fortemente nella modernità. Una modernità che vediamo appunto tornare a pretendere duramente una formazione legata al lavoro.

Questa sconfitta di una esperienza culturale basata su di una primaria opzione formativa si realizzò allora nei fatti, molto all’italiana: come è purtroppo accaduto quasi fatalmente, ed in più di un caso, per scelte non meno importanti della nostra storia anche recente. Allora essa si costruì e si realizzò praticamente senza un confronto, senza una pur minima corresponsabilizzazione dei soggetti reali – forze sociali, sindacati ed imprenditori – che ne erano comunque i depositari storici; soprattutto fu costruita nel vuoto valutativo, senza che si misurassero e si dibattessero seriamente opzioni diverse, fondate su di un calcolo realistico dei rischi e delle variabili possibili. Prevalse allora una sottovalutazione diffusa della grande scelta si veniva realizzando perché essa si muoveva “al coperto” favorita dal fatto di sapersi saldare con forme di demagogia tradizionale, all’italiana appunto. E fu per questo che esse poterono usufruire del concorso anche nostro, anche di quelli che erano schiettamente riformisti ma erano anche buoni conoscitori del tema: come indubbiamente risultavano essere quelli che operavano nelle ACLI e nell’ENAIP.

Detto in poche parole, quello che avvenne fu che l’avvio della scuola media unica ebbe una gestione a sciabolate, senza raziocinio e senza gradualità. Esso portò alla soppressione immediata, ritenuta inevitabile, delle scuole di avviamento: e cioè della maggiore ma anche della migliore esperienza formativa che si era costruita fino ad allora in Italia nel rapporto scuola-lavoro. Fu così lanciato un messaggio demagogico e purtroppo inevitabilmente vincente, nel nome del progresso e dell’uguaglianza: per andare avanti, per progredire non serviva una formazione orientata – anche se a tempo e modo – al lavoro e comunque fondata su solide capacità professionali: bastava andare a scuola, ad una scuola qualunque e comunque. Il danno evidente insito nell’assunzione di una impostazione siffatta venne nel tempo seppellito sotto la coltre, appunto demagogica, che declamava di una liberazione dai vincoli di classe, di una promozione indefinita di tutte le intelligenze, della disponibilità garantita a tutti, ricchi e poveri, di andare finalmente avanti in una crescita scolastica infinita.

L’orientamento politico progressista dei socialisti, ma poi anche dei comunisti, in barba a qualsiasi evidenza concreta rispetto alla preminenza storica degli interessi formativi del lavoro, si saldò allora con naturalezza alla spinta corporativa e conservatrice mossa dai democristiani (Ministro Luigi Gui, dominatrice “concreta” del Ministero dell’Istruzione Maria Badaloni): e la preminenza scolastica vinse a mani basse, rappresentata allora, plasticamente, dall’affermazione ben visibile di una “scuola di massa” per tutti, simbolo e insieme strumento di crescita reale, come di sviluppo democratico generalizzato. Fu un fallimento. Completato e di fatto ulteriormente incentivato nel 1967 dalla liberalizzazione degli accessi universitari, che codificò l’inevitabilità di un processo di omogeneizzazione e quindi di depauperamento dell’intero sistema formativo pubblico, di cui oggi possiamo misurare fino in fondo gli esiti tragici sia in termini di dequalificazione che di difficilissimo governo.

Per la verità non fummo solo noi, operatori e cultori dell’importanza del lavoro nella costruzione di una cultura per la professione nella modernità, ad essere assenti nella battaglia di opposizione a questa deriva, anche perché magari troppo distratti dal doverci occupare, e preoccupare, della crescita concreta degli strumenti di cui eravamo gestori. Oggi possiamo riconoscere che l’onda della corsa verso la scuola di massa sarebbe stata comunque troppo alta e forte per qualsiasi critica od opposizione, costruita da parte di chiunque; lo sarebbe stata comunque per tutti coloro che avessero voluto opporre ad essa la sola ragionevolezza di una storia culturale e di una esperienza formativa nata addirittura nelle corporazioni medievali, rispetto all’ambizione di milioni di famiglie italiane per l’ambito “pezzo di carta”. Come che sia, fu comunque così che decadde e si annullò allora una esperienza formativa vitale e necessaria ed anche una grande cultura.

Quello che oggi possiamo tornare a considerare è l’indispensabilità, ai fini proprio della ripresa di una crescita del nostro sviluppo di nazione progredita, di un ritorno al rapporto virtuoso tra la formazione a tutti i livelli ed i valori culturali e professionali di un lavoro vissuto e concretamente praticato. Rispetto al riemergere prepotente di questo bisogno preliminare, oggi si comincia ad intravedere come necessaria addirittura la messa in opera di un programma di descolarizzazione, operazione ritenuta indispensabile rispetto all’elefantiaco apparato che gestisce, per tanta parte ancora centralmente, un sistema scolastico prevalentemente statale portandosi dietro inevitabilmente inefficienze ed improduttività crescenti. È facile prevedere che questo impegno, ormai ritenuto obbligato, quando sarà avviato a realizzazione porterà ad incentivare corposamente lo sviluppo di forme aggiornate e moderne di un apprendistato diffuso e generalizzato, ma anche molto mirato professionalmente. Infine, obbligati dalla realtà delle cose più che dai paventati scandali, sarà anche inevitabile riproporsi una riconsiderazione realistica, ma anche sufficientemente radicale, della gestione della formazione per il lavoro in capo alle Regioni, ad oggi visibilmente fallita.

3.

Per concludere. Penso francamente che sarebbe un bel modo di ricordare gli eventi positivi che accompagnarono la crescita dell’ENAIP di quegli anni lontani, se da riflessioni di questo tipo ne potesse scaturire l’impegno, per tutti noi, di tornare a lavorare per riportare in equilibrio il rapporto tra formazione scolastica, professionalità, lavoro. L’egocentrismo un po’ senile che, riconosco, mi ha sospinto ad intrappolarmi in troppi ricordi di quella che comunque fu una bella stagione per me e molti altri, potrebbe trovare così una sua corretta giustificazione, indirizzandosi verso l’utilità di tornare a lavorare su di un programma concreto, possibile ed utile. Ringraziando il buon Dio anche io ho ancora, come immagino molti dei miei lettori, lucidità sufficiente per continuare a vedere le tante opportunità che emergono dal pur difficile presente che è davanti al cammino di tutti noi. La mia opinione è che tornare sul tema della riforma del rapporto formazione-lavoro con serietà, buon approfondimento e sana determinazione, possa essere un buon modo per fare oggi l’ENAIP: per onorare degnamente quel passato glorioso e ricordarne le esperienze generose e laboriose, ma anche per contribuire a sostenerne un futuro positivo e produttivo.